venerdì 29 giugno 2018

René Guenon: Il Re del Mondo. Il mito di Agartha

Nei primi decenni del '900 vengono pubblicati in Europa due testi molto diversi tra loro, ma accomunati da un peculiare racconto.
Il primo è un libro di Saint-Yves, pubblicato postumo nel 1910, intitolato Mission de l'Indie, un resoconto di viaggio intriso di motivi iniziatici in cui l'esoterista francese narra di essere entrato in contatto con un illuminato regno sotterraneo, chiamato Agarttha, governato da un grande sacerdote, il Brahmatma, che dal suo impero sommerso dirige le sorti politiche e spirituali del mondo, in attesa di tornare alla luce con il suo popolo.
Circa dieci anni dopo Mission de l'Indie, esce prima in Polonia e poi nel resto d'Europa un altro reseconto di viaggio, Bestie, Uomini e Déi di Ferdinand Ossendowski, che narra non di un viaggio iniziatico, ma della fuga dell'autore polacco dal nascente regime comunista. Un viaggio ricco di insidie, pericoli, orrori ma anche di natura e meraviglia, dalla taiga russa fino alla Mongolia. Qui, proprio nelle pagine conclusive del testo, Ossendowski narra di aver udito da un indigeno il racconto di un regno sotterraneo chiamato Agarthi, che si estenderebbe per tutto il mondo lungo una serie di gallerie sotterranee, e che sarebbe governato dal cosiddetto "Re del Mondo", un sovrano illuminato in diretto contatto con Dio, che governa la città sotterranea in attesa del suo ritorno.
Alla pubblicazione, il racconto di Saint-Yves fu subito visto con sospetto, frutto di una sua fantasticheria o, semplicemente, come una metafora esoterica che affondava le sue radici nelle antiche Utopie del passato, come quelle di Platone, Campanella o Bacon. Tuttavia, il resoconto estremamente simile di Ossendowski sollevò molti interrogativi e, soprattutto, polemiche. Inizialmente si pensò al plagio e si andò alla caccia di tutte le concordanze testuali tra il testo di Yves e quello di Ossendowski. Eppure, le somiglianze più che "condannare" il giornalista russo sembrano conferire maggiore veridicità al mito di Agarttha/Agarthi, soprattutto alla luce di alcuni particolari che, lungi dall'avvalorare il plagio, testimoniano le tipiche variazioni a cui i racconti orali sono soggetti. Bisogna poi aggiungere che, mentre la narrazione di Saint-Yves è mossa, fin dal principio, da motivi iniziatici, Bestie, uomini e dèi di Ossendowski nasce come resoconto fedele e oggettivo della fuga dell'autore e lungo tutta la narrazione la prosa è piana, semplice, tipica della cronaca giornalistica e del racconto autobiografico; mentre Saint-Yves dice di aver visto con i propri occhi il mondo di Agarttha, Ossendowski si limita a riportare in maniera imparziale le informazioni tramandate dai nativi incontrati nei giorni conclusivi del suo viaggio. Come accennato, è probabile dunque che le somiglianze riscontrate derivino da una medesima tradizione orale, viva tanto nei popoli dell'India quanto in quelli della Mongolia.
Ed è alla luce di tale prospettiva che René Guenon scrisse Il Re del Mondo, breve pamphlet filosofico in cui l'esoterista francese dimostra come non ci si debba sorprendere delle somiglianze tra le due narrazioni, se lette alla luce delle tradizioni mitiche e religiose globali. In questo testo, Guenon sviscera le fonti mitiche della favolosa Agartha. Al di là delle polemiche sterili sul plagio o sulla libera fantasia da parte dei due autori, Guenon mostra come le loro narrazioni affondino le loro radici in simboli ben più profondi, ricorrenti in tutte le tradizioni.
Il Re del Mondo altro non sarebbe che l'archetipo del sovrano universale, in cui potere sacro e potere temporale coincidono poiché egli è entrato in contatto con le leggi superiori e trascendenti dell'universo, e può dunque fare da ponte (da qui il termine pontifex, pontefice, "costruttore di ponti") tra realtà sensibile e realtà sovrasensibile. Dal punto di vista religioso, tale figura è sempre ricorrente e spesso contraddistinta dalla medesima origine etimologica e mitica: quella di Manu, legislatore universale che, oltre nell'Induismo, ricorre anche tra gli Egizi con il nome di Mina o Menes, tra i Greci con il nome di Minosse, tra i Celti con il nome di Menw. Anche nell'Antico Testamento ritorna una figura simile, il misterioso profeta Melchisedec, sacerdote di un culto misterioso, più antico dello stesso ebraismo, che nel testo sacro benedice Abramo, il quale ne riconosce la funzione di "sacerdote superiore", quasi fosse, appunto, testimone di un sacerdozio universale.
