Tra gli archivi delle Biblioteche Italiane si nascondono storie di persone comuni, sommerse dal flusso della Storia, che nel suo racconto non lascia spazio alle esperienze quotidiane della gente più semplice.
Tuttavia, capita che alcune di queste voci riemergano dagli archivi polverosi e ignorati, grazie al lavoro erudito e minuzioso di storici alla ricerca di nuovo materiale da studiare per riportare alla luce il passato dimenticato.
Nel coro di queste voci dimenticate, Carlo Ginzburg, storico italiano, è riuscito a trovarne una che, per la sua peculiarità, sembra proprio meritarsi un posto al di fuori dal coro. Il nome di questa personalità è Domenico Scandella, chiamato dai suoi compaesani "Menocchio", un mugnaio friulano del XVI secolo bruciato dall'Inquisizione. Ma come mai l'Inquisizione sentì il bisogno di bruciare un povero e innocuo mugnaio friulano in un piccolo paese in provincia di Pordenone? O, meglio, cosa rendeva questo mugnaio meno innocuo di quanto potremmo pensare?
Ne Il formaggio e i vermi, Ginzburg racconta l'esperienza di questa singolare personalità e, recuperando le carte dei processi inquisitoriali, restituisce a Menocchio la voce che, paradossalmente, quegli stessi documenti processuali tentarono di sedare.
Come già accennato, Menocchio era un semplice mugnaio friulano che viveva a Montereale, a ridosso delle montagne. Aveva una moglie e sette figli e i pochi introiti che riceveva dalla sua attività li spendeva per portare avanti la famiglia.
Fin qui, la sua biografia non sembra molto diversa da quella di un qualunque mugnaio del XVI secolo; tuttavia, Menocchio aveva qualcosa in più: sapeva leggere e scrivere. Non si sa come Menocchio fu in grado di acquisire tali conoscenze, probabilmente in qualche piccola scuola parrocchiale di paese. Fatto sta che, personalità di indole curiosa, tali conoscenze gli aprirono universi che altrimenti gli sarebbero stati preclusi. Difatti, oltre a saper leggere e scrivere, Menocchio sapeva utilizzare uno strumento, all'epoca come oggi, molto pericoloso: la ragione. Non si accontentava di quello che dicevano i suoi compaesani, non gli bastavano i dogmi del cattolicesimo, né gli bastava assimilare passivamente quanto lui stesso leggeva. No, Menocchio doveva rielaborare a modo suo ogni conoscenza con cui entrava in contatto; sentiva ribollire dentro di sé un calderone di pensieri e ogni nuova lettura, ogni nuova conoscenza gli forniva gli strumenti linguistici e concettuali per esprimere la sua personale visione di Dio, dell'uomo e del cosmo. In paese, tutti lo conoscevano per le sue strane teorie, ma allo stesso tempo avevano di lui un gran rispetto, ma ciò non basto per sottrarlo dal lungo braccio dell'Inquisizione. Il suo pensiero, infatti, stava cominciando a diffondersi; non tanto perché si stavano creando nuovi seguaci, cosa che nemmeno Menocchio avrebbe auspicato, ma perché di bocca in bocca stavano rimbalzando le strane opinioni di quel mugnaio friulano dalla lingua molto lunga.
Il 7 febbraio 1548 l'Inquisitore di Aquileia inizia a interrogarlo. Menocchio, che fino ad allora aveva potuto parlare soltanto con i propri compaesani, e che spesso aveva ripetuto che avrebbe voluto esporre le sue teorie davanti a re, papi, vescovi e cardinali, finalmente ha l'occasione di parlare con "uomini di cultura". Il rischio non lo spaventa, o forse non comprende come un uomo possa essere imprigionato, torturato e ucciso per le proprie idee e, dunque, senza alcuna remora, inizia a esporre la sua concezione del Cosmo davanti agli Inquisitori che, tentando di ricondurre le sue eresie a forme note, si accorgeranno presto che Menocchio non è né luterano, né cataro, né anabattista o albigese. Menocchio è semplicemente Menocchio; tutto ciò che esce dalla sua bocca è frutto del suo pensiero, della sua ratio, come egli stesso avrà spesso l'occasione di sottolineare. Ciò agli inquisitori sembrava inconcepibile, ed è per questo che anche in loro si risvegliò la curiosità, che trasformò presto il processo in una lunga disquisizione filosofica, con lo scopo di comprendere e sviscerare le eresie del mugnaio friulano.
