Sull'utilità e il danno della storia, un titolo che non dà certo nell'occhio, che non possiede la medesima potenza evocativa di Così parlò Zarathustra ma che, ciò non di meno, nasconde grandi insegnamenti, come tutti gli scritti di Nietzsche (compresi quelli giovanili).
Il breve libello si presenta come una critica allo storicismo, la corrente dominante della filosofia tedesca otto-novecentesca, e ruota attorno alla domanda: in che misura abbiamo bisogno della storia?
Abbiamo bisogno della storia per la vita e per l’azione, non
per ritirarci a studiarla come materia fine a se stessa, che non ha nulla da
insegnarci.
L’animale vive in un momento non-storico, perché si
dimentica subito del momento appena passato, al contrario dell’uomo. L’uomo si
porta dietro ed è oppresso dal pesante carico del passato. A un certo punto
però il passato deve essere dimenticato se non si vuole che esso diventi il
nostro becchino, per vivere per un momento felici come l’animale. Se così non
fosse, sanguineremmo ad ogni istante, oppressi dall'attimo appena passato. E
così il non storico e lo storico sono entrambi necessari per la salute di un
popolo. E’ vero, solo dallo storico nasce l’uomo, ma in un eccesso di storia
l’uomo trova anche la sua fine.
Gli uomini storici credono che il flusso della storia sia un
processo omogeneo la cui fase finale è il progresso dell’umanità e che la loro
stessa esistenza abbia un senso poiché inserita in questo flusso storico. Si
ricerca un flusso omogeneo in base alle esigenze, si manda la storia lì dove
noi vogliamo che vada. Gli ultimi dieci anni di storia non possono insegnarci
nulla di diverso. Passato e presente sono identici. La storia non potrà mai
diventare scienza pura come la matematica.
Tuttavia, la storia serve all’uomo; ciò che non serve è
l’eccesso della storia. La storia appartiene al vivente in tre sensi: per colui
che agisce e per le sue aspirazioni, per colui che la osserva e la adora, per
colui che soffre e ha bisogno di essere liberato.
A questi tre sensi corrispondono tre approcci, il
monumentale, l’antiquario e il critico.
I primi sono tesi verso il futuro, sono gli uomini che
creano nuova storia; la fama che acquisiscono non è il loro semplice e vanitoso
ologramma, ma la fede nell’affinità e la continuità dei grandi di ogni tempo.
Tuttavia, questa connessione non è tanto un flusso determinato, quanto un
“effetto in sé”, un evento storico che trova la sua compiutezza e la sua
grandezza in se stesso. Il problema sorge quanto questa storia monumentale,
fatta di grandi azioni, diventa oggetto di venerazione, condizionando il
giudizio dei posteri. Questo tipo di storia porta al fanatismo. E’ pericolosa
se entra nelle mani degli uomini di potere e ancora di più se entra nelle mani
degli uomini mediocri, che distruggeranno ogni senso artistico.
Il secondo tipo di storico è colui che si cura della storia
da cui è venuto e che vuole a tutti i costi tramandarla ai posteri; l’anima di
questo uomo si trasferisce nelle cose che conserva. La storia che tenta di
conservare diventa la sua storia. Percepisce se stesso come spirito della
propria città, della propria casa, crea un “noi” fittizio, un surrogato della
sua personalità ed è convinto che la vita possa procedere solo permettendo a
questo “noi” di continuare a vivere nella stessa immutabile realtà in cui lui è
nato. L’antiquario ha l’orizzonte limitato, crede che il suo giardino sia il
centro dell’universo, e se all’inizio la tradizione può vivificare la storia, a
lungo andare la mummifica. E’ in grado di conservare la vita ma non di
produrla. Paralizza la decisione, vanifica ogni sforzo e ogni energia tesa al
futuro, concentrata com’è sul passato.
Di fianco a questo tipo di storia, c’è bisogno del terzo
tipo di storico, quello critico. Questo deve distruggere il passato per poter
vivere. Deve condurre il passato in tribunale, sottoporlo a un’inchiesta
meticolosa e poi condannarlo. E’ un processo che nasce quando ci si accorge
dell’ingiustizia e che la vita stessa è tutta un’ingiustizia. Tuttavia, questo
passo è rischioso perché vuole costruire un nuovo passato da cui venire, e la
cosa non è semplice.
La stessa Filosofia, secondo Nietzsche, si è indebolita a causa di questo approccio; non esiste più nessuno
che vive filosoficamente, come gli stoici che aderivano alla Stoà, ma essa è
diventata un terreno limitato dai paletti delle istituzioni.
Trattano neutralmente la filosofia così come trattano
neutralmente la storia; ci si occupa di un filosofo in maniera arbitraria, si
sceglie di studiare Democrito piuttosto che Socrate come se fosse del tutto
indifferente, basta che se ne rispetti l’oggettività storica. Si snatura ogni
tipo di impulso culturale, tolgono la vita alla filosofia vera, facendola
diventare una voce dell’enciclopedia insieme alle altre. Questo eruditismo è in
realtà un’impotenza della nostra epoca.
Nonostante il progresso, la nostra epoca è davvero più
giusta e vera di quelle precedenti?
Ogni epoca ha sempre la superbia di ritenersi migliore di
quella precedente, di ritenersi l’unica giusta, l’unica che possiede la verità
e che tramite essa può criticare quelle passate.
Nel corso degli anni, gli uomini si sono sempre fatti
ingannare dalla verità e dalla giustizia; spesso, il giudice che predica la
verità è in realtà un fanatico.
