COME LEGGERE QUESTO SCRITTO
Raramente, nell’introduzione di una trattazione, ci si imbatte in indicazioni fornite dall’autore su come leggere il testo in questione. Eppure, in questo scritto, mi sento in dovere di farlo.
Sarà perché la felicità è un argomento molto delicato. Ognuno ha la propria idea di “felicità”, spesso influenzata dal proprio vissuto, dalla propensione e dalla sensibilità personale.
Negli ultimi anni sono molti gli scritti che promettono di far conoscere il segreto della felicità. Da un lato, ciò è sintomatico di una società infelice, nonostante l’abbondanza di beni materiali di cui siamo circondati. Dall’altro, però, credo che questi testi mentano, poiché nessuno conosce il vero segreto della felicità e, di conseguenza, nessuno può insegnarlo.
Esistono molte strade, ognuna di esse valida, e ciascuno di noi deve scegliere quella che più lo attrae, sempre nel rispetto della vita e della felicità altrui.
Quanto dico potrebbe sembrare in contrasto con quanto mi accingo a trattare. E lo è, se si legge questo breve testo come uno scrigno che contiene il vero segreto della felicità.
In così poche pagine io non prometto nulla di tutto ciò.
Descrivo soltanto la mia personale esperienza della felicità, che magari può coincidere con la sensibilità di qualcun altro, oppure stimolare spunti di riflessione in chi non la condivide. Quest’ultimo è l’interesse principale della presente trattazione, che avrà raggiunto il suo risultato soltanto se avrà stimolato ulteriori dubbi e domande.
Dall’altro lato, bisogna approcciarsi a questo testo tenendo presente lo spirito con cui è stato scritto.
Esso nasce come una sorta di lunga missiva dedicata a una mia amica che aveva bisogno di qualche consiglio sulla felicità. Similmente a molti testi dell’antichità, come la Lettera a Meneceo di Epicuro, La tranquillità d’animo di Plutarco, le Lettere a Lucilio di Seneca, è stato scritto, dunque, per rispondere a esigenze pratiche della vita, per trovare una risposta filosofica a problemi concreti (e per questo alcuni argomenti sono solo accennati in maniera concisa). Allo stesso tempo, proprio come i testi sopra citati, esso è in realtà rivolto principalmente a me stesso. Si tratta di una forma di meditazione con la quale ho tentato di rendere in maniera sistematica i principi con cui regolo la mia vita, per portare chiarezza tra le mie idee.
Essendo stato scritto ben due estati fa, è un testo che, per certi versi, percepisco ancora come acerbo rispetto a una maturazione che ancora è in corso. Nel tempo che è passato ho cambiato il modo di vedere certe cose e, nei limiti del possibile, ho corretto alcune posizioni in cui non mi rispecchiavo più, ho eliminato certi concetti e ne ho aggiunti altri. Probabilmente, se leggerò questo testo tra un anno ancora, avrò molto altro in cui mettere mano, poiché la felicità è un sentiero che battiamo costantemente e che ci costringe, in un modo o nell’altro, a cambiare di continuo le proprie convinzioni.
Detto questo, lascio il Lettore alle pagine seguenti, rinnovando l’augurio di trovare più domande che risposte.
Con affetto,
D. P.
I
LA FELICITÁ, OVVERO LA TRANQUILLITÁ INTERIORE
[La felicità]
Tutti aspirano alla felicità. Eppure essa pare così sfuggevole, a tal punto da farci creder d’inseguire un’ombra.
Schopenhauer e Leopardi giunsero a conclusioni molto simili tra loro; la felicità è impossibile da raggiungere poiché, realizzato il nostro fine dopo un faticoso percorso, ecco che subentra la noia e subito ripartiamo alla ricerca di qualcosa d’altro, illudendoci, ancora una volta, di poter giungere alla meta finale
[1].
Tale verità è innegabile, ma lo è soltanto sino al punto in cui inseguiamo beni effimeri, di alcun valore, o finché chiamiamo felicità qualcosa che in realtà felicità non è.
Come sostiene Aristotele ne l’Etica Nicomachea, la vera felicità è quella che si rincorre di per se stessa
[2]. Riutilizzando il linguaggio precedente, è la reale meta del nostro viaggio, il punto di arrivo da cui non sentiamo il bisogno di separarci.
Tuttavia, pur avendo indicato qual è la vera natura della felicità, occorre comprendere non solo come raggiungerla, ma anche se esiste una meta simile, giacché altrimenti ogni parola su questo argomento sarebbe spesa invano e tutta la Filosofia Antica perderebbe ogni significato
[3].
E, per farlo, non c’è altro modo che mettersi in viaggio.
[La tranquillità interiore]
Epitteto, un filosofo stoico del I secolo d.C., nel suo Manuale fece un’importante distinzione: da un lato, pose i beni che non sono in nostro potere, dall’altro quelle che lo sono
[4].
Ciò che non è in nostro potere, per definizione, è impossibile da cambiare, dunque non bisogna preoccuparsene; al contrario, sulle cose che sono in nostro potere abbiamo pieno controllo ed è solo tramite esse che potremo realizzarci
[5].
Sempre secondo il filosofo greco, nella prima categoria rientrano il corpo, le ricchezze, gli onori e tutto ciò che dipende dal mondo esteriore; nella seconda la ragione, il desiderio, la repulsione e tutto ciò che cade sotto l’egida della nostra volontà.
Per la seguente trattazione, ci avvarremo della distinzione di Epitteto, ma con alcune differenze.
Difatti, ritengo che il corpo, entro certi limiti, sia da considerare come un bene sottoposto al nostro controllo e, al contrario, che le emozioni possano essere annoverate tra le facoltà che non possiamo influenzare direttamente.