Ma cosa diceva Menocchio di così pericoloso? Le sue teorie sono una originale, a volte fantasiosa (e per questo geniale), rielaborazione delle sue letture e della sua esperienza quotidiana.
Per quanto riguarda Dio e la Creazione dell'Universo, Menocchio sostiene che in principio: "tutto era un caos, cioè terra, aere, acqua et foco insieme; et quel volume, andando così, fece una massa, aponto come si fa il formazo nel latte, et in quel diventorno vermi, et quelli furno li angeli et tra quel numero de angeli ve era anco Dio, creato anchora lui da quella massa in quel medesmo tempo". Dalla sua cultura empirica e contadina, Menocchio aveva appreso che nulla si crea dal nulla e possiamo immaginarcelo mentre, producendo il formaggio, vede la materia aggregarsi passando dallo stato liquido a quello solido; e, ancora, possiamo immaginarci Menocchio sorpreso all'apparir dei vermi, apparentemente dal nulla, in quel medesimo formaggio che qualche mese prima aveva lasciato a stagionare. In fondo, come insegna un'antica dottrina che vede un nesso inscindibile tra microcosmo e macrocosmo, "Così in alto così in basso". Questo semplice ma allo stesso tempo misterioso e meraviglioso processo che porta la materia ad aggregarsi in un tutto compiuto e ordinato, che porta il nascere di forme di vita da questo Tutto dev'essere il medesimo che ha portato alla nascita dell'Universo. E, infatti, sempre agli inquisitori Menocchio dice:
"Come alle cose di questo mondo le quali procedendo da imperfetto a perfetto, sì come per esempio il putto mentre è nel ventre della madre non intende né vive, ma uscito dal ventre comenza a vivere, et tuttavia crescendo comenza a intendere: così Iddio, mentre era con il caos, era imperfetto, non intendeva né viveva, ma poi allargandosi in questo caos lui comenzò a vivere et intendere [...] l'intelletto riceveva cognitione dal caos, nel quale eran tutte le cose confuse: et di poi a esso intelletto li dette ordine e cognitione [...] come crescete lui la cognitione, così crebbe in lui il volere et il potere".
Dio nasce dunque dalla medesima materia da cui nascono tutte le cose; ma, similmente al Nous di Anassagora, Dio è il principio ordinatore che si sviluppa a partire dalla materia, in senso panteistico, per poi cominciare a ordinarla:
"Iddio era nel caos come uno che sta nell'aqua si vol slargare, et come uno che sta in un boscho si vol slargare: così quest'intelletto avendo cognosciuto si vol slargare per far questo mondo [...] Iddio e caos sempre siano stati asieme, né mai siano stati separati, cioè il caos senza Iddio né Iddio senza il caos".
In tale contesto, anche l'uomo è formato dagli stessi quattro elementi di cui è formato il cosmo, poiché anch'egli nato dalla medesima materia da cui è nato Dio; di conseguenza, in questo senso l'uomo, esattamente come Gesù, è figlio di Dio. Egli partecipa del suo Spirito Santo, poiché lo spirito ordinatore di Dio è insito in tutte le cose. L'anima dell'uomo, dunque, non è immortale. O, meglio, non lo è nel senso tradizionale del termine secondo il quale essa preserva la propria individualità: "Tutte le cose del mondo sono Dio" dice Menocchio all'inquisitore, "et credo, quanto a me, che le anime nostre tornino in tutte le cose del mondo". Il morire è un dissolversi. Torna in Menocchio un'altra distinzione presente nel pensiero esoterico, quella tra anima e spirito; distinzione tanto più sorprendente nelle sue parole se si pensa che egli l'ha desunta dalla propria ragione, senza rifarsi ad altre dottrine. L'anima è il centro della propria personalità, da cui provengono le facoltà che associamo alla personalità individuale: "Nell'homo vi è intelletto, memoria, voluntà, pensiero, creder, fede et speranza: le qual sette cose Iddio le ha date all'homo, et son come anime per le quale bisogna far le opere, et questo è quello che io diceva morto il corpo morta l'anima [...]".