Il Re del Mondo, vive nelle viscere della terra dove si è occultato con il sopraggiungere del Kali Yuga, ciclo cosmico che chiude il progressivo decadimento dell'universo, corrispondente all'Età del Ferro di Esiodo, che terminerà proprio con il disvelarsi del Re del Mondo e il suo ritorno dal mondo delle tenebre, nel quale si era nascosto in attesa della rivelazione finale (l'Apocalisse che, etimologicamente, significa appunto "rivelazione").
Da regno sotterraneo, tuttavia, il Re del Mondo continua a tessere le sue trame. Sia Saint-Yves sia Ossendowski descrivono un regno formato da intricati dedali di gallerie che si estendono per l'intero pianeta, al cui centro si ergerebbe, appunto, la mitica città di Agartha, nella quale si sarebbe rifugiato un antico popolo illuminato, che ha raggiunto la massima perfezione spirituale, per ripararsi dal cataclisma del diluvio universale che sommerse l'intero loro continente.
Guenon sottolinea la somiglianza di questo mito con la vicenda non solo di Atlantide, ma anche di Aztlan, la "terra in mezzo alle acque", patria dalla quale di "dispersero"le diverse popolazioni indigene dell'america latina, tra cui gli Aztechi e che Guenon identifica con la stessa Atlantide (benché, attualmente, tale interpretazione non sia attualmente ritenuta filologicamente affidabile). Sempre nel mito Azteco e anche in quello Tolteco si racconta, inoltre, di come alcune popolazioni di Aztlan si siano disparse per il mondo dopo essere vissute, per secolo, all'interno di grotte sotterranee.
In generale, il mito di Agartha è affine alle molteplici "terre divine", fecondate dalla luce della divinità, come la Terra Santa, Avallon, la Terra di prete Gianni, la mitica Thule, le regioni Iperboree, il Giardino dell'Eden, l'Isola dei Beati, i cosiddetti "centri del Mondo" o "regioni polari" che rappresentalo l'asse attorno alla quale ruota l'intero cosmo. Questi regni sono sempre contraddistinti dalla loro irraggiungibilità, dal loro rivelarsi a pochi iniziati che hanno raggiunto la perfezione spirituale, dalla simbologia dell'Albero, che affonda le sue radici nella terra e si eleva fino al cielo, penetrando così i tre mondi: quello infernale, quello mediano-umano e quello celestiale paradisiaco. Sono inoltre terre edeniche in cui, come ad Agartha, la popolazione ha raggiunto la perfetta realizzazione spirituale, spesso resa metaforicamente con l'immagine della vita eterna, e da qui la separazione dal resto dell'umanità, ancora corrotta e avvinta dal velo di tenebre.
Anche l'immagine del "regno sotterraneo" ha innumerevoli riscontri e rappresenta, in maniera speculare e complementare, la sacralità della montagna. Mentre la montagna si estende fino al cielo, la grotta si estende verso le viscere del terreno ma, in entrambi i casi, il loro punto più estremo rappresenta, con la sua irraggiungibilità, il punto di contatto tra il mondo terreno e il mondo divino, sede delle forze e degli influssi spirituali, porta d'accesso tra questo e l'altro mondo. Dal punto di vista simbolico, questa coincidenza tra altezza e profondità è rappresentata dal detto alchemico "come in alto così in basso"; dalla stella di David, composta da due triangoli equilateri le cui rispettive punte sono dirette verso il cielo e verso l'abisso; dalla coppa del Graal e dalla Lancia di Longino, laddove la prima rimanda all'idea dell'incavo nel terreno, mentre la seconda al triangolo che punta verso la volta celeste.
Ma Agartha, dunque, è una terra reale o soltanto una metafora, si chiede Guenon. L'esoterista francese sottolinea come esistano molteplici "centri del mondo", ognuno dei quali è però soltanto il riflesso della vera "Axis mundi" che, secondo Guenon, indipendentemente dalla realtà geografica, esiste proprio perché manifesta nella più profonda realtà simbolica.
 