Per ora, però, non ci addentreremo in ulteriori dettagli giacché delle motivazioni che mi portano a tale distinzione discuteremo più avanti.
Alla luce di tali considerazioni, come possiamo raggiungere e definire la felicità?
Per essere raggiungibile, essa deve dipendere da noi poiché se dipendesse solo da ciò che non è in nostro potere sarebbe come voler approdare ad un porto lasciandosi trascinare dalle correnti.
Dunque, è d’importanza fondamentale la prima categoria di beni; ma, al contrario del filosofo Stoico, non ritengo adeguato concentrarsi soltanto su essi, poiché con il giusto approccio è possibile non modificare, ma trarre vantaggio da quello che ci accade intorno. Tuttavia, pure su questo punto ritorneremo in seguito.
Perciò, definiremo la felicità come uno stato di perfetto equilibrio tra l’interiorità e l’esteriorità e, siccome essa è una condizione soggettiva, che interessa la nostra persona, chiameremo tale stato di assoluto equilibrio tranquillità interiore.
Ed ora, definita con precisione la meta, non resta che metterci in viaggio per tentare di raggiungerla.
II
I BENI CHE DIPENDONO DA NOI
Siccome ogni viaggio comincia da un punto di partenza, sarà bene cominciare la trattazione da quello a noi più prossimo, ossia dal mondo dell’interiorità, da ciò che dipende dall’Io. Ma chi è questo Io?
LA PSYCHÉ
[Conosci te stesso]
Il primo passo, apparentemente il più semplice, è in realtà il più complesso.
Infatti, come potremmo presumere di conoscere la meta e la strada da percorre se non sappiamo nemmeno chi si è messo in viaggio? Se è grave viaggiare senza documenti, i quali non contengono nulla su di noi, figuriamoci muoversi senza conoscere l’identità di quel noi.
Nelle opere platoniche riecheggia spesso, per bocca di Socrate, il motto impresso sul tempio dell’oracolo di Delphi: Conosci te stesso.
Leggere tale monito tra gli effluvi, gli incensi e i profumi inspirati dalla sacra pizia, invasata dallo spirito del Dio alla luce delle flebili e tremolanti candele doveva essere un’esperienza mistica, bastevole di per se stessa per afferrare il significato di tale concetto all’istante, come una vera e propria rivelazione.
Purtroppo però, dovremo accontentarci delle mie misere parole, che mai potranno esplicare fino in fondo il significato di questo monito così semplice ma allo stesso tempo così complesso.
Come uno zoppo che necessita di una stampella per camminare, mi aiuterò con le parole del più grande filosofo di tutti i tempi: Platone
[6].
L’ateniese scrisse un intero dialogo su questo argomento, l’Alcibiade I
[7], che ha come protagonisti il saggio Socrate e il giovane, bello, spregiudicato e ambizioso Alcibiade.
Quest’ultimo, appena ventenne, è ai primordi della sua carriera politica e si considera l’uomo più adatto per la polis
[8] di Atene. Socrate, però, tramite la sua arte maieutica
[9], dimostra non solo che egli non conosce la Giustizia, ma che manca del requisito essenziale per qualunque impresa si voglia intraprendere: la conoscenza di sé.
La sua importanza è illustrata con un ragionamento semplice quanto geniale (d’altronde, tutte le grandi intuizioni hanno queste due caratteristiche).
Prendersi cura di qualcosa vuol dire occuparsi non di ciò che le sta intorno, ma della cosa stessa.
Facendo un esempio pratico, un medico per curare una malattia non si occuperà dei vestiti del paziente, bensì del suo fisico.
Allo stesso modo, per migliorare se stessi non si deve badare ai beni esteriori – ossia alle cose che ci circondano – ma al vero noi.
Per farlo, però, bisogna conoscere questo noi, come un medico deve necessariamente sapere chi è l’ammalato per poterlo curare.
Bisogna chiedersi: chi sono io?
Rispondere non è per nulla semplice. Al termine della prima lezione di filosofia della mia vita, in terza superiore, il professore diede come compito un tema, la cui traccia era proprio: chi sono io?
Inutile descrivere quanto fossimo spaesati io e i miei compagni; non solo perché non comprendevamo il senso della domanda, ma perché non sapevamo cosa scrivere.
Chi sei tu? Mi domandava il foglio bianco, senza che io riuscissi a rispondergli.
D’altronde, lo stesso Platone, per bocca di Alcibiade, ammette che “rispondere mi è sembrata molte volte una cosa da tutti, altre volte tremendamente difficile”.
[10]
Tuttavia, il filosofo ateniese non si lascia scoraggiare come facemmo all’epoca noi liceali e, tramite Socrate, esprime la seconda geniale intuizione di tale dialogo.
Per conoscere se stessi occorre concentrarsi sul nostro nucleo, sulla nostra reale essenza: l’anima (in greco, psyché).
Questo concetto, ideato per la prima volta da Socrate e poi teorizzato e sviluppato da Platone, fu rivoluzionario; per la prima volta, l’uomo si accorse di avere una propria psyché, diversa per ciascuno di noi, l’unico elemento che ci distingue l’uno dall’altro
[11].
Chi sono io? Io sono la mia psyché; senza di essa non sono nulla.
Raggiungere tale consapevolezza è il primo passo verso qualsiasi forma di conoscenza, il primo passo sul cammino che conduce alla tranquillità interiore
[12].
Tuttavia, con un solo passo non si può arrivare molto lontani; per raggiungere la nostra meta, occorre camminare ancora molto.
Non basta aver preso consapevolezza del proprio io, occorre capire quali caratteristiche lo differenziano dagli altri e, per farlo, nel prossimo paragrafo analizzeremo le parole di un altro pilastro della filosofia mondiale. [...]