sabato 30 gennaio 2021

Asmodeo: storia e simbolismo di un demone antico

Riprendiamo la rubrica dedicata ad approfondire alcuni aspetti de Il gatto, il mago e l'inquisitore, mio ultimo romanzo edito da Salani Editore. Dopo aver parlato di Cornelio Agrippa von Nettesheim, passiamo ora al secondo protagonista principale del libro: il gatto Asmodeo.


Nel romanzo, Agrippa è riuscito, mediante a un segreto esperimento magico, a donare al felino parola, ragione e immortalità. Egli, dunque, assurge a ruolo di famiglio: custode magico dello stregone che ne serba i segreti, gli rivela conoscenze magiche e, seguendo antichi echi di tradizione sciamaniche, ne funge perfino da occhi e orecchie, per permettere al mago da lui custodito di spingersi al di là dei confini dello spazio, del tempo, del suo corpo e della sua mente.

Asmodeo è il custode segreto di Agrippa, dotato sia dei poteri donatogli dal mago sia dalla naturale affinità felina con il lato nascosto delle cose. Egli, come Agrippa, è dotato della "seconda vista", la facoltà di vedere quanto di invisibile si nasconde dietro il mondo materiale. Così, come il mago, anche Asmodeo può vedere gli Spiriti Elementali, gli Incubi e, soprattutto, i demoni che infestano le strade dell'Europa. E con essi Asmodeo condivide molto altro. 

La scelta del nome non è casuale. "Asmodeo", nella religione e nel folklore, è uno spirito antico, la cui storia affonda le radici nella cultura Babilonese, nello Zoroastrismo iranico e nell'Ebraismo arcaico. In tutte queste culture è presente la figura del demone Asmodeo, che appare come uno spirito divino potente e iracondo, strettamente legato alla lussuria umana.

Una figura arcaica, di origine pagana, che tuttavia riuscì ad attraversare i millenni rimanendo vivo perfino nella cultura giudaico-cristiana. Il suo nome e la sua forza riecheggiano, ancora, facendo tremare gli uomini, perfino nei manoscritti di magia medievali e rinascimentali, soprattutto in quelli legati alla tradizione salomonica.

La magia salomonica è una branca della magia ebraica che fa capo alle conoscenze, teoriche e pratiche, attribuite, appunto, al leggendario Re Salomone. Già nei testi canonici dell'Antico Testamento si trovano numerosi cenni al fascino provato da Salomone nei confronti delle religioni orientali, dei culti pagani e della sapienza magica - ed è in questi interessi occulti che, nel testo biblico, viene rintracciata la causa della progressiva decadenza dello regno ebraico.

L'aurea di grande sapienza e tenebrosa conoscenza rendeva Salomone un personaggio poliedrico, dalle numerose luci, ombre e sfaccettature che non poterono che affascinare anche gli uomini dell'antichità. La sua fama di Re, Sapiente, mago, taumaturgo e sciamano fece dunque fiorire una molteplicità di scritti magici a lui attribuiti tra cui il Testamento di Salomone.

Il Testamento di Salomone è uno dei più antichi testi magici legati alla tradizione salomonica, in cui si racconta come egli abbia costruito il Tempio con l'ausilio di un anello magico, recante inciso il pentagramma, che gli permetteva di evocare, avvincere e controllare i demoni. Il testo è simile a una novella orientale, quasi ai racconti de Le mille e una notte, ed è strutturato come una lungo dialogo tra Salomone e i demoni che, di volta in volta, vengono da lui evocati per conoscerne il nome, il sigillo e la funzione per poi, in base a tali caratteristiche, costringerli a costruire una parte del Tempio - grande metafora di come le forze infere e ctonie possano essere dominate per dar vita a qualcosa di sacro. 

Tra i demoni evocati dal Re, appare anche Asmodeo, che viene descritto come un demone fiero e vanitoso, restio a piegarsi perfino di fronte alla potenza magica dell'anello di Salomone. 

"Chi sei?" gli domanda Salomone e questi, furioso e altezzoso, gli risponde dicendo "Tu, chi sei? [...] Come pretendi che ti risponda? Tu sei figlio d'un omo: io sono nato da seme angelico che fecondò una figlia d'uomo, e nessuno di nostra stirpe celeste può essere appellato in modo arrogante da chi è nato sulla terra. Perché anche la mia stella è alta in cielo e gli uomini talvolta la chiamano l'orsa, altre volte figlia del drago. Presso la stella io vivo. Non chiedermi molte cose, perché il tuo regno fra breve non esisterà più e la tua gloria durerà una breve stagione. Presto terminerà la tirannia che ci è imposta e allora saremo nuovamente liberi di agire fra gli uomini, che ci adoreranno come dèi, poiché essi non conoscono, miseri che sono, i nomi degli angeli che ci dominano" (Testamento di Salomone, in La Chiave di Salomone, a cura di Sebastiano Fusco, Venexia, p. 37).

Alla fine, tuttavia, Asmodeo è costretto a cedere alla forza magica di Salomone che, stringendone ancor di più i ceppi, lo costringe a rivelare il suo nome, l'angelo che lo governa, il suo ruolo nel cosmo e l'elemento che più teme: l'acqua. Non senza un certo sadismo, Salomone lo costrinse dunque a reperire il materiale più importante per la costruzione del Tempio: l'argilla, la materia atta a comporre ogni singolo mattone, e l'acqua necessaria a bagnarla.

Come accennato, la tradizione dei testi magici attribuiti a Salomone fu molto ampia e variegata ed ebbe la sua massima espressione tra il medioevo e il rinascimento. Dallo stile narrativo e novellistico del Testamento, si passerà a una miscellanea di precetti e rituali volti a tramandare la conoscenza di Salomone e i demoni che nel testo precedente venivano descritti in maniera disomogenea, verranno ordinati in una gerarchia sistematica, fino ad arrivare alla precisa esposizione del Lemegeton, uno scritto di magia cerimoniale contenente il nome dei 72 demoni infernali, i sigilli per evocarli e la descrizione delle loro caratteristiche, dei loro poteri e dei doni che possono elargire al mago evocatore.


Anche tra essi, come nel Testamento, appare Asmodeo, qui descritto nel seguente modo: 
"Il trentaduesimo spirito nell'ordine è chiamato Asmoday. E' un grande Re, molto potente. Appare con tre teste, delle quali la prima è come quella di un Toro, la seconda come d'Uomo, la terza come d'Ariete; ha per coda una Serpe che dalla bocca vomita fuoco e fiamme; i suoi piedi sono come zampe d'oca; è assiso su un Drago Infernale; in mano reca una lancia con un'insegna.  [...] Quando l'esorcista lo invoca, che stia composto, si alzi in piedi, si scopra il capo, perché altrimenti Asmoday lo ingannerà e farà sì che ogni cosa si compia in modo errato [...]. Dona l'anello della virtù; insegna le Arti dell'Aritmetica, della geometria e dell'Astronomia e fornisce tutte le capacità tecniche in modo completo; risponde in modo veritiero ed esaustivo a tutte le domande; rende l'uomo invisibile; mostra i luoghi ove sono riposti i tesori e li custodisce" (Lemegeton, in La Chiave di Salomone, a cura di Sebastiano Fusco, Venexia, pp. 235-236).

Benché Asmodeo provocasse timore e terrore e nonostante fosse uno dei demonipiù potenti, e dunque pericolosi, delle Gerarchie Infernali, sono molti i manoscritti magici e i "patti demonici" che recano il suo sigillo - a dimostrazione di come il suo fascino attirasse gli uomini. Ed anche in ambito sacro la sua figura rimase presente, nell'ombra, a svolgere il lavoro sporco delle "fondamenta" che, per quanto relegate all'oscurità del sottosuolo, sono tuttavia fondamentali per reggere l'intero tempio. In quest'ottica si deve leggere il simbolismo di una delle più misteriose figure dell'arte cristiana: l'Asmodeo che regge l'acquasantiera nella Chiesa di Santa Maria Maddalena di Rennes le Chateau che, a secoli di distanza, sembra riecheggiare il mito salomonico del demone costretto a costruire i mattoni portanti del Tempio.

Tutte queste manifestazioni del demone Asmodeo sono strettamente legate a una cultura dualistica, che lo vede relegato nel mondo del maligno, seppur depositario di conoscenze profonde. Ma Asmodeo, in quanto demone nel senso greco del termine, ossia intermediario ed emissario tra uomo e divino, è stato in grado di reinventarsi nella cultura moderna e in ambito artistico lo ritroviamo in una curiosa intervista rilasciata da Alan Moore, noto fumettista americano, autore di Watchmen, From Hell, Prometea, The Killing Joke. Ne la La magia in azione, intervista rilasciata a Jay Babcock pubblicata sul n.4 di Arthur, Alan Moore racconta le sue esperienze, sia teoriche sia pratiche e "dirette", con il mondo dell'occultismo e narra di essere entrato in contatto, durante un rito, con un'entità che gli si presentò con il nome, appunto, di Asmodeo. Come narra Alan Moore:

"Ho avuto anche un'esperienza con una creatura demoniaca che disse di chiamarsi Asmodai, ovvero Asmodeo. E quando di fatto mi fu concesso di vedere l'aspetto della creatura, o almeno cosa era disposta a mostrarmi, sembrava questa specie di reticolo... immaginatevi un ragno e poi immaginate delle immagini multiple di quello stesso ragno, in qualche moto legate tra loro - immagini multiple su scale diverse, tutte legate assieme - è come se questa cosa si muovesse attraverso una sorta di differente piano temporale [...]" (A. Moore, Magia in Azione, in Funghi di Yuggoth, Panini Comics, p. 129).

Mentre nella narrazione religiosa tradizionale Asmodeo viene relegato, spesso, alla lussuria e all'ira, nell'esperienza di Alan Moore si mostra nel ruolo di "guardiano della soglia" di dimensioni superiori, parimenti al felino Asmodeo protagonista de Il gatto, il mago e l'inquisitore, in grado di rivelare all'artista il lato nascosto delle cose, una dimensione a cui si può accedere soltanto liberandosi dai limiti razionali e dogmatici della propria mente. Sempre come racconta Alan Moore:

"Nelle settimane seguenti cominciai a fare ricerche su Asmodeo e scoprii che in realtà è il demone dei matematici. Inoltre c'è una cosa che a quanto par, per tradizione, è in grado di offrire e sarebbe il volo di Asmodeo. E' dove il demone vi trascina, portandovi in aria, nel cielo, e voi potete guardare in giù e vedere tutte le case come se i tetti fossero stati rimossi e si vede cosa accade all'interno" (A. Moore, Magia in Azione, in Funghi di Yuggoth, Panini Comics, p. 129).

