Come avvicinarsi all'autore più irriverente e spregiudicato della storia della letteratura
La filosofia del boudoir, Justine, la Nuova Justine, Juliette e, soprattutto, le 120 giornate di Sodoma; chi ha sentito parlare del "Divin Marchese", il Marchese De Sade, di sicuro ha sentito nominare almeno una di queste opere.
Molto probabilmente, accompagnate da un giudizio di repulsione e disgusto per le crudeltà inenarrabili in esse contenute.
E' facile, anzi, inevitabile, avere una reazione del genere a una prima, superficiale lettura, e la tentazione di chiudere il libro diventa forte a partire dalle prime pagine. Io stesso quando cominciai a leggere "La filosofia del boudoir" rimasi spaesato e riuscii a riprenderlo e a terminare la lettura soltanto mesi dopo.
Tutto questo perché le opere di De Sade sono erroneamente catalogate come "letteratura erotica", benché di erotico ci sia ben poco.
Non perché manchino scene di sesso o situazioni "piccanti", tutt'altro; ma esse sono inserite in contesti narrativi e in intrecci che non sono certo quelli di Nove settimane e mezzo o de L'amante di Lady Chatterley.
In Sade sesso e violenza sono intimamente intrecciati; chi si aspetta di leggere romantiche storie d'amore con un tocco frizzante di sensualità è meglio che soffochi queste aspettative, se non vuole rimanere deluso.
Allo stesso modo, chi pensa di trovare le tante famigerate storie BDSM che vanno così di moda nell'ultimo periodo, meglio che si ricreda.
La violenza e la sessualità in Sade non hanno nulla di attraente, come il "fascino proibito" di quell'aborto letterario che è Mr. Grey di 50 sfumature di Grigio, macchietta di basso livello che incarna i peggior stereotipi dell'uomo "tenebroso, bello e dannato".
Non a caso il termine sadismo è stato coniato sul cognome del Marchese Maledetto.
Leggere l'opera di Sade e, soprattutto, apprezzare i contenuti dell'opera di Sade è impossibile se prima non ci si immerge nella filosofia dell'Illuminismo rivoluzionario e nelle estreme conseguenze a cui il Marchese la conduce.
I pilastri su cui essa si regge sono il meccanicismo materialistico di La Mettrie e del suo L'homme Machine e l'ateismo radicale di D'Holbac.
Da questi due autori riprende l'idea di un mondo assolutamente materiale, governato da leggi fisiche immanenti e non certo da qualche fantomatica forza divina.
In tutto ciò, Dio perde ogni ruolo e diventa un'immaginazione dell'uomo, spodestato dal trono che lo pone al di sopra di tutti gli esseri e ributtato nel fango dal quale è stago generato.
La speranza in una vita futura è vana, dunque tutto ciò che conta è godersi il momento e i piaceri della vita terrena.
Ma, mentre D'Holbac e La Mettrie sostituiscono ai valori religiosi decaduti con l'ateismo valori laici, fondati sul rispetto nei confronti dell'Umanità, Sade si spinge oltre e supera quel limite che nessuno aveva avuto il coraggio di superare.
Non esistono valori universali, l'unica legge è quella della natura ed essa prevede che il forte domini, che il debole soccomba.
Sade ci sbatte in faccia questa amara verità e, soprattutto con Le 120 giornate di Sodoma, ci mostra cosa succede quando l'uomo si rende conto di essere l'artefice di ogni valore e di possedere, dunque, nient'altro che fantasmi manipolabili.
L'unico scopo della vita diventa sì l'appagamento dei piaceri carnali; ma non soltanto di quelli che la pubblica moralità consente, bensì l'appagamento di tutte le tendenze incise dal nostro cuore dalla natura, anche le più oscure e deplorevoli.
L'umanità che De Sade dipinge è un'umanità perversa, malata, che non si divide in "buoni" e "cattivi", bensì in "cattivi che riconoscono la loro natura" e "bigotti che reprimono questa natura" benché, in segreto, agognino gli stessi piaceri proibiti.
Le poche anime realmente pure, come Justine, sono ingenue vittime della crudeltà altrui; ma il loro soffrire senza imparare dagli errori non è dettato forse da un amore inconscio per la sofferenza?
Dunque è con questa ottica che bisogna leggere le opere più terribili di Sade; come uno squarcio su quella parte più oscura e perversa che si nasconde in ciascuno di noi.
E, giustamente, non c'è bisogno di imbellire questo Abisso poiché:
"Ignoro l'arte di dipingere senza colori; quando il vizio si trova alla portata del mio pennello, lo traccio con tutte le sue tinte, tanto meglio se rivoltanti; offrirle con tratto gentile è farlo amare, e tale proposito è lontano dalla mia mente" (Tratto da Aline e Vancour, ventitreesima lettera)
Perciò, altro suggerimento importante per chi intenda accostarsi all'opera del Marchese, è di non confondere l'autore con la sua opera perché, citando ancora le sue parole:
"Sì, sono un libertino, lo riconosco: ho concepito tutto ciò che si può concepire in questo ambito, ma non ho certamente fatto tutto ciò che ho concepito e non lo farò certamente mai. Sono un libertino, ma non sono un criminale né un assassino" (Lettere da Vicennes e dalla Bastiglia)
Infine, per chi non ha mai letto nulla del Divin Marchese, consiglio di non partire dalle sue opere principali (quelle che ho citato a inizio articolo), poiché sarebbe come voler iniziare a studiare filosofia cominciando da Husserl o da Heidegger.
Per accostarsi da neofiti è bene iniziare da sue opere "minori" come le Storielle o i Crimini dell'amore, veri capolavori della novellistica e del racconto breve, scevre degli orrori e dalle torture che si incontrano nei suoi romanzi e da poco ripubblicate da L'orma editore e da Elliot edizioni, oppure in volume unico da Lindau.
Daniele Palmieri