René Guenon, Il Re del Mondo, Adelphi
 
Daniele Palmieri

martedì 26 giugno 2018

Natan Feltrin: Umani troppi umani. Il problema della crescita demografica

L'ecologo Garret Hardin pubblicò, nel 1968, un articolo destinato ad avere un grande impatto nella discussione ecologica, filosofica e scientifica: The Tragedy of Commons. In questo breve testo, Hardin si focalizzò sul cosiddetto "problema dei commons", gli appezzamenti di terreno comuni in cui i pastori potevano portare al pascolo il proprio bestiame. 
In questi campi, ciascun pastore ha interesse nel far mangiare al bestiame la maggior quantità di erba possibile, in modo che i propri capi godano di buona salute, si riproducano e aumentino di numero, incrementando così il profitto. Tuttavia, se ogni pastore adotta questa politica individualista di sfruttamento del terreno, che dà risultati positivi a corto termine, a lungo termine andrà incontro a una catastrofe non solo personale, ma collettiva. L'utilizzo indiscriminato del terreno comune causerà un impoverimento del suolo; ogni anno, la quantità di erba decrescerà e con essa la quantità di cibo disponibile per il bestiame il quale, cresciuto in maniera indiscriminata , non potrà ora soddisfare i propri bisogni e sarà destinato a una progressiva decimazione. Il tutto finché il sistema non raggiungerà un punto critico per il quale la quantità di risorse consumate sarà nettamente superiore rispetto a quelle rinnovate. Una condizione irreversibile: il campo verde si è ormai trasformato in una landa arida, il tutto a causa della cecità dei singoli pastori, accecati dal profitto a corto termine e incapaci di ragionare a lungo termine.
Secondo Hardin, il mondo è un immenso "commons": un territorio comune, dalle risorse limitate, che stiamo sfruttando senza alcuna coscienza come i pastori dell'apologo ecologico con il pascolo, e se non si invertirà questa tendenza saremo destinati a morire come l'inconsapevole bestiame.
Sebbene la denuncia ecologica di Hardin fu condivisa da numerosi ecologisti, scienziati e filosofi, altre problematiche connesse al problema dei commons e alcune soluzioni suggerite dall'ecologista suscitarono un acceso dibattito, e per le sue posizioni anticonvenzionali ricevette numerose accuse di cinismo e di "neodarwinismo sociale".
Secondo Hardin, infatti, strettamente connesso al problema dello sfruttamento delle risorse è quello della popolazione mondiale. Nell'esempio dei commons, ad accelerare il processo di impoverimento del suolo è la crescita del numero di capi di bestiame. Allo stesso modo, alla crescita demografica senza eguali dell'ultimo secolo, che nemmeno le guerre mondiali hanno rallentato, cresce in maniera esponenziale il numero di risorse richieste e consumate. Una crescita che, secondo Hardin, è stata favorita in maniera sconsiderata dagli stati sociali e dai loro sistemi di welfare, nonché dalle loro politiche sull'incremento della natalità e della produzione industriale.
Benché l'atteggiamento lucido e razionale di Hardin sfoci, effettivamente, in un eccessivo cinismo nei confronti della vita umana, egli ebbe il merito di intravedere la catastrofe demografica che, a oggi, è prossima al punto critico e che, tuttavia, è ancora un argomento un tabù.
Umani troppi umani di Natan Feltrin, edito da Eretica Edizioni, è un testo estremamente importante, perché oltre quarant'anni dopo l'articolo di Hardin torna sull'argomento tabù della crescita demografica, attraverso una panoramica ad ampio respiro, che parte dai primi studi in materia del XIX secolo fino ad arrivare ai dati più recenti circa la crescita della popolazione umana e il consumo di risorse.
Tra le teorie principali analizzate in Umani troppi umani, alla base del problema dei commons, vi è l'intramontabile teoria di Malthus sul rapporto tra popolazione e risorse disponibili. Secondo la metafora usata dallo stesso Malthus, e riportata da Feltrin, la popolazione umana cresce a passo di lepre, mentre la quantità di risorse a passo di tartaruga. In termini matematici, se l'andamento della crescita demografica cresce in progressione geometrica, il numero di risorse cresce invece in maniera matematica. Questa grande discrepanza porta inevitabilmente al collasso della società, favorito paradossalmente dal benessere, quando il numero di persone, incrementato a causa delle condizioni favorevoli, ha superato in maniera eccessiva il numero di risorse.
Feltrin sottolinea come il grafico di Malthus sia una descrizione "ottimale", che necessita delle dovute approssimazioni e, soprattutto, di alcune precisazioni. La modalità di produzione di risorse ne può incrementare sia la quantità sia la "velocità di passo", e occorre inoltre distinguere tra quantità di risorsa e disponibilità della stessa, laddove è la disponibilità, in ultima analisi, ad avere maggiore preminenza.
Tuttavia, ciò non toglie che nel nocciolo della questione Malthus aveva visto lungo: per quanto l'uomo possa incrementare i metodi produttivi, le risorse stesse che egli consuma per accelerare la produzione sono limitate.
E' un punto particolarmente delicato, affrontato nella seconda parte del testo, dove Feltrin mostra, a partire dai principi della termodinamica, come:

"La Terra ha un quantitativo di materia finito, considerando come ininfluenti le interazioni con asteroidi, dispone di un quantitativo di energia più o meno costante garantito dalle radiazioni della sua stella, tutta l'energia è destinata a degradarsi e a disperdersi sotto forma di calore"
(Natan Feltrin, Umani troppi umani, Eretica Edizioni, p. 126).