Una dimensione elevata, la cosiddetta "quarta dimensione" della matematica pura o della fisica moderna, in cui sono trascese le coordinate ordinarie del tempo e dello spazio, come nel volo che conduce al Sabba delle Streghe, per accedere a una dimensione in cui la coscienza si espande a tal punto da poter essere onnipresente in più luoghi, tempi e prospettive contemporaneamente.

L'Asmodeo felino de Il gatto, il mago e l'inquisitore incarna, dunque, parte della simbologia di questo spirito antico. Come sostengono Kramer e Sprenger nel Malleus Maleficarum, streghe e stregoni si accompagnano spesso a gatti i quali, spesso, non sono che demoni trasmutati in forma animale. E l'Asmodeo felino altro non è che il famiglio custode del mago, il guardiano della soglia per il mondo occulto, in grado di accompagnare Agrippa nel mondo affascinante e tenebroso della magia e di difenderlo, con il suo potere e la sua superiorità, dalle insidie e gli inganni non solo dei demoni, ma soprattutto degli umani, e di rivelargli con i suoi occhi felini la vera essenza della realtà.


Il gatto, il mago e l'inquisitore di Daniele Palmieri, edito da Magazzini Salani, in
tutte le librerie e in tutti gli store online. 

Chiunque volesse acquistarne una copia con dedica, può contattarmi presso la Libreria Esoterica di Milano al numero Whatsapp: 3516024375.


Daniele Palmieri

venerdì 29 gennaio 2021

Il gatto, il mago e l'inquisitore. Ritratto di Cornelio Agrippa von Nettesheim


E' da poco uscito in tutte le librerie Il gatto, il mago e l'inquisitore il mio nuovo libro, edito da Salani Editore.

Il testo fa parte della trilogia inaugurata con Diario di un cinico gatto e proseguita con Storia di un gatto bibliotecario (anch'essi editi da Salani); una trilogia atipica che, seppur collegata da un filo rosso che lega tutti e tre i testi, si sviluppa in maniera non-lineare. Ogni libro condivide con gli altri il medesimo universo narrativo ma ciascun testo della saga possiede il proprio protagonista e la propria ambientazione. Alcuni avvenimenti si intersecano tra loro in tutti e tre i libri, creando una rete che si estende negli anni e perfino nei secoli, ma ogni testo può essere letto come un libro a sé e, soprattutto, non è necessario seguire l'ordine cronologico di pubblicazione. Anzi, variando l'ordine di lettura si coglieranno in maniera differente le sfumature che collegano la trilogia.

Il gatto, il mago e l'inquisitore trascina il lettore nell'Europa del 1500. Protagonisti del romanzo sono Enrico Cornelio Agrippa, filosofo, mago e alchimista rinascimentale, il felino Asmodeo - a cui Agrippa ha donato la parola e l'immortalità mediante la sua conoscenza magica - e il suo fidato cane Monsieur che, insieme all'ingenuo cocchiere Duval, si barcamenano tra le principali nazioni europee a caccia di demoni - e sfuggendo dall'ira di inquisitori, re, regine, principi e creditori.

Mentre Diario di un cinico gatto e Storia di un gatto bibliotecario sono interamente frutto della mia fantasia (benché già in Storia di un gatto bibliotecario vi siano nascosti numerosi riferimenti alla letteratura, ai libri, alla magia, all'esoterismo e a personaggi realmente esistenti), Il gatto, il mago e l'inquisitore mi ha impegnato in un lungo studio storico, biografico, folklorico e magico. Sebbene sia, in parte, frutto dell'immaginazione, le vicende principali del romanzo seguono passo passo la vera storia di Cornelio Agrippa von Nettesheim, personaggio realmente esistito, con il quale sia nello studio sia nell'anno di scrittura ho sviluppato una forte affinità - sia per entrare in connessione con lui, per impersonarne al meglio le caratteristiche, sia perché, studiandone le vicende biografiche, sono giusto a stimarne la sapienza, il coraggio, la forza ma anche, e soprattutto, l'umanità e le debolezze.

In questo articolo vorrei dunque rendergli un breve tributo, per parlare dell'Agrippa storico che ha ispirato le vicende del libro e svelare quanto di vero si nasconde tra le pieghe della fantasia. 

Partiamo dalle fonti. Come dice spesso Jorge Luis in Storia di un gatto bibliotecario, i libri permettono di immergerti in microcosmi a se stanti ed è proprio grazie ai libri che ho potuto non solo viaggiare indietro nel tempo, fino all'epoca di Agrippa, ma immergermi direttamente nel suo pensiero e nella sua vita privata. Da questo punto di vista, sono ampiamente debitore di due saggi. Il primo Enrico Cornelio Agrippa. Vita e opere secondo la sua corrispondenza di Joseph Orsier, edito in Italia dalla PiZeta, una dettagliata ricostruzione della biografia di Agrippa a partire dalle sue lettere private - delle quali è riportata una selezione di 70 lettere personali rivolte ad amici, studiosi, parenti - ma anche principi, creditori e nemici. Il secondo testo è invece di un autore nostrano, si tratta di Cornelio Agrippa e la sua magia di Arturo Reghini, un saggio estremamente prezioso che, oltre a raccontare la vita di Agrippa a partire dalle lettere e da documenti della sua epoca, analizza il suo pensiero e i profondi insegnamenti iniziatici contenuti nelle opere. Anche quest'ultime, ovviamente, mi hanno permesso di conoscere l'ingegno e la sapienza di Agrippa direttamente dall'interno, soprattutto il suo scritto principale, il De occulta philosophia, immenso compendio di arti magiche dall'antichità alla sua epoca, ma anche testi apparentemente "minori", ma solo perché meno conosciuti, come il De nobilitate et praecellentia foeminei sexus (Sulla nobiltà e l'eccellenza del sesso femminino, che ho anche curato personalmente per conto di Libraio Editore), una brillante difesa e lode alla donna scritta nell'epoca della caccia alle streghe, e il De vanitate scientiarum (La vanità delle scienze), pungente, ironica e coraggiosa opera scettica in cui il nostro attacca ogni forma di sapere dogmatico, sia esso quello dei teologi, dei matematici, dei filosofi e di ogni studioso che, nella sua epoca, credeva di possedere la verità in tasca - causando, con tale arroganza, più danni che benefici, sia per il sapere sia per il quieto vivere degli uomini.

Il ritratto che ne esce da questa variegata moltitudine di testi è quello di un personaggio combattivo, tenace, amante del sapere, della ricerca e soprattutto del libero pensiero, disposto a rischiare la vita per proteggere non solo la conoscenza ma anche i più deboli che rischiavano di venire schiacciati dalla follia e dal dogmatismo. Una personalità poliedrica ma anche multiforme. "Mi contraddico, sì, mi contraddico: sono vasto, contengo moltitudini" recita un verso di Walt Whitman e, utilizzando un linguaggio "goetico", la complessità di Agrippa era talmente vasta da contenere intere legioni. A bilanciare così elevati pregi vi era il peso grave di altrettanti difetti - e più alta è la levatura di un uomo, più grandi si fanno anche i suoi difetti. Così, come il "mutaforma", il "trickster" delle fiabe, nonché da sapiente illusionista, Agrippa fu abile nel destreggiarsi nell'arte della menzogna, dell'inganno, della fuga, del trasformismo - abilità, occorre specificare, sempre adoperate per salvarsi la vita, per sfuggire a Re, Regine, creditori e Inquisitori, per salvare il frutto del suo lavoro e della sua conoscenza. Non bisogna dimenticarsi che, in origine, egli fu uomo di guerra, soldato nelle file dell'esercito del Re di Spagna. Il suo sapere, perciò, si spingeva al di là della teoria, al di fuori delle corti precise, ricche, ordinate e sicure dei nobili o degli accademici, e affondava anche nel fango, nel sangue, nel sudore, nella fatica, nel pericolo - come si evince da una delle prime lettere riportate da Orsier, le cui vicende ho anche riportato nel libro, in cui Agrippa narra di una rocambolesca fuga in seguito all'assedio di una città finito male. Tutto questo per dire che il mago sapeva come dosare l'arte della strategia e della guerra anche nella vita quotidiana e, probabilmente, fu questa virtù, che porta con sé molti vizi e difetti, che gli permise di salvarsi la vita dalle fiamme dell'Inquisizione e dalle ghigliottine dei tiranni.

Ma l'aspetto che più mi ha fatto entrare in simpatia - nell'accezione antica, e magica, del termine - con Agrippa, che mi ha permesso di immedesimarmi nei suoi pensieri, nelle sue azioni, nelle sue parole e nelle sue avventure, è stato, soprattutto, la sua profonda umanità. Tanto dalla sua biografia quanto dalle lettere traspare la personalità di un uomo dilaniato da due spinte contrapposte, che per tutta la vita cercò di conciliare: la volontà di ampliare i confini della conoscenza, al di là dei limiti e dei dogmi, e il desiderio di vivere una vita tranquilla con i suoi affetti più cari: la sua famiglia e, non ultimo, i suoi animali domestici.

Non entrerò, ora, troppo nei dettagli delle sue relazioni personali, giacché non ho intenzione di svelare al lettore informazioni importanti sulla trama del libro, che si scoprono con l'avanzare della lettura; basti sapere , per ora, che Agrippa amò e soffrì intensamente per tutta la sua esistenza. Amò sua moglie e i suoi figli, soffrì per il distacco, e cercò in ogni modo di ritagliare per lui e per loro una sicurezza che, tuttavia, doveva perennemente scontrarsi con i guai causati dalla sua audace libertà e dal suo spirito combattivo e indomito. Un rifugio che, come ogni dimensione magica che si rispetti, era perennemente vegliato dalla figura di un famiglio; in particolare, i cani, suoi animali domestici per eccellenza, con cui convisse fino alla sua dipartita.