Lo spirito, invece, è la forza vitale divina che anima tutte le cose, di cui anche l'uomo partecipa: "credo che altro sia l'anima et altro sia il spirito. Il spirito vegna da Iddio, et sia quello che quando havemo da far qualche nostra faccenda n'ispira a far la tal o la tal cosa o non farla [...] il spirito è separato dal homo, ha l'istesso voler de l'homo, et regge et governa questo homo".
Come accennato in precedenza, in tale prospettiva anche Gesù è allo stesso tempo un uomo come gli altri e un figlio di Dio come gli altri. Forse influenzato dai Viaggi di Mandeville, che descrivendo le usanze dei popoli accennano anche alla dottrina Musulmana, forse ispirato dal Corano stesso che, secondo testimoni, Menocchio avrebbe letto in volgare, il nostro mugnaio considerava Gesù un grande profeta, ma pur sempre un essere umano.
Tale considerazione ha implicazioni teologiche e dottrinali rivoluzionarie. Menocchio non ha alcun pudore nel confessare ciò che pensa di tutte le istituzioni e i rituali creatisi, in seno ecclesiastico, intorno alla figura di Cristo. Animato dal medesimo spirito di protesta di altre correnti eretiche di stampo evangelico, Menocchio sostiene che si debba tornare non solo alla semplicità dei Vangeli, ma a una semplicità di morale e di vita che abbracci l'intera esistenza umana. Gli stessi Vangeli, infatti, contengono fin troppe rielaborazioni letterarie e teologiche che inficiano il messaggio originario di Gesù. Un messaggio pratico, volto esclusivamente agli uomini poiché è più importante far del bene alle altre persone che venerare Dio, poiché nel momento stesso in cui tu agisci moralmente nei confronti del prossimo stai venerando Dio, rispettando lo spirito santo presente in ogni persona. Ne deriva un'estensione universale del concetto di uguaglianza; non importa la fede, importa soltanto amare il prossimo, poiché per la fede ognuno si salva a modo suo (essendo le fedi molteplice in base alla cultura di appartenenza), ma sono le opere in terra a far la differenza.
In un colloquio riportato da un certo Lunardo Simon, chiamato a testimoniare davanti all'Inquisitore, questi racconta che, avendo chiesto a Menocchio se egli credeva nei Vangeli, il mugnaio aveva risposto: "No, mi non credo. Chi credi che tu faccia questi Evangelii se non preti et frati, che non hanno altro da fare?". Come già accennato, ciò che Menocchio rigettava dei Vangeli non era tanto l'insegnamento morale in sé, bensì il modo con cui la Chiesa se ne era appropriata attraverso l'istituzione. Da un lato, impedendo che essi venissero tradotti in volgare, dall'altro con la serie di dogmi e discussioni teologiche che ne hanno seppellito il valore originario.
"Vorrei che [la Chiesa] fuse governata amorevolmente come fu instituita dal signor Giesu Christo [i rituali ecclesiastici] sono messe pompose, il signor Giesu Christo non vuol pompe".
Menocchio si augura dunque un rinnovamento spirituale e culturale a tutto tondo. Denuncia il monopolio della lingua, in particolare l'utilizzo del latino anche nei processi, come uno strumento di oppressione e controllo sociale di fronte al quale i poveri e poco istruiti come lui non possono che soccombere, non sapendo cosa si sta dicendo e necessitando, dunque, di un avvocato (che a sua volta introduce un ulteriore filtro tra loro e il potere, oltre che un ulteriore dispendio di denaro).