Ed è qui che non solo Malthus, il cui lavoro non aveva come fulcro la salvaguardia dell'ambiente, ma gli sviluppi dei successivi studiosi della population growths risultano fondamentali nel cogliere il principale problema dell'impatto dell'uomo sull'ambiente. La combo "numero di persona sulla terra" e "quantità di risorse richieste e prodotte" risulta, a lungo andare, fatale, tanto più nell'epoca contemporanea in cui il progresso scientifico e tecnologico, unito all'economia capitalista, ha incrementato non solo il benessere globale, ma soprattutto il numero di risorse depredate per soddisfare una quantità sovrabbondante di bisogni.
Se pensiamo che un ritmo simile non è mai stato sostenuto né dall'umanità né dalla terra, se pensiamo che ogni anno viene anticipato l'Earth Overshoot Day (giorno in cui l'umanità ha consumato tutte le risorse precedenti disponibili), se pensiamo che le stime sulla crescita globale della popolazione prevedono un'umanità sempre più numerosa, è inevitabile accorgerci di come la terra sia presto destinata a diventare un campo arido come il commons descritto da Hardin. A maggior ragione se si riflette sul fatto che: 

"Questo è il vero limite imposto dal progresso umano: l'unica fonte eterna e sicura di energia è quella proveniente dal Sole ed in base ad essa si deve regolare la vita e l'economia. Qui sorge il delicato problema del rapporto tra economia ed ecologia [...]. Queste due discipline dovrebbero lavorare in armonia per garantire il massimo del benessere e della stabilità all'interno di quella casa comune che è l'ecosfera. Purtroppo questo non avviene principalmente a causa di premesse antitetiche alla base delle due scienze: per il modello economico capitalista è la crescita dei consumi ad essere indispensabile garanzia di benessere, per la scienza ecologica sono l'omeostasi e l'equilibrio a salvaguardare la qualità della vita su Gaia" (Natan Feltrin, Umani troppi umani, Eretica Edizioni, p. 126).

L'incapacità di ragionare a lungo termine, di mettere da parte l'interesse egoistico e soggettivo in favore del benessere collettivo, sta conducendo non solo l'uomo, ma l'intero pianeta, al collasso, a tal punto che si può parlare di una nuova era geologica che il premio Nobel per la chimica Paul Crutzen definì "Antropocene". 
Come scrive Feltrin:

"Molti usano questo termine come sinonimo di Età dell'uomo, appellativo decisamente egoreferente e tracotante, ma, dal punto di vista etimologico, Antropocene significa Uomo Nuovo, dal greco anthropos, ovvero uomo e kainos, nuovo. [...] La data di confine tra Olocene e Antropocene [...] viene stimata alla metà del Novecento in seguito alla traccia lasciata in maniera permanente dall'uso dei primi ordigni nucleari [...]. L'aumento delle temperature, i rifiuti plastici, l'innalzamento e l'acidificazione degli oceani, l'alterazione di alcuni fondamentali cicli biogeochimici [...], l'incredibile perdita di biodiversità, l'impressionante crescita demografica di Homo sapiens sono solo alcuni degli eventi di cui ipotetici geologi di un lontanissimo futuro potranno osservare testimonianze fossili" (Natan Feltrin, Umani troppi umani, Eretica Edizioni, p. 141-142).

In cosa consiste, tuttavia, la "novità" dell'Uomo Nuovo dell'Antropocene? Secondo Feltrin, in due fattori: anzitutto l'apoteosi della tecnica e l'utilizzo di risorse mai sfruttate in precedenza, come il petrolio, che tuttavia si sta già dimostrando un fortunato ma breve incontro, dato che presto sarà destinato a finire; in secondo luogo, il fattore essenziale: la sua responsabilità nei confronti della natura. Mai come nell'Antropocene l'uomo ha avuto un impatto così devastante e duraturo, destinato a cambiare l'intero ecosistema terrestre, e allo stesso tempo mai come oggi ha maturato la consapevolezza dei danni che la sua attività è in grado di provocare. L'Uomo Nuovo, sottolinea Feltrin, può anche essere un novello Atlante in grado di sacrificarsi nell'impresa di rimediare agli immensi danni che sta provocando, onde evitare l'approssimarsi di un'altra era, ancor più terribile: l'Eremocene.
L'Eremocene viene definita da Feltrin come l'era della Grande Moria, in cui la terra si è ormai trasformata in un eremo dell'uomo e della flora e della fauna da egli addomesticate. Cancellata ogni forma di biodiversità, si è trasformata in un'immensa fabbrica sovrasfruttata, destinata infine a collassare su se stessa e sul suo insalubre e incosciente "proprietario". 
Trovare una soluzione che sia in grado di invertire il declino non è semplice; diverse proposte sono state formulate nel passare degli anni, come la teoria della decrescita felice di Latouche, ma come sottolinea Feltrin, finché il problema della popolazione globale rimarrà tabù e finché non si remerà anche in questa direzione, si corre il rischio che le misure adottate si dimostrino insufficienti.
Certo, si tratta di un terreno molto pericoloso. Il controllo delle nascite è stato proposto da diversi filosofi e pensatori e ha un'origine antica, che vede in Platone prima e in Campanella poi tra i principali teorizzatori, ma politiche sociali imposte dal governo rischiano di trasformarsi in uno strumento dispotico nei confronti dei cittadini. 
Come per la rivoluzione verde, lì dove il governo è lento a intervenire o lì dove c'è il rischio che politiche sociali possano trasformarsi in uno strumento di dominio, è il singolo a dover prendere l'iniziativa e a intervenire sulle proprie scelte e il proprio stile di vita. Tuttavia, per quanto concerne la questione della natalità, la questione diventa molto più spinosa; può la riproduzione individuale diventare una scelta morale o immorale, al pari delle scelte individuali di "green economy"? 
Feltrin cita la posizione di Pasolini che, negli stessi anni di Hardin, aveva parlato di "delitto ecologico" "nell'atto di procreare in un pianeta così affollato" (p. 132).
Personalmente, volevo concludere l'articolo facendo convergere le prosprettive ecologiche con visioni "altre", proprie del mondo spirituale e filosofico.
Nel corso della storia, sono sempre esistite, seppur minoritarie, visioni escatologiche che aspiravano a liberare l'uomo attraverso l'interruzione della riproduzione. Tra i casi più emblematici, quello dei Catari, setta "eretica" del medioevo che considerava il mondo il tempio di un Arconte malvagio, e che vedeva in una vita di purificazione, volta al rifiuto del superfluo, alla semplicità, al veganesimo e, soprattutto, nel divieto della riproduzione, l'unica via per liberare non solo l'uomo, ma possibili discendenti, dal dominio della sofferenza.