Sia i suoi primi biografi sia i suoi avversari riportano, in maniera differente, come egli fosse solito accompagnarsi a cani. Così, sia Monsieur, grosso mastino nero protagonista del libro, sia Filiolus (suo predecessore, che viene solo citato) sono realmente esistiti e hanno realmente accompagnato il nostro mago nelle sue lunghe peripezie. Agrippa ne parla con affetto in molte sue lettere, Wier, suo discepolo, ricorda con affetto, in alcuni scritti, i giorni di studio e scrittura passati nella casa di Agrippa proprio insieme a Monsieur, e i suoi oppositori "postumi", come Martin DelRio, narrano di come Monsieur, alla morte del mago, sarebbe scappato dal suo capezzale mostrando a tutti la sua natura demoniaca. Sciocchezze! Gli fu risposto, dallo stesso Wier, che difese il ricordo sia del mago sia del cane da tali infondate accuse raccontando di come molte volte egli avesse accompagnato con il guinzaglio il mansueto animale durante le sue lunghe passeggiate.

Ma come, penserà ora il lettore, Agrippa fu un grande amante dei cani? E Asmodeo, allora?

Ebbene sì, Agrippa fu del partito dei cani - ma egli fu anche del partito dei maghi e, si sa, che di fianco a ogni grande strega o stregone si nasconde sempre un grande gatto, suo famiglio, depositario delle conoscenze proibite. Ed è qui che è dovuta intervenire l'immaginazione magica, per dar vita all'aiutante segreto, spirito guida in forma felina, di Enrico Cornelio Agrippa von Nettesheim. Perché, se dobbiamo convenire sul fatto che le sue lettere non ne citano il nome e la presenza, è altresì vero che non ne negano l'esistenza - tuttalpiù considerando che, Malleus Maleficarum in mano, il gatto è l'animale a cui si accompagnano streghe e stregoni e mostrarsi accompagnati a gatti poteva essere non solo un indizio, ma una ammissione di colpevolezza.

Dunque, giacché Agrippa non ne poté mai parlare, i tempi sono ormai maturi per riportare a galla la storia segreta del felino e del suo compagno mago, di Asmodeo e di Enrico Cornelio Agrippa von Nettesheim, a cui, in calce a questo articolo, va il nostro pensiero, la nostra riconoscenza e, soprattutto, la nostra reverenza.

E, siccome la vanità è una virtù felina, rimandiamo a un prossimo articolo per l'approfondimento della figura di Asmodeo e del suo significato simbolico.


Il gatto, il mago e l'inquisitore di Daniele Palmieri, edito da Magazzini Salani, in tutte le librerie e in tutti gli store online. 

Chiunque volesse acquistarne una copia con dedica, può contattarmi presso la Libreria Esoterica di Milano al numero Whatsapp: 3516024375.


Daniele Palmieri 

martedì 26 gennaio 2021

Ossian: La via delle querce. Introduzione al druidismo moderno

Il Piemonte è un luogo denso di mistero, la cui antica tradizione esoterica risale alle prime popolazioni celtiche che si insediarono tra le valli e le montagne, lasciando tracce nei boschi, tra vette e colline, che ancora celano resti megalitici, tombe e incisioni rupestri antiche di millenni. Gran parte di questi luoghi non hanno il rilievo nazionale (e internazionale) che si meriterebbero, data la loro importanza storica e archeologica - ma forse è meglio così, poiché il loro segreto ne consente di preservarne il potere magico. 

Tra questi luoghi, uno dei più misteriosi che mi è capitato di visitare è la Riserva naturale di Bessa, nei pressi di Biella

La Riserva Naturale di Bessa è uno dei tanti luoghi nascosti d’Italia, sconosciuto ai più se non agli abitanti della zona. La Riserva Naturale è stata prima uno dei luoghi sacri delle arcaiche popolazioni piemontesi, per via dei suoi innumerevoli massi erratici sui quali hanno lasciato petroglifi, altari e coppelle rituali, e poi il centro di una delle più grandi attività estrattive di oro da parte dei Romani, che hanno lasciato sul paesaggio un’impronta incredibile: tonnellate su tonnellate di massi sparsi per oltre 7 km quadrati di territorio.  Gli “scarti” dell’attività estrattiva da parte dei Romani. È impossibile descrivere la monumentalità delle colline di pietra create dagli schiavi costretti a setacciare la valle in cerca delle pepite d’oro, dei metalli e delle pietre preziose. Il risultato di tale attività antropica è stata l’involontaria creazione di un vero e proprio labirinto immerso nel bosco. Gli estrattori d’oro passavano l’intera loro vita immersi in questo ambiente e sia loro sia i contadini e le popolazioni che subentrarono quando la cava cadde in disuso hanno creato, con questo scarti, non solo enormi cumuli ma lunghe file di terrazzamenti, muri a secco, rifugi, capanne che si estendono come un intricato dedalo fondendosi con il sottobosco che, lentamente, si sta riprendendo i suoi spazi.

Per tutto il bosco si respira un’aria ctonia, per via delle rocce strappate dal sottosuolo come a voler riportare il mondo infero in superficie e la consapevolezza che ogni singola pietra di quegli immensi cumuli è stata toccata, in passato, da mani umane è spiazzante. Camminando pare ancora di sentire le picconate, le urla, la fatica e il sudore degli schiavi, che rintoccano a ogni singolo passo. Di questa cosa ci si rende conto solo quando ci si ferma. Solo allora, infatti, cala un silenzio così assoluto che si fa strada la consapevolezza che i propri passi non potevano essere così rumorosi, che qualcun altro camminava e faticava con te. Un qualcuno che, nel silenzio, pare ora nascosto nell’ombra, dietro gli alberi, sotto le pietre o nei nascondigli nel sottosuolo, a scrutarti dietro il velo del Tempo.
Camminando per i sentieri, oltre al timore costante di perdersi e alla tristezza nel pensare allo sfruttamento a cui furono sottoposti gli schiavi, si prova una sensazione di impotenza nei confronti dell'incuria che i Romani ebbero nei confronti di questo bosco sacro. Tuttavia, il Tempo ha sanato anche quella ferita; molti massi erratici si ergono ancora, monumentali, sulle rovine della miniera e i petroglifi su essi incisi hanno mantenuto intatta la volontà magica originaria dei druidi che lasciarono traccia del loro passaggio e delle loro celebrazioni.

Le antiche divinità sono tornate, viene da pensare. O, meglio, non se ne sono mai andate; forse si erano soltanto nascoste nelle viscere della terra, pronte a riprendere il dominio sulla loro terra sacra. 

E, nella nostra epoca, si sono anche riunite con gli antichi celebranti. Il druidismo non è morto; anch'esso è resistito ai secoli per ripresentarsi, in vesti moderne, nel XX secolo. Basta spostarsi di qualche chilometro dalla Riserva Naturale della Bessa per incontrare uno di questi moderni celebranti, a Biella. 

Il luogo è la Bottega dell'Anticaquercia - non un semplice negozio ma, appunto, una bottega, come quelle degli artigiani dei secoli passati, il cui fondatore e proprietario, Ossian d'Ambrosio, oltre a costruire con le proprie mani gioielli e preziosi ispirati all'arte magica, celtica e druidica, porta avanti con la propria attività culturale le conoscenze religiose druidiche. 

Nato in Germania nel 1970 e trasferitosi a Biella nel 1980, dagli anni '90 segue la via del druidismo e nel 2008 ha fondato il Cerchio Druidico Italiano, divenendo nel 2009 il primo Druida italiano a celebrare il Solstizio d'Estate presso Stonehenge. Ma oltre a questo è anche musicista, studioso di folklore e sciamanesimo e, non ultimo, scrittore. Con la rivista Vento tra le fronde è stato, fin dal 2003, tra i principali divulgatori delle cultura druidica in Italia, ma l'articolo di oggi è dedicato a un libro in cui ha compendiato la storia, le dottrine e le pratiche del druidismo antico e moderno:  La via delle querce. Introduzione al druidismo moderno, edito da Psiche 2.



La via delle querce
è un ottimo spaccato sulla cultura druidica, che permette di comprendere quali siano le sue origini e come esso si sia sviluppato nel passare dei secoli, fino ad arrivare ai giorni nostri, per spiegare, infine, quale sia il significato di essere un druido nella società contemporanea, sfatando molti miti e stereotipi legati a questa forma di cultura.


Uno degli aspetti principali del testo è proprio quello di chiarificare alcune confusioni che si creano quando si parla di druidismo, soprattutto quelle inerenti alle pratiche moderne e ai loro legami storici con il culto originario. Fin dalle prime pagine del testo, La via delle querce mette in chiaro, nella sua breve ma dettagliata ricostruzione storica, che non bisogna considerare il druidismo moderno come frutto di un'unica espressione culturale rimasta immutata nel corso dei secoli. Al contrario, esso ha avuto una storia molto travagliata, passando anche per l'oblio e, infine, per la necessità di ricostruire e reinventare alcuni aspetti andati perduti - così come si sostituiscono e si restaurano parti di statue o edifici andati in rovina.

Bisogna dunque distinguere tre forme di druidismo che, pur essendo collegate dal medesimo "lignaggio", non devono essere confuse tra loro.

La prima forma di druidismo è il druidismo storico, ossia il culto, pubblico e privato, praticato dalla casta sacerdotale delle popolazioni celtiche. Di esso ci restano pochissime testimonianze scritte e, come sostiene Ossian, gran parte di esse sono da ritenersi inaffidabili, in quanto tramandate dai "conquistatori", ossia autori Romani come Giulio Cesare, Plinio, Tacito etc. che, non essendo iniziati al culto druidico, non potevano comprenderne a pieno il significato e, soprattutto, tendevano a romanizzare le divinità e le cerimonie da loro descritte. A fronte delle scarne testimonianze scritte sono invece molteplici le testimonianze archeologiche come tombe, monumenti megalitici, incisioni, amuleti, talismani che, tuttavia, hanno il problema di essere "mute"; esse richiedono una minuziosa interpretazione che, per forza di cose, necessita di passare attraverso il filtro della cultura contemporanea e dell'analisi storica. Ultima, ma non meno importante, vi è una lunga tradizione di racconti orali, tramandati dalle fiabe, dal folklore, dai miti e anche dai cicli epici poi cristianizzati che, seppur nella loro continua metamorfosi e fusione culturale, hanno conservato storie antiche, risalenti alle epoche più remote del druidismo originario.