La storia stessa, quando è scritta con oggettività, non si
può dire che sia “vera”, poiché compito dello storico è quello di ricercare un
nesso tra i fatti del passato che, per loro stessa essenza, sono impenetrabili.
La storia è un groviglio di causalità dove entrano in gioco
migliaia di cause parallele ed è impossibile tracciare un decorso storico
unitario, ancor più utopico riconoscere un decorso storico teso verso il futuro.
Il senso della storia non può trovarsi nella sua fine, bensì
nel suo perpetuo e ciclico decorso; in questo senso, la storia è una sinfonia
artistica, un’opera d’arte, non ha un senso morale intrinseco ma piuttosto un
senso estetico.
L’epoca presente non può essere giudice di quella passata
perché è arrivata dopo di essa, e un giudice deve sedere più in alto per
giudicare un imputato. Soltanto compiendo una grande impresa storica si possono
giudicare quelle passate; l’uguale per l’uguale. La storia la scrive chi è
esperto e superiore. Chi non ha vissuto qualcosa di grande non potrà
comprendere le grandi imprese del passato; il motto del passato è un motto
oracolare, come quello dell’oracolo di Delfi, e soltanto interpretandolo
correttamente è possibile costruire un futuro che ne sia all’altezza. Bisogna
studiare le azioni dei grandi condottieri del passato, come gli eroi di cui
narra Plutarco, per creare una cultura degna di questo nome.
Il giudizio storico fine a se stesso, che non sia
costruttivo, distrugge le fondamenta e non fa nulla di positivo. Una religione
ricostruita tramite la scienza storica viene snaturata, viene distrutta e
svuotata di tutta la sua spiritualità, poiché vengono fuori tutte le azioni
turpi e violente, mentre l’uomo di fede si nutre di amore e di speranza e con
esse edifica il futuro.
La scienza storica così come è impostata accieca l’uomo; il
giovane viene messo di fronte a centinaia di fatti storici in chiara luce di
cui non può comprenderne lo spirito. Perde sempre di più il senso di stupore e
alla fine ha perso ogni curiosità, è inattivo e apatico, non può costruire
nulla di nuovo. E’ la morte della cultura.
Lo storico formatosi su questo tipo di nozionismo si sente
completo già dalla giovinezza e quando diventa storico a tutti gli effetti è un
supponente che si sente ancora più completo per aver criticato un certo
capitoletto di un certo manuale, il tutto finché non si scade nella mediocrità
più assoluta.
In questo modo si distrugge la scienza, che viene
automatizzata. Con questo tipo di cultura storica gli uomini nascono già vecchi
e si avvera la profezia di Erodoto secondo la quale l’ultima generazione di
uomini nascerà già con i capelli grigi.
Con l’idea di un “ringiovanire” dell’umanità con il
procedere del tempo non si fa altro che tramandare la visione teologica
cristiana della storia, tesa verso un’apocalisse divina. Si guarda alla storia
con la stessa reverenza clericale ed è come se si attendesse che il momento
presente passi per trascriverlo su un libro di storia o, al massimo, per
limitarne gli effetti.
Lo storicismo hegeliano ha reso la storia qualcosa di sacro
e necessario; si vede l’epoca presente come il frutto tardo ma maturo di un
processo universale, cadendo in un fanatismo storico e precludendo ogni altra
forma d’arte.
Per di più, questo tipo di storicismo rende ciechi gli
studiosi che giustificano ogni evento passato, trovando un cavillo come fossero
avvocati. Ad esempio, si giustifica la morte dei grandi artisti dicendo che
ormai avevano fatto il loro tempo.
Questi uomini sono tronfi d’orgoglio, credono di essere il
vertice della storia, credono di aver raggiunto il traguardo della storia, di
esserne il suo gioiello, addirittura di portare a compimento la natura.
Questo tipo di uomo non trova ideali per realizzare la
propria vita, concentrato com’è su questo presunto processo storico necessario,
e non compirà mai nulla di grande, appiattendosi al livello della massa che
altro non è se non una lastra venuta male dei grandi uomini, uno strumento dei
grandi uomini o un loro ostacolo.
Le cosiddette leggi storiche che rintracciano non sono
nient’altro che l’opinione di questa massa di creta di alcun valore.
Purtroppo l’educazione dei giovani tedeschi si basa su
questi presupposti e li sta rendendo non degli uomini ma degli eruditi buoni a
nulla.
Per spezzare questa superstizione bisogna innanzitutto far
cadere l’illusione della necessità di questo tipo di educazione, che indottrina
il ragazzo ma non gli insegna a vivere. Meglio mandarli nei laboratori della
natura piuttosto che in un museo. Dovrebbe valere l’ideale platonico della
tripartizione delle caste. Questa è l’unica verità necessaria; chi è nato
filosofo, ha oro nel suo corpo. Il motto della nuova generazione dovrebbe
essere non cogito ergo sum, ma sum ergo cogito, vivo, quindi penso.
Il rimedio è l’individuo non storico e quello sovrastorico;
il primo dimentica tutto il passato, il secondo sposta il suo interesse
soltanto verso l’arte e la religione, che trapassano ogni era. La scienza vede
in queste potenze forze avversarie, che vede in ogni cosa un fatto storico.
Bisogna seguire l’esempio dei greci che si trovarono in una
situazione; colpiti da una serie di influssi di culture straniere, riuscirono a
dare ordine a questo caos grazie al motto delfico “conosci te stesso”, tenendo
solo il necessario e creando una cultura propria. Un cultura che era una voce
unica tra vita, pensiero, apparire e volere.
Daniele Palmieri
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