Una prospettiva simile a quella catara è stata espressa, in epoca contemporanea, da Thomas Ligotti, per il quale l'uomo, destinato a una vita di dolore e sofferenza, dovrebbe mettersi il cuore in pace e smettere di riprodursi. Andare, mano nella mano, verso un'ultima mezzanotte e liberare se stesso e il mondo con la prima "estinzione consapevole e volontaria" della storia.

Queste posizioni sono radicali, spinte principalmente da motivi spirituali e filosofici; eppure sfiorano, per motivi diversi, una posizione affine a quella di Pasolini e, in generale, nel dilemma etico estremamente legato al tema della crescita demografica. Consapevoli che le future generazioni dovranno fronteggiare i dolori, i cataclismi, la fame, le carestie che stiamo causando con il nostro sfruttamento di risorse indiscriminato, siamo davvero certi che non sia profondamente immorale mettere al mondo nuove anime destinate alla sofferenza? Non li stiamo forse condannando all'inferno dominato dall'Arconte descritto da Catari? Forse davvero una delle possibile vie d'uscita consiste non solo in nuove prospettive economiche, ma in un percorso spirituale, quasi ascetico, che ci aiuti a liberarci dal superfluo, che boicotti la macchina infernale dei bisogni terreni che, mai come negli ultimi secolo, ha condotto l'uomo verso l'autodistruzione.

In conclusione, consiglio vivamente la lettura di Umani troppi umani di Natan Feltrin; attraverso l'ampia panoramica sul tema, è un ottimo testo sia per introdursi all'argomento sia per approfondire gli sviluppi e le problematiche più recenti sulla crescita demografica, che ancora rimangono appannaggio di pochi esperti a causa, soprattutto, del tabù imperante sulla questione che Feltrin ha il coraggio di infrangere.

Natan Feltrin, Umani troppi umani, Eretica Edizioni: 
http://www.ereticaedizioni.it/prodotto/natan-feltrin-umani-troppi-umani/

Per ulteriori informazioni sull'autore, è possibile visionare il canale Youtube: Ffrim Channel