La seconda forma di druidismo è quella del druidismo moderno. Esso nasce nel 1700 ad opera di Jon Toland, prima, e di Iolo Morgannwg poi. Pur basandosi, in parte, sul druidismo storico, il druidismo moderno nasce sulla spinta delle organizzazioni segrete di stampo massonico e nazionalista tipiche del XVIII e del XIX secolo. Caratteristica del druidismo moderno è quella di inserirsi nel filone di riscoperta folklorica e nazionalista, di riprendere parte degli insegnamenti tramandati oralmente, di generazione in generazione, di cercare di ricostruire l'antico spirito celtico alla base di tali storie, senza però disdegnare né rinnegare il retroterra e la morale cristiana tipiche di quel periodo. Prendendo, ad esempio, il Barddas di Iolo, ritrovare un sincretismo tra la morale biblica e la poesia e le leggende di tradizione druidica. D'altronde, è sempre in quest'epoca che iniziano le prime scoperte o valorizzazioni archeologiche legate agli altari, alle tombe e ai cerchi megalitici di origine celtica ma che, al contempo, nella tradizione neodruidica vengono fuse con testi "bardici" dalla presunta antichità, ma in realtà creati ad hoc da autori e poeti di quel periodo.

Pur con le sue contraddizioni, il Druidismo settecentesco ha fatto da apripista al druidismo contemporaneo. L'avanzare degli studi storici, archeologici e antropologici ha permesso di penetrare più in profondità nel druidismo "originario", e la rinascita dell'interesse nei confronti della magia e delle pratiche sciamaniche del '900, oltre a rimuovere la patina cristianeggiante tipica del Druidismo settecentesco, ha ampliato la sfera "esperienziale" del druidismo originario collegato a un contatto diretto con le forze naturali. Così, come scrive Ossian, il druidismo contemporaneo è figlio di diverse forze: "Le pratiche religiose sono l'espressione di un condizionamento temporale tra ben precise e radicate tradizioni di magia cerimoniale e pratiche sciamaniche, che cercano di armonizzare l'essenza dell'uomo moderno con gli spiriti della natura per collocarlo e radicarlo con le energie del territorio che lui abita. Il movimento non è spirituale per una intesa più animista del termine ma diventa tale solo perché la pratica religiosa è incondizionatamente collegata con l'interazione e la conoscenza del mondo degli spiriti della natura e dei proprio antenati. Ecco che il moderno Druido diventa anche ecologista ed ambientalista, in quanto non solo cerca di preservare le tradizioni della propria patria, con gli studi della storia e della mitologia, ma anche preservando il proprio ambiente o meglio Madre Terra da un declino ecologico. Tutto ciò lo porta inevitabilmente ad un culto politeista verso archetipi e divinità collocate nell'antica tradizione celtica" (Ossian d'Ambrosio, La via delle querce. Introduzione al druidismo moderno, Psiche 2, p. 21-22).

Questo lavoro spirituale "esperienziale" viene portato avanti sia in solitaria sia in gruppo. Il Druidismo contemporaneo non possiede una gerarchia ma si organizza in gruppi o cerchi o "boschetti", ossia strutture circolari in cui vi è una trasmissione equanime e circolare della conoscenza. "Nel cerchio" scrive Ossian "si focalizza principalmente il collegamento dei membri con gli spiriti della natura e dei luoghi sacri, si organizzano e si celebrano le otto porte cosmiche delle festività stagionali dell'anno; si celebrano i consueti riti di passaggio della comunità" (Ossian d'Ambrosio, La via delle querce. Introduzione al druidismo moderno, Psiche 2, pp. 53-54). Questa è forse una delle principali differenze rispetto al druidismo originario, laddove il druida/sciamano possedeva un ruolo esclusivo e privilegiato, quasi elitario, pur essendo un punto di riferimento per l'intera società, mentre nel druidismo contemporaneo vi è l'idea di trasmissione e diffusione delle esperienze sciamaniche all'interno del cerchio, dove il lavoro interiore e individuale si accompagna sempre alla condivisione collettiva (mediante le festività e le cerimonie condivise). 

Sintetizzandone i valori del druidismo contemporaneo, Ossian elenca undici principi che non costituiscono "dogmi" o "comandamenti", bensì principi in perpetua metamorfosi ma che fungono da linee guida per un'esperienza religiosa aperta, che si manifesta in molteplice forme, così come le forze naturali. Questi undici principi sono: 

"1) La Natura è sacra e divina.

2) E' necessario il rispetto e l'amore per la natura.

3) La divinità è sia immanente (dentro di noi) che trascendente (esterna a noi).

4) La divinità può manifestarsi sia in forma maschile che femminile.

5) Non esiste nessuna forma di divinità che incarni il male assoluto.

6) Le divinità possono essere sia creatrici ma anche distruttrici.

7) L'etica e la morale devono essere basate sull'amore, la gioia, il rispetto per se stessi e il rispetto per il prossimo.

8) Rispetto e tolleranza per le differenze.

9) I bambini nascono puri senza nessun peso di peccato originale e neanche affiliazione a qualsiasi idea religiosa.

10) Lo spirito è immortale.

11) Il viaggio dell'anima nella vita prosegue, dopo la morte del corpo fisico, nei reami dell'altro mondo per poi ritornare con la reincarnazione".

(Ossian d'Ambrosio, La via delle querce. Introduzione al druidismo moderno, Psiche 2, p. 61)

Il ritratto che ne esce, dunque, è quello di una religione sciamanico/naturalista, in cui il contatto con la dimensione divina passa necessariamente attraverso la natura in tutte le sue manifestazioni e in tutta la sua potenza, senza però dimenticare né disdegnare il lato umano e sociale dell'esistenza terrena, alla ricerca di un bilanciamento in grado di creare una simbiosi tra l'uomo e la Terra e risanare la frattura creatasi tra mondo naturale e mondo umano - forse unico "peccato originale" di cui è colpevole la nostra specie.

Ed è su questo "peccato" che si concentra il ruolo principale del Druida nella società contemporanea. Lungi dall'essere una religione morta, legata a consuetudini e riti passati, il Druidismo contemporaneo cerca di opporsi alla progressiva devastazione del Tempio Sacro della Natura portata avanti dalla società industriale e consumistica.

"Oggi il Druida" scrive Ossian "è una persona che può servire per ristabilire un certo equilibrio tra l'uomo e la natura. Potrebbe anche essere definito un nuovo guardiano delle foreste, attento osservatore per un ripristino ecologico e difensore di quelle idee che servono a contrastare movimenti che non vogliono rispettare i valori umani ed animali. Il Druida è colui che cerca un nuovo contatto con i misteri della terra e rifiuta il caos urbano del sistema. E' colui che ricomincia a sporcarsi le mani con la terra, a osservare i segni che gli spiriti e gli Dei gli comunicano. Il Druida deve anche esaltare e curare l'artista interiore, giungere alla saggezza studiando la storia del passato e delle proprie radici [...] accetta la divinità insita nel mondo naturale e rifiuta che ci sia un unico potere creatore esterno allo stesso [...]. Riconosce una divinità maschile e femminile ed il rapporto senza confini tra la magia e la pratica religiosa" (Ossian d'Ambrosio, La via delle querce. Introduzione al druidismo moderno, Psiche 2, pp 82).

Un'utopia? Forse. Ma come insegna la storia della Riserva Naturale della Bessa, anche dopo la devastazione portata dalle miniere romane la Natura, e con essa gli Antichi Dèi, hanno ripreso il controllo sui domini a cui avevano, soltanto momentaneamente, abdicato.

Ossian d'Ambrosio, La via delle querce. Introduzione al druidismo moderno, Psiche 2


Daniele Palmieri

domenica 17 gennaio 2021

Federico Gasparotti: Il GreenMan e l'Homo Selvaticus


Uno degli effetti più deleteri dell'ultimo anno di chiusure e riaperture a causa della pandemia, soprattutto per l'uomo di città, è il distacco forzato dal sula sua fonte originaria di vita e energia: la Natura. Costretto nelle mura domestiche o negli invalicabili confini del comune o della città dove regnano cemento, inquinamento, urbanizzazione, antropizzazione, sovraffollamento e rumore, per l'uomo comincia un lento e inesorabile processo di alienazione. D'altronde, non è solo la cultura religiosa, esoterica o spirituale a ritenere la fondamentale importanza, per la vita interiore, del ritiro in luoghi selvaggi, al di là del mondo urbanizzato, ma anche le moderne ricerche di psicologia ambientale. Scrive, ad esempio, Marco Costa in Psicologia ambientale e architettonica: "Esistono evidenze di studi che hanno dimostrato come il contatto con ambienti naturali costituisca un mezzo efficace per attutire gli effetti dello stress e della fatica mentale, rispetto ad ambienti di tipo urbano. La tendenza della popolazione a compattarsi sempre di più in ambienti urbani è in contraddizione con i benefici arrecati dal verde [...]. La mancanza di verde propria degli ambienti urbani compattanti va in contrasto con l'innato bisogno degli spazi verdi" (Marco Costa, Psicologia ambientale e architettonica, FrancoAngeli, pp. 115-116).

L'incontro con l'urbanizzazione e quello con la Natura producono due differenti stati di coscienza: di contrazione e di espansione.

L'ambiente estremamente urbanizzato è rigido, geometrico, strettamente controllato da una logica che passa attraverso orari (di mezzi di trasporto, negozi, uffici etc.) che stabiliscono quando e dove sia possibile recarsi in un certo luogo, di cartelli stradali e semafori che stabiliscono come ci si debba muovere e, non ultimo, di luoghi sovraffollati in cui la propria individualità fatica a trovare il proprio spazio personale, circondata da centinaia se non migliaia di persone che, ugualmente, scalpitano per trovare la propria dimensione. In risposta a questi continui stimoli di dominio, lotta e oppressione, la coscienza umana, per trovare uno spazio vitale, è costretta a rimpicciolirsi in sé stessa, a contrarsi in cerca di un rifugio interiore, alienandosi così dall'esterno.

