I paradossi degli stoici è un breve trattato di Cicerone, dedicato a Bruto, in cui l'oratore, politico e filosofo romano compendia la saggezza dello stoicismo in sei paradossi, brevi e lapidarie sentenze lontane dal comune sentire, ma che proprio ribaltando le opinioni consuete rivelano una profonda sapienza.
Vediamo, dunque, quali sono queste sei proposizioni elencate da Cicerone e come esse riassumano in sé il sapere dello stoicismo.
1) E' buono solo ciò che è onesto.
Tra le grandi discussioni all'interno dello stoicismo, che Cicerone tratta nel De officiis, sul calco di Panezio, vi fu quella che vide contrapporsi l'onesto e l'utile. Cosa bisogna fare quando l'utilità personale collide con il bene pubblico? A cosa bisogna dare la preminenza, all'interesse individuale ed egoistico, seguendo una sorta di "legge di natura", oppure al bene collettivo, dando preminenza alla legge civile? Secondo gli Stoici, tra cui Panezio, il conflitto è solo apparente. Difatti, onesto e utile coincidono sempre, poiché onesto è solo ciò che è buono, e se qualcosa è buona per forza di cose è anche utile, anche se apparentemente sembra andare contro l'interesse individuale. Con "buono" si intende ciò che non va contro la legge morale interiore, ordinatrice tanto della nostra anima, quanto delle relazioni sociali e quanto dell'ordine del cosmo. Si tratta del Lògos ordinatore, che fa in modo che ogni cosa sia a suo posto e che non vi siano conflitti che dilanino la nostra anima, la società o il cosmo stesso. Questa legge interiore è il bene più prezioso che possediamo, poiché è essa a dirigere la nostra vita e soltanto con essa possiamo vivere senza smarrirci; qualsiasi bene esterno non potrà mai arricchirci più di quanto ci arricchisce la legge interiore, unico bene che nessuno potrà mai sottrarci, e che possiamo perdere soltanto nel momento in cui noi, cedendo al vizio, la abbandoniamo. Ne consegue che l'utile personale coincide soltanto con ciò che è onesto, come evitare di mentire al prossimo per mero interesso egoistico, e ciò è "buono" proprio perché coincide con la legge morale interiore, che porta equilibrio tanto in noi stessi quanto nella vita.
2) Chi possiede la virtù non ha bisogno di altro per vivere felicemente.
Come accennato in precedenze, non vi è bene più grande della nostra legge morale interiore. Per approfondire questo concetto, non bisogna pensarla come un freddo e astratto "imperativo categorico" alla Kant, un dovere astratto e impersonale, ma come una norma di vita vissuta, volta a equilibrare noi stesso con il mondo esterno e, attraverso lo sviluppo delle virtù, aiutarci a trovare un cardine inamovibile che ci permetta di rimanere saldi in ogni tempesta. Per questo solo chi possiede la virtù può essere detto felice. La virtù è quel bene stabile che, una volta acquisito, rende i beni esterni soltanto accessori, poiché attraverso la virtù impariamo a essere continenti, a bastare a noi stessi, a essere liberi in ogni situazione, a non lasciarci condizionare dal prossimo e a resistere alla fatica, alle intemperie, ai dolori della vita.
3) Ogni colpa è equivalente, così come ogni buona azione.
Come sostenevano gli Stoici antichi, che tu sia sul fondo del mare o soltanto con naso e bocca immersi sotto il pelo dell'acqua, in entrambe le situazioni affogherai, anche se nel secondo caso l'aria si trova a pochi millimetri dalle tue narici. Con questa metafora, gli stoici spiegavano il terzo paradosso citato da Cicerone. Ogni colpa testimonia un vizio, e dunque un'imperfezione che allontana ugualmente il filosofo dalla sapienza, poiché, come scritto in precedenza, per gli Stoici la sapienza non è un sapere astratto e teoretico, ma una saggezza di vita vissuta, che si conosce soltanto quando si mette in pratica e che si possiede soltanto quando si vive per intero, ossia quando si è stati in grado di sviluppare tutte le virtù. Ed è per questo che, similmente ai vizi, ogni buona azione, dalle più semplici alle più eroiche, si trova sullo stesso livello: poiché ogni buona azione testimonia una ben più profonda virtù interiore, che porta ad agire sempre coerentemente al proprio principio morale.
4) Ogni stolto è pazzo.
Gli stolti sono coloro che, cadendo nel vizio, si condannano all'autodistruzione, a una vita in balìa degli eventi e, dunque, a una vita infelice. Gli stolti sono infelici per loro stessa scelta, visto che costruiscono ogni giorno la propria vita non su fondamenta stabili, come quelle della virtù, ma su fondamenta di sabbia: i beni esterni e il vizio, che possono però venire a mancare da un momento all'altro. E chi, se non un pazzo, costruirebbe la propria casa sulla sabbia?
5) Solo il sapiente è libero; ogni stolto è servo.
Visto che lo stolto ripone la propria felicità in balia dei beni esteriori, che sono per natura fragili e mutevoli, esso ne diviene schiavo: schiavo del loro movimento, spaventato dal loro mutamento, è costretto a correre dietro la loro fuga e allo stesso modo è sballottato dai propri desideri smodati che non è in grado di gestire. Al contrario il sapiente, che ha posto in se stesso il proprio fondamento e che ha riposto in sé il principio della propria azione, è padrone assoluto della propria volontà e, dunque, libero di agire in base a ciò che pensa, senza alcun condizionamento.
6) Solo il sapiente è ricco.
Ogni animale, se intrappolato, anela ad essere libero; eppure, l'uomo è l'unico animale che, spesso, rinuncia volontariamente alla propria libertà, condannandosi a una vita di schiavitù, in balia di ricchezze effimere e di desideri smodati. Per questo solo il sapiente è ricco; si possono possedere tutte le ricchezze esteriori del mondo, ma intrappolarsi così in una torre d'oro e avorio. Uno solo è il tesoro che conta: la virtù, che permette all'uomo di liberarsi da ogni catena e di vivere in assoluta libertà.
Cicerone, I paradossi degli stoici
Daniele Palmieri