Rigetta i sacramenti come rituali inventati a tavolino dai preti per arricchirsi ed estendere il controllo della Chiesa su ogni aspetto ed età della vita dell'uomo. Con il battesimo "iniziano a mangiare anime fin dalla nascita" e continuano anche dopo la morte con l'estrema unzione, la quale può ungere soltanto il corpo ma non certo l'anima. Il matrimonio è una finzione; prima gli uomini e le donne si amavano tra loro, e questo bastava. Confessarsi a un prete è come confessarsi a un albero, e la penitenza non ha alcun valore perché non ci si salva struggendosi ma esclusivamente con le proprie opere e, in particolare, le buone azioni nei confronti del prossimo.
Non è difficile immaginare lo sbigottimento degli Inquisitori di fronte a un semplice mugnaio che era stato in grado di spingersi così oltre nel pensiero. Dalle loro categorie dogmatiche, non possono credere che quelle parole provengano dalla testa di Menocchio e in ogni modo cercano di riportarle a dottrine a loro note, senza successo. Lo stesso Menocchio, davanti alla loro incredulità e, allo stesso tempo, per mitigare le accuse nei suoi confronti, attribuisce tali dottrine alla voce di un demone che gli parla (simile, per certi aspetti, al daimon socratico). Eppure, appena ne ha l'occasione sottolinea che tutto ciò che dice non gli è stato riferito da alcuna persona mortale, fino a quando giunge a confessare, con orgoglio, che tutte le sue opinioni le aveva formulate con il proprio "cervel sutil" avendo voluto "cercare le cose alte che non sapeva".
Dopo il primo, lungo, processo Menocchio fu condannato al carcere a vita e poi liberato per le sue precarie condizioni di salute. La stima nei suoi confronti, in paese, era così alta che anche dopo l'incarcerazione tornò ad amministrare i conti della Chiesa di paese. Tuttavia, il suo spirito libero era irrefrenabile. Denunciato nuovamente all'Inquisizione, da quel Lunardo Simon citato poco sopra, il secondo processo si conclude tragicamente con la condanna al rogo.
In conclusione di questo rapido excursus, si possono trarre molte conclusioni dalla vicenda di Menocchio.
Anzitutto, sul ruolo dell'educazione. Menocchio aveva di per sé un'indole curiosa e irriverente, ma i libri di cui riuscì a entrare in possesso coltivarono il terreno fertile di quest'indole, in un perpetuo processo dialettico che portava Menocchio a proiettare le proprie idee sui testi che leggeva e, allo stesso tempo, i testi che leggeva a far nascere nuove idee. La ratio, da lui stesso citata, e la curiositas di indagare ciò che non si conosce, per quanto alto ed elevato sia, si pone come elemento di discrimine tra la sua genialità e, invece, l'ottusità degli inquisitori che, per quanto colti, istruiti ed eruditi, non riescono a concepire e a tollerare la diversità.
Ed è proprio questo elemento di discrimine che permette di accostarlo, insieme alle sue teorie, a un'altra grande vittima dell'Inquisizione: Giordano Bruno. Trovo che vi sia una stretta affinità, quasi sincronicità, tra i due personaggi. Inquisiti nello stesso arco temporale, bruciati a poco tempo di distanza l'uno dall'altro, entrambi per tesi eretiche che abbattevano secoli di dogmatismo e che tentavano di recuperare l'originario spirito della riflessione filosofica, traendo terreno fertile sia dall'osservazione naturale dei fenomeni sia dalla profonda e personale intuizione spirituale; entrambi martiri del libero pensiero, che nemmeno le fiamme riuscirono a zittire. Soltanto la formazione culturale li distingueva, ma proprio questo elemento permette di sottolineare da un lato la genialità di Menocchio e dall'altro la preminenza dell'indole e della libertà del pensiero critico rispetto al mero eruditismo. Seguire il cervel sutil è, dunque, il più grande insegnamento che Menocchio, con le sue parole e con la sua vita, fu in grado di trasmettere a una società troppo sorda per ascoltarlo.
Ho parlato di Giordano Bruno nell'articolo: Giordano Bruno, l'eroe di campo de' fiori
Daniele Palmieri
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