L'ambiente selvaggio presenta, al contrario, tutti gli attributi opposti. Il suo caos è creativo, brulicante di vita, silente, misterioso, rappresenta per l'esploratore un novero di possibilità. In montagna o in un bosco non vi sono vincoli a ciò che l'uomo possa fare, alla strada da intraprendere - sia essa battuta o inesplorata - all'orario e alla direzione in cui percorrerla e, anche quando il pericolo suggerisce al viandante di fermarsi, tale ostacolo proviene dall'interno: non vi è un divieto esterno a imporre il comportamento da seguire. Spetta all'esploratore scegliere se affrontare o meno il pericolo, di mettere o meno in gioco la sua vita. Da ciò deriva che, anche nel sentiero apparentemente più semplice, la coscienza del viandante debba essere costantemente vigile: sia per lo stato di spontanea meraviglia e ammirazione indotto dal ritorno alla Natura, sia per la consapevolezza che il minimo passo potrebbe mettere a rischio la propria integrità. Ma è proprio questo costante contatto con la meraviglia e il pericolo che permette alla coscienza di espandersi, di immergersi completamente con l'ambiente circostante, di ridar vita ai sensi atrofizzati dalla città.

Contrariamente a quello che si potrebbe pensare, il conflitto tra mondo urbanizzato e mondo naturale non è figlio soltanto degli ultimi secoli. La progressiva industrializzazione degli spazi si è solo limitata a esacerbare un contrasto già esistente che, probabilmente, affonda le sue radici fin nelle prime forme di ambienti umani regolati dalle norme sociali e che, nei secoli, ha dato vita a due forme dell'immaginario collettivo che si trovano, con caratteristiche costanti, già a partire dal mondo greco-romano: quella del GreenMan e dell'Homo selvaticus. Due figure dai tratti misteriosi, atavici, alle quali Federico Gasparotti, dottore in Scienze Politiche, scrittore, fotografo e studioso di druidismo, ha dedicato il saggio Il GreenMan e l'Homo Selvaticus. L'anima naturale e la natura animale, edito da Anguana Edizioni, che ora andremo ad analizzare.

E' probabile che anche chi non conosca queste due figure vi sia incappato, inconsapevolmente, almeno una volta nella vita e, in tal caso, è probabile che il GreenMan o l'homo selvaticus abbiano scrutato, di nascosto, il viandante disattento, celate nell'ombra, dall'alto di un capitello, di un portone, di un affresco - o forse da dietro un albero o un cespuglio. Sia l'homo selvaticus sia il GreenMan, infatti, fungono da guardiani e da ambasciatori, nel mondo umano, del mondo naturale e in virtù di questo ruolo sono stati utilizzati, per secoli, come elementi "ornamentali" aventi, però, una ben precisa funzione spirituale legata al luogo in cui essi venivano rappresentati; quella, cioè, di rendere tributo, seppur in maniera differente, alla forza della Natura selvaggia, per ingraziarsi il suo potere.

Pur essendo accumunati da alcuni simboli, GreenMan e homo selvaticus rappresentano due diverse forme di relazione tra l'uomo e la Natura e il saggio di Federico Gasparotti descrive alla perfezione i loro rispettivi ruoli. 

Scendendo nello specifico, il GreenMan, o Uomo Verde "è raffigurato sempre con viso maschile [...] [esso è] il progetto dell'Essere Umano, l'idea che la natura ha dell'uomo e, nello stesso tempo il mezzo attraverso cui trasferire nel mondo materiale l'anima. [...] Il GreenMan personifica l'aspetto più spirituale del rapporto tra Uomo e Natura: egli è la parte integrante divina che pervade ogni persona e il simbolo dell'appartenenza dell'Essere Umano al tutto. [...] I GreenMan ci fissano senza tradire alcuna emozione o espressione: dall'alto dei capitelli scrutano il mondo umano con uno sguardo disincantato e oggettivo, che è proprio lo sguardo della Natura, che non giudica ma osserva il divenire secondo tempi non finiti e leggi non etiche. L'Uomo Verde è infatti la personificazione delle energie naturali e dell'aspetto sacro e magico della Madre Terra nel su rapporto con l'Umanità" (Federico Gasparotti, Il GreenMan e l'Homo Selvaticus, Anguana Edizioni, pp. 20-23).

In altri termini, il GreenMan rappresenta la Natura contemplativa: l'anima originaria dell'uomo impressa nella Natura ancora vergine, la visione del mistico che, immerso in contemplazione in un bosco, in una foresta, sulla vetta di una montagna, è in grado di distaccarsi dalla sua esistenza contingente, sociale e umana in senso terreno per innalzarsi alla visione divina, elevata, sempiterna, universale e metamorfica dello Spirito della Natura, che non conosce Tempo, Luogo, Spazio, Forma e nemmeno Etica, e che si esprime un un continuo processo vitale di metamorfosi. 

Come sottolinea Gasparotti nel libro, contrariamente alla credenza più diffusa il GreenMan non è di origine Celtica, bensì Romana, e le più antiche rappresentazioni di esso conservate risalgono a mosaici del II secolo d.C. Esso avrà poi grande diffusione nella decorazioni delle Cattedrali del mondo Medievale ed è dunque probabile che la connessione con il mondo celtico sia stata posteriore; in esso, gli antichi fedeli pagani rivedevano un antico simbolo della loro religione naturale. 

Diversi, invece, sono la figura e il ruolo dell'homo selvaticus, che, a fronte della "metafisica naturale" del GreenMan, incarna un aspetto più concreto, materiale, terreno e terrestre del rapporto tra uomo e Natura.

Sempre citando la precisa descrizione di Gasparotti: "Fin dall'antichità ogni Foresta e ogni Bosco hanno un proprio guardiano, che è sempre un uomo che vive isolato, completamente selvaggio [...] e talmente in equilibrio con le forze naturali da saper dominare le bestie feroci. Egli è il guardiano non solo della Natura primigenia, ma della Sacralità; è l'universo pagano che trova un custode, un garante super partes che possa essere riferimento condiviso [...] qualunque sia il proprio Credo. Il guardiano è l'Uomo Selvaggio che conosce i segreti, i ritmi, le voci del Bosco e che, per quanto appaia minaccioso, è sempre disposto a nascondere e proteggere. [...] Col suo enigmatico sguardo ieratico e la sua clava minacciosa egli è dispensatore di silenziosa saggezza. Nell'immaginario comune questa creatura, a cavallo di due mondi [...] è l'ultimo custode delle antiche credenze pagane [...]. La sua carica simbolica è così potente che lo rintracciamo nelle saghe, nelle fiabe, negli incunaboli e miniature, nelle vetrate e sui portali e fregi delle chiese" (Federico Gasparotti, Il GreenMan e l'Homo Selvaticus, Anguana Edizioni, pp. 27-28).

L'homo selvaticus nasce, dunque, quando lo spirito della Natura, infuso nell'uomo, si manifesta non nella contemplazione passiva tipica del GreenMan, ma nell'azione attiva, selvatica, rurale, materiale, grezza, potente, selvaggia, nella vita in una perfetta comunione con il mondo animale e vegetale non solo dal punto di vista spirituale, ma soprattutto dal punto di vista materico. L'homo selvaticus è in comunione con gli animali, i vegetali e la Natura poiché egli è animale, vegetale, Natura ed egli vive completamente immerso con il corpo oltre che con lo spirito in questo mondo. Sempre citando Federico Gasparotti: "Il guardiano-eremita, sempre rappresentato mentre brandisce una clava o un bastone [...] è l'antico rapporto dell'umo con la Natura, degli antichi linguaggi perduti che mettevano l'essere umano in sintonia con le manifestazioni naturali. L'homo selvaticus è l'incarnazione sublimata della conoscenza druidica: il druido lascia da parte l'apparato nozionistico assimilato negli anni per abbandonarsi al Naturale. [...] Il druido, che passa la vita a studiare e imparare la Natura, abbandona il proprio fardello di conoscere per divenire egli stesso parte del mondo naturale" (Federico Gasparotti, Il GreenMan e l'Homo Selvaticus, Anguana Edizioni, pp. 28).

Mentre, dunque, il GreenMan rappresenta un'unione distaccata, impersonale e contemplativa con lo spirito della Natura, l'homo selvaticus è l'unione con la natura fatta a uomo. Da qui il significato del sottotitolo del libro di Gasparotti: l'anima naturale e la natura animale e da qui anche la differente rappresentazioni delle due entità nel mondo del folklore. 

Il GreenMan può essere assimilato alle entità elementali, alla loro manifestazione eterea, quasi intangibile, eppure sempre presente all'interno della Natura incontaminata: è lo spirito della Natura che ci guarda non solo dall'alto, ma da ogni direzione del bosco. L'homo selvaticus, invece, è un essere concreto, che popola grotte, capanne, anfratti, che può spiare il viandante da dietro il tronco di un albero per poi svanire nel sottobosco. Molti sono i racconti Medievali di uomini selvatici che popolavano boschi e foreste, in un rapporto con il mondo civilizzato a volte di convivenza e altre volte conflittuale, che nel peggiore dei casi sfociava addirittura in guerre e roghi contro il popolo selvaggio; simbolo dell'uomo civilizzato incapace di interiorizzare il proprio lato selvatico o, più concretamente, testimonianza di antiche lotte realmente avvenute tra uomini del bosco e uomini della città?

Perfino nella simbologia cristiana si trova una delle più diffuse e al contempo nascoste immagini dell'homo selvaticus, elevato addirittura al rango di un santo: quella di San Cristoforo. In molte chiese troneggia l'immagine o la statua monumentale di San Cristoforo, che viene sempre rappresentato con i tratti di un gigante barbuto, con indosso vestiti logori e in mano un grande bastone/clava, a volte addirittura il tronco intero di un albero. Molte sono le somiglianze con l'homo selvaticus ed esse non sono casuali. Stando al racconto di Jacopo di Varazze nella Legenda Aurea, Cristoforo era proprio un "sempliciotto", dal comportamento selvaggio benché inoffensivo e gentile, che viveva allo stato di natura in un bosco e che aiutava le persone a guadare un fiume proprio in virtù della sua stazza, pari a quella di un gigante. Un giorno Cristoforo aiutò un bambino ad attraversare il fiume. Questi a ogni passo si faceva sempre più pesante ma il gigante riuscì comunque a portare a termine il suo compito e, alla fine, il bambino gli rivelò di essere Cristo e che in quella traversata egli aveva portato sulle spalle il dolore dell'intero mondo. Da qui il suo nome: Cristoforo, letteralmente "portatore di Cristo". Molteplici sono le chiavi di lettura di questo mito/racconto agiografico ma, di certo, possiamo vedere in Cristoforo la figura di un homo selvaticus e il tentativo, da parte del cristianesimo, di conciliarlo con il mondo civilizzato attraverso la fede. 