Daniele Palmieri

lunedì 4 giugno 2018

Joan Lindsay: Picnic a Hanging Rock. Tempo mistico ed estasi dell'Eros

Picnic a Hanging Rock è un romanzo dell'autrice australiana Joan Lindsay. Pubblicato nel 1967 e divenuto un piccolo testo di culto, ha poi conquistato il grande pubblico con la produzione dell'omonimo film di Peter Weir nel 1975.
La trama di Picnic a Hanging Rock è piuttosto semplice. Ci troviamo in Australia, sabato 14 febbraio 1900, giorno di san Valentino. 
Per festeggiare la giornata mrs. Appleyard, proprietaria dell'Appleyard college, ha organizzato un picnic pomeridiano presso la Hanging Rock, una formazione rocciosa a oltre tre ore di distanza dal collegio femminile. Giunte nei pressi della roccia, quattro studentesse, Miranda, Marion, Irma e Edith decideranno di allontanarsi per esplorare i sentieri che si inerpicano sulla formazione naturale, ma soltanto Edith farà ritorno, in stato confusionale. Miranda, Marion e Irma sono misteriosamente svanite nel nulla, e insieme a loro anche la professoressa mcGraw, insegnante di matematica, che a sua volta si era allontanata per esplorare Hanging Rock. Nei giorni successivi inizia una frenetica ricerca, mentre sull'Appleyard Collage cala un velo di inquietudine generale. Mrs. Appleyard diviene sempre più irascibile, sospettosa e disillusa mentre le certezze del collegio si sgretolano di fronte ai suoi occhi, a causa delle studentesse e dei dipendenti che decidono di abbandonare l'istituto per il timore di quanto accaduto. Il ritrovamento di una delle tre ragazze, Irma, rinvenuta da Mike e Albert, due ragazzi che le avevano viste inoltrarsi nella foresta e che erano rimasti affascinati dalla loro aurea, non farà altro che sollevare ulteriori interrogativi. Irma, infatti, viene trovata dopo circa una settimana di ricerche, ai piedi della roccia, con le unghie delle mani rotte ma con i piedi puliti, e senza segni di violenza. Nemmeno Irma è in grado di raccontare quanto è successo, avendo perso la memoria degli eventi, e non può dunque portar luce sulla misteriosa scomparsa di Miranda, Marion e della professoressa McGraw.
Con il passare dei giorni e il diffondersi delle dicerie, i principali finanziatori del collegio ritirano le proprie figlie e la rovina finale per mrs. Appleyard sopraggiunge quando Sara, compagna di stanza di Miranda nonché sua affiatata ammiratrice, viene trovata morta suicida. 
Di fronte alla rovina dell'istituto, mrs. Appleyard perde completamente la ragione e, disperata, si reca alla Hanging Rock nell'irrazionale tentativo di trovare una risposta agli interrogativi irrisolti. Il suo corpo esanime verrà ritrovato ai piedi della roccia il giorno dopo, ultimo sigillo di silenzio sui misteri di Hanging Rock.
Picnic a Hanging Rock è un romanzo insoluto, che solleva più domande che risposte, da ritmo lento e cadenzato, in cui ogni elemento che si aggiunge alla narrazione degli eventi non fa altro che sollevare ulteriori interrogativi che mai verranno risolti.
Eppure, proprio come le risposte della Sibilla o gli enigmi della Sfinge, che alludono e sussurrano senza tuttavia mai svelare il loro contenuto, Picnic a Hanging Rock è in grado di ammaliare il lettore, che al termine del romanzo si trova permeato da una sensazione di mistero atavico, il cui significato risiede proprio nell'essere impenetrabile. 
L'impatto perturbante e ammaliante del romanzo è dovuto alla ricchezza di motivi simbolici ed esoterici disseminati per tutto il testo, che rendono il romanzo non un semplice "giallo" o "mistery", ma un vero e proprio racconto iniziatico, in cui ritornano motivi classici delle tradizioni esoteriche. 
La natura selvaggia, indomita e senza tempo di Hanging Rock si oppone alla vita
razionalizzata, bigotta, oppressa del collegio vittoriano, già a partire dal titolo stesso del romanzo. Il picnic, infatti, usanza che inizia a diffondersi tra ottocento e novecento, è un tentativo borghese di appropriarsi della natura, godendo esclusivamente del suo volto docile e pacato, addomesticabile durante un pomeriggio di sole. Hanging Rock, al contrario, roccia pericolosa dalla quale le studentesse devono stare alla larga, rappresenta l'aspetto selvaggio, indomito, atavico, pericoloso poiché ignoto, da contemplare nella sua bellezza ma soltanto da lontano: la scalata è proibita, poiché conduce in territori inesplorati. Una critica simile è presente anche nell'incipit di Sette racconti gotici di Karen Blixen, in cui l'autrice danese racconta, con una certa dose di ironia, l'usanza della nobiltà ottocentesca di ritirarsi in luoghi aspri, ai confini del mondo, ma solo nei periodi estivi e senza rinunciare ai comfort della vita borghese.
Il picnic, area di sicurezza di cui il telo steso sull'erba è una grande metafora, rappresenta proprio l'area di comfort conosciuta, che tuttavia non è immune dal fascino e dal richiamo della natura selvaggia.
Hanging Rock è una formazione naturale in cui formazioni misteriose, simboli e monoliti forse posti da qualche antica civiltà si fondono con il paesaggio, in una sorta di Cattedrale atavica.
Durante la loro scalata eterea, Miranda, Marion e Irma, che camminano leggiadre come ninfe, vivono un risveglio iniziatico, una progressiva liberazione dal tempo piatto e lineare, resa metaforicamente con l'improvviso fermarsi di tutti gli orologi all'ora di mezzogiorno, in favore di un tempo trascendente, infinito, antico come la roccia che, come dice Irma, è antica oltre quindici milioni di anni. Edith, la ragazzina grassoccia e ingenua (in senso negativo), che si rifiuta di concepire un arco cronologico così antico e una cifra così spropositata, è una grande metafora di coloro che, di fronte all'ignoto, chiudono gli occhi o distolgono lo sguardo, incapaci di abbattere i confini della propria singolarità e della razionalità, incapaci di immergersi nel mistero. Difatti, Edith durante il cammino è l'unica a tenere lo sguardo basso, a voler tornare indietro, a lamentarsi, e per questo a lei non è concesso di penetrare nel mistero.
Sulla Hanging Rock, tutto vibra di un'energia primordiale:

"Così camminano silenziose verso pendii più bassi, in fila indiana, ognuna rinchiusa nel mondo privato delle proprie percezioni, non rendendosi conto delle pressioni e delle tensioni della massa fusa che la tengono ancorata alla terra gorgogliante; degli scricchiolii e dei fremiti, dei venti vaganti e delle correnti note solo ai saggi pipistrelli appesi a testa in giù nelle sue viscide caverne. Nessuna di loro vede o sente il serpente trascinare le sue spire ramate sulle pietre vicine. E neanche l'esodo dalle foglie e dalle cortecce marcescenti dei ragni, dei vermi e degli onischi colti dal panico. Non ci sono sentieri su questo lato della Roccia. O se mai ci furono sentieri, si sono cancellati da tempo. E' da molti, molti secoli che nessuna creatura vivente [...] ha violato il suo arido petto".