Tornando al confronto tra GreenMan e homo selvaticus, Gasparotti sintetizza le loro differenze e il loro rapporto nella figura di quelli che potremmo definire due "animali totem", il cervo e il cinghiale. Citando le sue parole: "Se dovessi scegliere due animali per rappresentare i nostri due protagonisti, senza dubbio opterei per l'accostamento del cervo al Green Man e del cinghiale all'Homo Selvaticus. [...] Il cervo è la regalità, la nobiltà, l'equilibrio e le sue corna simboleggiano la continua capacità di rigenerarsi e le ramificazioni degli alberi; esso dunque è simbolo della coesistenza fra mondo animale e mondo vegetale e del legame fra la terra, calpestata dai suoi zoccoli, e il cielo, sferzato dai suoi palchi. [...] Il cinghiale è l'istinto, l'aggressività, l'impetuosità, l'energia vitale e le sue zanne rappresentano il legame con la terra che lo nutre; esso è dunque simbolo della necessità di usare i sensi per saper ascoltare l'ambiente, mostrandosi sempre pronti ad ingaggiar battaglia con le avversità. [...] Attraverso i sensi il cinghiale arriva ad individuare e a nutrirsi del divino. [...] Egli infatti è ghiotto di ghiande (frutti dell'albero più sacro ai Druidi) e di tartufi (ritenuti sacri dagli antichi in quanto prodotti dal contatto del fulmine con la terra). Il cinghiale/homo selvaticus sta a indicare, quindi, che la via per il divino passa, e deve passare, anche dal corpo" (Federico Gasparotti, Il GreenMan e l'Homo Selvaticus, Anguana Edizioni, pp. 17-18).

Per concludere, torniamo all'incipit del presente articolo per tirare le somme di quanto analizzato. A fronte della progressiva costrizione della coscienza umana nell'ambiente urbanizzato e civilizzato penso che l'unico modo per evitare l'alienazione sia recuperare il contatto con le forze Naturali. Non sempre questo è possibile, soprattutto in città, ed è per questo che ritengo importante riconnettersi interiormente con questi due archetipi dell'inconscio umano, il GreenMan e l'homo selvaticus, per recuperare, almeno entro di noi, quanto la nostra anima possiede di selvaggio, indomito, naturale e contemplativo. Da questo punto di vista, Il GreenMan e l'Homo Selvaticus di Federico Gasparotti è senz'altro un ottimo punto di partenza.


Federico Gasparotti, Il GreenMan e l'Homo Selvaticus, Anguana Edizioni

Daniele Palmieri

martedì 12 gennaio 2021

Rito, magia e sacralità del flauto nella cultura sciamanica


Scrive Fabre d'Olivet ne
 La musica spiegata: "La musica non è solamente [...] l'arte di combinare i suoni ingegnandosi nel riprodurli in maniera quanto più possibile gradevole all'orecchio [...]. La musica, considerata la sua caratteristica speculativa, è, come già definito dagli antichi, la via per apprendere l'ordine di tutte le cose , la scienza dei rapporti armonici dell'universo; ed essa si basa su principi immutabili ai quali nulla può nuocere" (Fabre d'Olivet, La musica spiegata, Arktos, p. 13).
La musica è la voce dell'armonia del cosmo; come già avevano compreso i Pitagorici, la musica dà voce alla relazione numerica dell'universo, è il canto divino generato dalla relazione matematica tra gli enti. Perfino i pianeti, secondo Pitagora e i suoi discepoli, producono una melodia divina, la cosiddetta melodia celeste, generata dal loro movimento perpetuo. Una teoria che avrà grande influsso sul mondo Medievale a tal punto che la geometria stessa delle cattedrali gotiche segue proporzioni musicali, come se la melodia del verbo di Dio venisse fissata nella pietra. 
Il rapporto sacro, magico e religioso tra musica e uomo, tuttavia, è molto più antico sia della cultura Medievale sia di quella Greca. Esso affonda le sue radici nella  nascita del sentimento del sacro. Come scrive il musicologo Marius Schneider ne La musica primitiva: "Un gran numero di informazioni sulla natura della musica e sul suo ruolo nel mondo ci viene dai miti della creazione. Tutte le volte che la genesi del mondo è descritta con sufficiente precisione, un elemento acustico interviene nel momento decisivo dell'azione. Nell'istante in cui un dio manifesta la volontà di dare vita a se steso o a un altro dio, di far apparire il cielo e la terra oppure l'uomo, egli emette un suono. Espira, sospira, parla, canta, grida, urla, tossisce, espettora, singhiozza, vomita, tuona, oppure suona uno strumento musicale [...]. La fonte dalla quale emana il mondo è sempre una fonte acustica. [...] Questo suono, nato dal Vuoto, è il frutto di un pensiero che fa vibrare il Nulla e, propagandosi, crea lo spazio" (Marius Schneider, La musica primitiva, Adelphi, pp. 13-14).
Se prendiamo ad esempio l'Antico Testamento, Dio, nella Genesi, dona vita all'Uomo d'argilla attraverso il soffio; ed è possibile immaginare come la prima manifestazione della sua esistenza fu proprio il suono caldo, profondo e melodioso generato dal fiato quando vibra in una cavità d'argilla.
Possiamo ipotizzare che i primi strumenti musicali, per la loro relativa facilità di creazione e utilizzo, furono percussioni e strumenti a fiato. La loro semplicità, tuttavia, è prettamente "materiale"; dal punto di vista magico, religioso e rituale sono strumenti estremamente metafisici, in grado di riprodurre i suoni atavici della Terra e del Cosmo, e di imitare dunque la voce della divinità.
Il tamburo sciamanico, ad esempio, è uno degli strumenti più diffusi e utilizzati fin dall'epoca arcaica. Come dimostrano alcuni studi riportati da Harner ne La caverna e il cosmo (Edizioni Crisalide), il battito regolare e continuo del tamburo è in grado di indurre stati alterati di coscienza. Nel presente articolo, tuttavia, non ci focalizzeremo sulle percussioni che, grazie al revival sciamanico odierno, sono molto studiate e utilizzate nelle pratiche estatiche, bensì sul flauto. O, meglio, sulla famiglia molto ampia dei flauti che, a partire dall'etimologia latina "flare", soffiare, intenderemo qui in senso generale come strumenti a fiato. 
Come il tamburo, anche i flauti possiedono caratteristiche ataviche in grado di connettere l'uomo con le forme espressive più arcaiche sia della musica sia della sacralità. Se il tamburo rappresenta il lato dirompente, estatico, finanche distruttivo del Dio - paragonabile al rombo del tuono, alla distruzione del terremoto, al rovesciarsi delle frane - il flauto è invece collegato al lato "vivificante" della divinità, come il soffio divino in grado di dotare di anima gli oggetti inanimati, o il respiro stesso del Dio che si manifesta con il vento che spira tra i boschi, sulla costa, tra le onde, che porta ora le nubi, ora la pioggia, ora il Sole, ora il caldo ora il freddo, permettendo il perenne ciclo della vita. Ma il potere magico/mimetico del flauto fu, per i popoli arcaici, ancor più vario e rivelatorio; le sue possibilità musicali sono infatti decisamente più ampie rispetto a quelle del tamburo e degli strumenti a percussione. Con i flauti divenne possibile imitare perfino il linguaggio degli esseri viventi, come ad esempio il verbo degli uccelli, il cui ruolo sacro è così antico e duraturo che che si ritrova perfino nelle tradizioni mistiche sufi e francescana. 
Numerosi ritrovamenti archeologici attestano che il flauto accompagna l'uomo da decine di migliaia di anni. Tra i ritrovamenti più eclatanti, il cosiddetto Flauto di Divje Babe, un frammento di osso di orso delle caverne su cui sono presenti due fori circolari e due mezzi-fori spezzati, a formare quello che si suppone essere uno dei flauti più antichi della storia, datato a oltre 40.000 anni fa e la cui costruzione è attribuita addirittura ai nostri antenati neandertaliani; il flauto completo più antico mai rinvenuto risale invece a 35.000 anni fa e si tratta del Flauto di Hohle Fels, in Germania. Non sappiamo quale fosse l'abilità linguistica dei neandertaliani e nemmeno quale fosse il linguaggio arcaico dei nostri diretti discendenti "sapiens sapiens"; ma è certo che il flauto deve aver influito enormemente sulle loro possibilità espressive.
Nella Genesi si trova uno dei più antichi riferimenti letterari e religiosi al flauto. Si tratta di Iubal, figlio di Lamech, che "fu il padre di tutti i suonatori di cetra e di flauto" (Genesi, 4,21).
Anche tra gli strumenti più antichi della civiltà etrusca sono annoverati strumenti a fiati. Come scrive Andrea Balzani: "Dagli scavi archeologici effettuati nel complesso di Vulci, Cerveteri e Tarquinia, centri principali del dominio etrusco, è stato possibile individuare principalmente gli strumenti che utilizzavano: il suplu, uno strumento ad ancia di varia lunghezza, il cornu, caratterizzato da un lungo tubo ricurvo ed impiegato in fanteria per le segnalazioni militari, il corno potorio, utilizzato anche come coppa per bere per via della tipica forma a cono, il liuto, ricavato da un sottile tubo metallico e ripiegato ad un'estremità, la syrinx [...] e varie categorie di flauti" (Andrea Balzani, Antica Grecia. Musica e canti, Timia Edizioni, p. 36).
Mentre alcuni di essi furono "autoctoni", altri, come l'aulos e la syrnx erano, probabilmente, di importazione Greca. In particolare, nella Grecia Arcaica l'aulos e la syrinx rappresentano i più importanti strumenti a fiato, sacri rispettivamente a Dionisio e a Pan. Il primo veniva utilizzato nella celebrazione dei misteri dionisiaci e stando alla descrizione di Andrea Balzani: "importato dalla Frigia asiatica, poteva essere ad ancia semplice e o corta [...]. Le parti di cui era composto consistevano in una striscia di cuoio allacciata all'esecutore nell'imboccatura, un bocchino dove erano inserite le anche (glottai) collocate in una strozzatura di collegamento e due rigonfiamenti del tubo (holmoi). [...] Tra i materiali di cui era composto vi erano il legno, la canna, ossa e avorio, a seconda dell'uso per cui erano destinati" (Andrea Balzani, Antica Grecia. Musica e canti, Timia Edizioni, p. 18).
La syrnx, invece, era associata al Dio Pan e, difatti, è noto ai più come "Flauto di Pan", composto da una serie di tubi cavi legati tra loro da corde, cera o lacci. Esso riproduce riproduce i suoni misteriosi della natura selvaggia, del vento che si insinua tra le foglie, gli anfratti e le grotte. Il mito stesso della nascita dello syrnx è strettamente legato alla figura del dio Pan. Syrnx, infatti, secondo la leggenda narrata da Ovidio ne Le Metamorfosi, era una Ninfa legata alla dea Artemide ma che cercava di imitare l'aspetto e il portamento di Diana, dea dei boschi, della caccia e degli animali selvatici. Per questo Pan si invaghì di lei e cominciò a inseguirla per possederla. Per salvare la sua verginità, Syrnx chiese aiuto alle Naiadi del fiume Ladone e queste le donarono riparo trasformandola in un cespuglio di canne palustri. Tuttavia, anche in questa forma Pan non riuscì a sfuggire al suo incanto. Il vento che soffiava sulle canne provocava una dolce melodia, suadente e ipnotizzante come il canto delle Sirene. E fu così che Pan, strappate le canne e legatele insieme, creò il primo syrnx, ossia il primo flauto a canne.
Nonostante la lontananza geografica e temporale, è interessante notare la connessione che lega la simbologia e la mitologia del flauto greco all'utilizzo rituale del flauto da parte dei nativi americani. Una figura ricorrente nell'arte rupestre del Sud-Ovest americano è proprio quella del suonatore di flauto, spesso rappresentato nella figura mitologica di Kokopelli, divinità Navajo. Sia Kokopelli sia i suonatori di flauto vengono sempre rappresentati con i tratti caratteristici della tradizione sciamanica; rapiti da una danza estatica, con tratti animaleschi o circondato da animali che seguono la loro melodia, con deformazioni fisiche come gobbe o gambe caprine e, soprattutto, con il fallo eretto a indicare la possessione da parte di un'irresistibile potenza sessuale - espressione dell'eros cosmico che anima tutte le cose, della potenza incontenibile e selvaggia della natura. Non a caso Kokopelli assumeva il ruolo di mercante, vagabondo, trickster ma anche di messaggero di nuove nascite, a cui spetta il compito di portare in spalla le anime dei nuovi nascituri esattamente come nel proprio fagotto trasporta i semi dei fiori e delle piante che sbocciano in primavera.  Tutte queste caratteristiche rendono lo sciamano/suonatore di flauto americano estremamente affine al Dio Pan della mitologia greca e dimostrano come, fin dal mondo arcaico, il flauto venisse utilizzato in riti sacri e magici legati alla sessualità, alla fecondità, alla comunione con la natura. D'altronde, il flauto fu uno dei primi strumenti a dare letteralmente voce alla natura morta, sia essa il legno o, soprattutto, le ossa di animali defunti a cui il suonatore era in grado di ridare la vita attraverso il proprio fiato - esattamente come la divinità infonde la vita nel cosmo. Da ciò deriva il potere magico attribuito all'atto stesso di suonare il flauto; un gesto rituale, in grado di far vibrare la materia, di dar vita e voce all'inanimato, di riprodurre il linguaggio di altre specie animali e poterle così controllare per magia simpatetica e, allo stesso tempo, di consentire al suonatore/sciamano di carpire le loro stesse conoscenze e di tramutarsi in essi. Non a caso, sempre tra i petroglifi del Sud-Ovest americano si ritrovano molte rappresentazioni di sciamani/suonatori di flauto che indossano un copricapo a forma di testa di uccello - simile, per alcuni aspetti, ai copricapi degli sciamani delle incisioni rupestri della Valcamonica. 

Come Scrive Denis Slifer in Kokopelli: "Il personaggio del suonatore di flauto ha qualcosa di archetipico e universalmente accattivante. Le credenze largamente condivise che egli fosse un simbolo di fertilità, menestrello errante o mercante, sacerdote della pioggia, sciamano mago della caccia, trickster e seduttore di fanciulle hanno contribuito alla sua popolarità. Egli è una delle poche divinità preistoriche sopravvissute in forma riconoscibile dai tempi antichi fino a oggi" (Denis Slifer, Kokopelli, Edizioni della Terra di Mezzo, pp. 36-37).
Una relazione, quella tra flauto, eros e magia, rimasta viva anche nel folklore più recente; in essa affonda le sue radici la celebre opera Il Flauto Magico di Mozart e Schikaneder, in cui Papageno, satiro/uccellatore suonatore di flauto dai tratti caprini e il vestito di piume, sembra ricalcare alla perfezione tanto Pan quanto Kokopelli, tuttalpiù considerando il suo comportamento ambivalente tipico del trickster nonché la sua bramosa ricerca di una compagna, e in cui il flauto che viene consegnato al protagonista, Tamino, per farsi strada nel suo viaggio iniziatico  possiede virtù magiche evocatorie, in grado di scatenare le energie occulte della natura e di rivelare i misteri del Reale. Medesimi riverberi sciamanici presenta anche la leggenda del Pifferaio di Hamelin, tramandata dai Fratelli Grimm ma risalente al XII secolo, in cui il protagonista è un suonatore di flauto vagabondo in grado di allontanare i ratti portatori di peste dalla città mediante la sua musica - azione che presenta strette connessioni con la capacità, da parte degli sciamani, di prendere il controllo di altri animali mediante la conoscenza di canti e musiche magici. Da notare, inoltre, il ripetersi di due importanti elementi simbolici; il primo, quello del vagabondaggio, proprio sia del Dio Pan sia di Kokopelli, e il secondo, quello dell'ambivalenza caratteriale tipica del trickster. Difatti, quando al Pifferaio viene negato il pagamento richiesto egli, da figura benevola in grado di allontanare il male dalla città, come uno sciamano, è subito in grado di trasformarsi in una figura malevola, uno stregone, utilizzando il medesimo potere magico del flauto per rapire, di notte, i bambini e condurli in una grotta per sfarli svanire in un'altra dimensione (altro archetipo ricorrente che ora non siamo in grado di approfondire, ma per il quale consiglio di leggere l'ottimo articolo di Marco Maculotti L'Accesso all'altro mondo nella tradizione sciamanica).
In conclusione di questa breve e per nulla esaustiva panoramica sul ruolo sacro del flauto nella cultura sciamanica, consiglio di sperimentarne il potere alla maniera più antica: distendendosi, sotto un albero, come Titiro della nota Egloga di Virgilio, e intonando musiche silvestri, in attesa che sopraggiungano i Satiri danzanti. Ma, come illustra Roger Callois ne I Demoni meridiani, guai a farlo a mezzogiorno, poiché in quell'ora il velo tra questo e l'altro mondo si fa più sottile e i Satiri non apprezzano di essere disturbati nell'ora del loro riposo.

Daniele Palmieri


martedì 5 gennaio 2021

Fulvio Rendhell: Lilith e Liluth. La Luna Nera e il Sole Nero

Fulvio Rendhell è uno dei più importanti esoteristi attivi sul panorama europeo. Con i suoi testi, è stato uno dei pochi occultisti del secolo passato (e anche contemporaneo) a unire il mondo dello spiritismo a quello della magia tradizionale, dotando però entrambe le correnti culturali di un approccio e un linguaggio logico, scientifico, lontano dal velo di oscurità e mistero che spesso, come una patina di polvere, si è posato in passato sulle conoscenze esoteriche rendendole nebulose e incomprensibili. Di lui le Edizioni Hermes hanno pubblicato una serie di testi che, presi nel complesso, creano un completo e dettagliato percorso iniziatico all'interno della magia e dello spiritismo. Per chi volesse approfondire attraverso le sue parole, parlo di Trattato di Alta magia, Alta magia pratica evocativa, La Magia del 2000 e Magia Spiritica.