E questa energia primordiale induce le ragazze in una trance sciamanica. Miranda, che poco prima la professoressa di francese aveva paragonato a un angelo di botticelli, è colei che conduce il trio attraverso questo viaggio iniziatico. Leggiadra, meravigliosa, dispensatrice di amore universale, anche nei confronti della "fastidiosa, inetta e inopportuna" Edith, sacerdotessa dell'Eros sprigionato nel giorno di san Valentino, guida il suo seguito di ninfe lungo il ripido e aspro pendio, in una camminata leggiadra in cui le ragazze sembrano levitare, piuttosto che camminare.
Giunti sulla vetta della roccia, in uno spiazzo circolare, le altre collegiali osservate da una spaccatura nella roccia sembrano formiche; da questa dimensione al di là di tempo e spazio, le vicende umane non hanno più alcun significato, sono piccole e misere. Ed è in questo spazio sacro che Miranda, Marion e Irma si inebriano dell'energia misteriosa della Hanging Rock. Si tolgono le calze nere, simbolo della costrizione bigotta del collegio e della sua vita razionalizzante, ballano e danzano estasiate dalla natura e cadono, poco dopo, in un sonno mistico, simile ai sonni sciamanici. Anche Edith cade addormentata, e al risveglio nota le tre ragazze che si dirigono verso una stretta fenditura nella roccia. Le chiama, ma sembrano non udirla "come se si trovassero in un'altra dimensione" e per di più non sembrano camminare, ma levitare. L'urlo di Edith squarcia in silenzio e la sua corsa precipitosa verso il picnic rappresenta la paura di coloro che non hanno il coraggio, né la forza, di abbattere le barriere della mente, di attraversare la fenditura del mistero, e che corrono subito ai ripari. Edith non ricorda cosa è accaduto, sa solo che le ragazze sono misteriosamente scomparse; la sua mente non è in grado di ricordare, poiché la visione della divinità arde l'intelletto di coloro che non sono degni di sostenerla.
L'unica cosa che Edith ricorda è di aver incontrato, nella sua corsa precipitosa, la professoressa McGraw, insegnante di matematica, che si dirigeva a sua volta verso l'Hanging Rock con lo sguardo perso nel vuoto e, particolare indecente nell'epoca vittoriana, senza indossare il vestito, ma con indosso solo le mutande.
Anche alla professoressa McGgraw, insegnante di matematica, tocca la medesima sorte misteriosa delle ragazze. Potrebbe sembrare paradossale, considerando il ruolo professionale della McGraw, e si potrebbe credere che nulla, più della matematica e della geometria, incarni lo spirito razionalizzante, così come si potrebbe confondere la volontà della professoressa di misurare la base della Hanging Rock con il desiderio di ricondurre all'ordine e alla ragione la natura primordiale della formazione rocciosa. In realtà, la McGraw è mossa dal medesimo spirito mistico di Miranda e delle altre ragazze ed è paragonabile a una sorta di ierofante pitagorica, sacerdotessa la cui saggezza matematica è espressione non di una razionalità umana, ma della conoscenza delle leggi che regolano il cosmo. Basti pensare che per i pitagorici antichi il numero era sì fondamento della realtà, ma restava una realtà impenetrabile e mistica. Diversi indizi suggeriscono tale interpretazione. In un breve passaggio, si accenna alla McGraw solitamente intenda ad "ascoltare la musica delle sfere nella propria testa" (edizione Sellerio, p. 26), riferimento alla musica celeste che, secondo la tradizione pitagorica, sarebbe generata dal moto dei pianeti e sarebbe udibile soltanto ai sapienti in grado di riconoscere l'armonia del cosmo. Il secondo indizio è un riferimento esplicito a Pitagora e alla conoscenza delle proprietà dei triangoli rettangoli, in questo caso applicata al tragitto da percorrere (p. 27-28); riferimento, quello ai triangoli, che ritorna anche nelle testimonianze delle ragazze dopo la sua scomparsa, che riportano come la McGraw continuasse a parlare di "triangoli e scorciatoie" (p. 74). Ritorna l'idea del "passaggio stretto", l'insenatura trasversale all'interno della realtà che, come l'ipotenusa, crea una fenditura, uno spacco, entro il quale, evidentemente, la McGraw intendeva condurre non solo se stessa, ma tutte le ragazze del collegio.