Il testo a cui è dedicato questo articolo, pur presentando molte connessioni con la magia cerimoniale, è però legato a una figura misteriosa della religione, del mito e del folklore: la figura di Lilith (e della sua controparte maschile, meno conosciuta, Liluth). Sto parlando di una novità editoriale recentemente pubblicata da Libraio Editore, casa editrice della Libreria Esoterica di Milano: Lilith e Liluth. La Luna Nera e il Sole Nero, testo estremamente dettagliato scritto da Fulvio Rendhell, pubblicato in origine nel 1982 dalla casa editrice Mastrogiacomo di Padova e che, sparito dal commercio per diversi anni e divenuto introvabile, era diventato un vero e proprio oggetto di culto tra gli esperti del settore. Uscito in origine con il titolo Lilith. La sposa di Satana nell'Alta Magia, è ora a disposizione di tutti i lettori in una nuova edizione riveduta e aggiornata.
Addentrandoci nel vivo del testo, Lilith e Liluth è una degli studi più dettagliati legati alla figura di questa misteriosa, conturbante e oscura divinità femminile e ha il pregio di non focalizzarsi soltanto sull'aspetto astrologico del mito, come avviene nei pochi testi a ella dedicati, ma di addentrarsi nell'origine mitologica della divinità e della sua ricorrenza, sotto altre vesti, nei miti e nelle religioni mondiali. A partire da questo molteplicità di manifestazioni,  nel testo non si parla soltanto di Lilith intesa come singola figura appartenente a un unico contesto storico-religioso, ma più in generale di "tema lilithiano"; Lilith, e la sua controparte maschile Liluth, si sono manifestati più volte nel corso della storia della religione e della magia riproponendo lo stesso tema triadico che a breve andremo ad analizzare. In altri termini, potremmo vedere Lilith e Liluth come due archetipi mitologici, o mitologemi, che nel corso dei millenni si sono riproposti seguendo sempre lo stesso tema, cambiando soltanto alcuni aspetti superficiali a fronte di un nucleo archetipico sempiterno. 
Come scrive Fulvio Rendhell: "Per svelare le origini delle entità lilithiane si devono raggiungere i confini della storia e analizzare le conoscenze storiche acquisite tramite le scoperte archeologiche sulle civiltà più antiche. E' questo un viaggio a ritroso fino a diecimila anni fa" e questa ricerca, per il mondo dell'esoterismo, è così importante poiché "il Tema Lilithiano sta alla magia come la magia sta alla storia di sempre" (Fulvio Rendhell, Lilith e Liluth. La Luna Nera e il Sole Nero, Libraio Editore, p. 25). Un viaggio a ritroso nel tempo che ci porta nel mondo magico/religioso dei Sumero-Babilonese e della loro complessa concezione cosmogonica, alla cui base vi sono due triadi: la Triade Cosmica, rappresentata da An-Anu (Dio del Cielo), Enlil-Bel (Dio del Vento), Enki-Ea (Dio dell'Acqua) e la Triade Astrale, composta da Nannar-Sin (Dio della Luna), Babbar-Samas (Dio del Sole), e Inanna-Ishtar (Dea dell'Amore e della Guerra). Similmente a quanto verrà teorizzato dai filosofi neoplatonici greci, la creazione del Cosmo avviene per una serie di emanazioni della divinità, che riproduce il medesimo modello tanto nel macrocosmo quanto nel microcosmo, in una sorta di processo di moltiplicazione per mitosi che porta la divinità originaria a suddevidersi in una molteplicità di forme sempre più separate e sempre più piccole. Tuttavia, questo processo non è esente da variazioni, data l'infinita potenza creativa racchiusa nel divino ed è dalla dea Inanna-Ishtar che viene emanata una nuova triade composta da Ardat-Lili, entità demonica androgina, che a sua volta si suddivide in Lilu, parte demonica maschile rappresentato come "un drago con le fauci spalancate [...] con quattro grandi ali, il naso schiacciato, gli occhi sporgenti, un corpo di cane con un membro fallico di toro e una coda di scorpione" e in Lilithu, parte demonica femminile "rappresentata come una nera pantera dagli occhi magnetici" (Fulvio Rendhell, Lilith e Liluth. La Luna Nera e il Sole Nero, Libraio Editore, pp. 36-37).
Nel suo compresso, Ardat-Lili veniva temuto e venerato come un demone androgino, ora maschile ora femminile, legato alla lussuria, ai desideri sessuali, alla potenza ctonia e, nel macrocosmo, alle tempeste, alle catastrofi e alla potenza al contempo creativa e distruttiva dell'Universo. Tale venerazione non era soltanto legata a un culto "passivo" ma l'aspetto principale è invece il desiderio attivo che Ardat-Lili innescava nell'uomo. Lungi da terrorizzarlo rendendolo succube attraverso la propria potenza, Ardat-Lili meravigliava e stimolava l'uomo per mostrargli cosa egli avrebbe potuto compiere se fosse divenuto padrone della medesima energia, della medesima potenza. Non a caso in Ardat-Lili confluiscono sia le caratteristiche erotiche sia quelle distruttive; l'eros possiede una forza tale che, quando si sprigiona, può distruggere l'intero Cosmo. Il Demone Androgino di Ardat-Lili diviene presto depositario di una conoscenza arcana e misteriosa, legata a pochi adepti; il mistero all'origine delle conoscenze e dei poteri magici. Il tema lilithiano si ritroverà con caratteristiche simili a quelle sumero-babilonesi all'interno della religione e della mitologia giudaica, tanto nella Genesi tradizionale quanto nelle versioni apocrife che vanno a completarla.
In particolare nell'Alfabeto di Ben-Sirach (testo apocrifo del II secolo a.C.) viene narrato come Lilith fosse la prima sposa di Adamo, creata da Dio non da una sua costola ma dalla medesima argilla da cui aveva plasmato l'uomo. Data l'origine comune, Lilith rifiutava di sottomettersi ad Adamo e come atto di estrema ribellione decise di liberarsi pronunciando l'innominabile nome di Dio e scappando verso il Mar Rosso dove, accoppiandosi con i demoni della lussuria, avrebbe dato vita a numerosi figli chiamati Lilim (i futuri Incubi), divenendo la loro Regina. 
Reinterpretando la Genesi canonica, Fulvio Rendhell sostiene che anche dietro la figura del serpente non si nasconderebbe altri che Lilith, giunta a liberare Eva dal dominio tirannico di Adamo e a consegnar all'uomo il dono delle conoscenze magiche e arcane che Ella avrebbe appreso dal mondo sotterraneo e dai suoi intercorsi con i demoni. Come nel mondo sumero-babilonese, dunque, anche nella mitologia giudaica Lilith sarebbe strettamente legata alla conoscenza magica ed esoterica, soprattutto quella "oscura", non perché nera e negativa ma poiché legata alla notte, ai misteri insondabili dell'esistenza, che Dio avrebbe nascosto all'uomo per evitare che questi possa assurgere alla sua potenza. Citando le parole di Rendhell:  "Ogni conquista del pensiero umano è voluttuosa, eccitante, quasi un atto libidinoso dipendente da una sollecitazione ipercerebrale. [...] La lotta del genio umano sempre contrastato e la costane ricerca che spinse Ulisse oltre i confini del mondo sono i segni caratteristici che nell'Eden si rispecchia in Lilith-Eva, donna tentatrice che fa perdere il senno all'uomo e lo condanna all'eterno faticoso ascendete dalla Terra al Cielo. Lilith quindi sarebbe da considerare un elemento perturbatore ma liberatorio. Lilith esprimerebbe la lotta che lussuriosamente eccita la mente e i sensi per raggiungere la conoscenza. Ma la ricerca della conoscenza è fatica, dolore, angoscia. Lilith forse è l'artefice della nevrosi umana che si pone le domande: Chi siamo? Da dove veniamo e dove andiamo? [...]. L'amore di Ishtar si trasforma in Eva-Lilith in "amore" per la conoscenza. La lussuria turbinosa di Ishtar-Lilith si trasforma nella disubbidienza in Eva-Lilith per prostituirsi alla conoscenza, dando vita ai demoni" (Fulvio Rendhell, Lilith e Liluth. La Luna Nera e il Sole Nero, Libraio Editore, p. 149).
La visione giudaica di Lilith confluirà poi nel cristianesimo medievale e nella sua feconda, quanto orrorifica, fantasia folklorica. In questo contesto, Lilith assurge a moglie oscura di Satana, Regina degli Incubi e delle entità vampiriche, compagna delle streghe, insidiatrice di uomini e donne che, stando alla poetica descrizione fatta da Fulvio Rendhell nel libro, viene rappresentata come: "un demone femminile la cui bellezza enigmatica seduce uomini e donne. Ha un corpo perlaceo splendido, avvolto da una fuliggine cinerea spettrale che fa intravedere il seno eretto, da cui gocciola, invece che latte, sangue, nutrimento di vampiri astrali. Capelli lunghissimi neri e sottili che si muovono nella notturna brezza come propaggini animate vischiose. Il suo volto è bianco latte e su di esso sono tagliati gli occhi, due fessure azzurro-verdognole che durante le possessioni si trasformano in color rosso sangue. Le sue pupille sono cupe e senza fondo. La bocca è tagliente e sensuale, le labbra nero-violacee, i denti perfetti simili a una doppia collana di perle. Due nere ali incorniciano il suo corpo nudo come una corona funerea, da cui occhieggiano, invece che fiori, fosforescenti pupille di pipistrelli. Le dita delle mani, affusolate, sono provviste di lunghe unghie argentee che tracciano solchi nella fuliggine trasparente che l'avvolge, come rapide stelle cadenti in un cielo di Luna nuova. Non raramente le gambe si trasformano in una coda di serpente, che funge da attributo maschile quando vuole sedurre le donne" (Fulvio Rendhell, Lilith e Liluth. La Luna Nera e il Sole Nero, Libraio Editore, pp. 15-16).
Come accennato in precedenza, tuttavia, Lilith non è la sola a far parte del "tema lilithiano". In esso è presente una seconda entità, necessaria a ricomporre il vertice androgino della triade fondata da Arda-Lili: Liluth. Il termine, creato da Fulvio Rendhell sul calco del Lilu sumero-babilonese, serve a designare lo sposo infero, il Sole Nero, complementare e contrastante a Lilith, la Luna Nera. Data la natura "caotica" di Lilith e Liluth il loro matrimonio e la loro unione non è data dall'armonia ma, paradossalmente, dal conflitto. E' nell'eterna lotta che manifestano il proprio potere. Nel mondo medievale tale ruolo è assunto da Satana, l'angelo caduto a cui Lilith si sarebbe unita divenendo la sua sposa e regina. Ma è forse nella mitologia greco-romana che risalta il complicato rapporto delle forze ctonie maschili e femminili del tema lilithiano. Qui il tema lilithiano è incarnato nelle due figure divine di Persefone e Ade, la cui unione forzosa e conflittale nasce dal rapimento di Persefone da parte di Ade, in seguito al quale prende vita un regno oscuro, parallelo a quello dei vivi, in cui Ade, a cavallo del proprio cocchio dorato, rappresenta il Sole Nero e Persefone, regina delle tenebre e del mistero a esse associato, la Luna Nera.
Per concludere, consiglio la lettura integrale del testo di Rendhell, in cui il tema lilithiano viene approfondito non solo nella mitologia più nota, ma in molte altre culture come quella Cinese, Indiana, Tibetana, Maya, Azteca, fino ad arrivare ai giorni nostri in cui Lilith e Liluth, la Luna Nera e il Sole Nero, ritornano ciclicamente nell'Astrologia e nella Magia Cerimoniale, sempre a incarnare le medesime forze legate al proibito, alla ribellione e alla conoscenza, essenziali per l'uomo poiché: "Lilith non è da considerarsi soltanto come uno stato d'animo che nasce dal profondo di ancestrali timori della madre divoratrice o dalle zone d'ombra del profondo dell'inconscio, ma qualcosa di ben più precisato: un'entità esistente, un frammento di quella scintilla che è infusa in ogni cosa vivente, e poiché in magia tutto vive, Lilith esiste in ogni cosa, nei vari stati di essere relativi alle varie dimensioni universali, unitamente al suo antagonista, il Sole Nero" (Fulvio Rendhell, Lilith e Liluth. La Luna Nera e il Sole Nero, Libraio Editore, pp. 269).

Fulvio Rendhell, Lilith e Liluth. La Luna Nera e il Sole Nero, Libraio Editore

Daniele Palmieri