Edith non è la sola ad essersi trovata a contatto con il passaggi stretto e a non essere stata degna di attraversarlo. Ho citato, nel riassunto iniziale, Albert e Mike. Il primo è un semplice stalliere e il secondo figlio di una nobile famiglia inglese, ed entrambi si trovavano per caso sul percorso delle quattro ragazze. Mike rimane subito colpito dall'aurea divina emanata di Miranda, e alla loro scomparsa decide di attivarsi personalmente per risolvere il mistero, decidendo di trascorrere una notte sulla pendici della roccia. Anche lui verrà ritrovato, il giorno dopo, in condizioni critiche; la bocca arsa dalla calura, lividi sul corpo, e uno strano taglio sulla fronte. Nelle pagine che descrivono la sua esperienza notturna, Mike prova uno strano sensi di annegamento durante il sonno, come se stesse attraversando una dimensione vischiosa, gorgogliante, ma come suggerisce il suo ritrovamento ai piedi della roccia, anch'egli, come Edith, è stato rigettato dalla fenditura. Egli cercava Miranda, di cui aveva riconosciuto un'aurea divina, ma proprio perché ancora legato alla persona fisica e materiale non è stato in grado di ascendere, invece, al livello eterico e immateriale, di pura essenza spirituale, di cui miranda era un'ipostasi, una portatrice.
Grazie a Mike, tuttavia, si scopre il corpo al limite delle forze di Irma, anch'esso nascosto in una caverna ai piedi della formazione rocciosa.
Irma, così come Mike, è stata rigettata dal portale, il "passaggio stretto" che, come la cruna dell'ago di biblica memoria, consente di passare soltanto a pochi eletti, soltanto coloro che si immergono nel mistero, nel rapimento estatico, abbattendo così i limiti spaziotemporali della loro individualità.  Nelle pagine precedenti alla scomparsa, Irma era sì eterea come le altre ragazze, ma in diversi punti mostra segni di attaccamento eccessivo al mondo (come quando si lamenta dell'atteggiamento di Edith, giungendo perfino a insultarla) e di conseguenza non è degna di accedere alla dimensione divina.
Sul suo corpo ci sono alcuni indizi di quanto le è accaduto. I suoi piedi nudi sono misteriosamente puliti; come accennato in precedenza, nella loro estasi le ragazze sembravano più levitare che camminare, rapite da questa forza misteriosa. Le unghie delle sue mani sono spezzate, quasi le avesse raschiate contro qualcosa. E, infatti, il passaggio per lei si è chiuso, e a nulla le deve essere valso il tentativo di farsi strada raschiandone la superficie. 
Vi è, infine, l'ultima grande esclusa, mrs. Appleyard, la cui esclusione ha tratti ancor più feroci e violenti, riflesso del suo carattere approfittatore, cinico, razionalizzante e bigotto. La sua morte ai piedi dell'Hanging Rock è la metafora conclusiva della definitiva sconfitta da parte dell'irrisoria capacità della ragione nei confronti del mistero atavico dell'essere.
A tessere insieme tutti gli elementi qui analizzati vi è il famigerato "capitolo XVIII" del libro, espunto per volere dell'editor e pubblicato soltanto alla morte di Lindsay. In questo capitolo vengono rivelati gli attimi del rapimento estatico delle ragazze ed è proprio la professoressa McGgraw a fare da sacerdotessa iniziatica, con la camicia strappata e senza gonna, verso la fenditura che conduce alla dimensione misterica dell'esistenza. Liberatisi dei corsetti e dai vestiti, che si librano nell'aria come se stessero levitando, la McGraw indirizza le ragazze verso la spaccatura. Miranda  è la prima a incamminarsi, seguita da Marion, ed entrambe subiscono una metamorfosi (altro simbolo ricorrente nei racconti iniziatici) trasformandosi in rettili striscianti. Ed è proprio a questo punto che Irma si fa titubante; attimo fatale, poiché il passaggio stretto può essere attraversato solo in breve tempo, e qualsiasi ripensamento è indice di una mente ancora legata alla dimensione spaziotemporale "profana". E, infatti, una frana le blocca il passaggio e a nulla servirà il suo disperato tentativo di farsi strada con le unghie.

In conclusione, Picnic a Hanging Rock è un testo magico. Disseminando i semplici intrecci narrativi con i motivi iniziatici ricorrenti in diverse tradizioni, Joan Lindsay crea un racconto che è esso stesso una fenditura nella roccia che consente di affacciarsi sulla dimensione mistica attraversata da Miranda e Marion.
Consigliata anche la visione dell'omonimo film di Peter Weir e, per approfondire, l'ottimo articolo di Marco Maculotti pubblicato su Axis Mundi: https://axismundi.blog/2018/03/18/picnic-at-hanging-rock-unallegoria-apollinea/

Joan Lindsay, Picnic a Hanging Rock, Sellerio.

Daniele Palmieri