sabato 25 dicembre 2021

La meditazione del cadavere. La contemplazione della morte tra Occidente e Oriente

                
Una delle pratiche di contemplazione più diffuse  nel mondo occidentale, tanto nel mondo greco-romano tanto in quello cristiano, è quella della contemplazione della morte. 
Tra gli Stoici, come Seneca, Epitteto e Marco Aurelio, era diffusa l'idea di allontanare la paura della morte, sia personale sia dei propri cari, non solo meditando costantemente sulla vanità dell'esistenza, ma soprattutto figurandosi, in anticipo, il momento fatale.
In molti passi dei suoi Pensieri, Marco Aurelio suggerisce di compiere questa pratica focalizzandosi sull'essenza materiale del proprio corpo, visualizzando quanto di fragile, perituro e materiale esso possiede. Occorre porre in risalto la carne, le ossa, il sangue, il seme, risaltarne la "materialità" e considerarsi come un semplice agglomerato di componenti destinate a decomporsi e svanire. 
Una pratica di contemplazione che, tuttavia, non deve sfociare nell'autocommiserazione, nella       depressione o nel lutto. Questa scomposizione anatomica del proprio corpo, con lo scopo di porre in risalto il cadavere, ha un duplice fine: quello di prendere atto della fugacità del tempo, per vivere a pieno la propria vita, come sostiene Seneca ne La vanità della vita e nelle Lettere a Lucilio, e quello di corrodere tutto ciò che vi è di perituro e superficiale per recuperare ciò che giace sepolto sotto la carcassa materiale: la luce sempiterna dell'anima.
Il corpo può infatti diventare una tomba prematura per l'anima, quando la soffoca e la imbriglia ai propri capricci. Ma quando lo si scompone, vi si scava attraverso e lo si analizza per scoprire cosa realmente si nasconde dietro la nostra identità, ecco che la luce dell'anima rifulge e torna a splendere in tutta la sua luminosità.
Questa pratica rimarrà viva e presente anche nel mondo cristiano, fino a partire dal simbolismo originario dei Vangeli. 
La passione di Cristo e le tappe via via più dolorose della via Crucis descritte nei Vangeli possono essere rilette, simbolicamente, come una progressiva scomposizione del corpo. Cristo, come Orfeo, viene smembrato non dalle Ninfe ma dai suoi aguzzini: il suo corpo è umiliato, scarnificato, sottoposto alla fatica e alle ingiurie, inchiodato alla croce ed elevato al cielo per mostrare alla folla inferocita la debolezza di una carne che suda, sanguina, soffre e piange. Ma al termine del supplizio ecco la resurrezione: dal cadavere deposto nella tomba riemerge un nuovo corpo, il corpo di luce, l'anima immortale che effonde sui fedeli i raggi del suo calore e della sua santità.
Il cristianesimo sviluppò questo simbolismo del cadavere nella pratica della contemplazione della morte. Tra gli esempi più fulgidi e ricchi anche di ironia, del sorriso beffardo tipico degli scheletri che popolano le danze macabre, vi è un passo di sant'Ambrogio di Milano, che nel suo Exameron esorta i fedeli a tendere sempre un occhio ai sepolcri per contemplare la morte: Getta lo sguardo dentro i sepolcri, e vedi che cosa rimarrà di te, cioè del tuo corpo, se non cenere e ossa, e gettavi lo sguardo, ripeto, e dimmi un po’: chi è povero e ricco là dentro? Riconoscivi i disgraziati dai potenti! Noi tutti nasciamo nudi, e moriamo nudi. Non c’è differenza alcuna tra i cadaveri, eccetto che, probabilmente, i corpi dei ricchi, enfiati di tutti i piaceri, puzzano di più” (Ambrogio di Milano, Exameron, Tea Edizioni, p. 261).

Nel corso del medioevo, la visualizzazione della morte divenne una delle forme di preghiera e contemplazione più diffuse. Prendendo alla lettera le istruzioni di sant'Ambrogio di Milano, in molte chiese e monasteri si svilupperanno i cosiddetti "putridari", delle stanze sotterranee dove i cadaveri dei monaci defunti venivano "imbalsamati" e riposti, seduti, in piedi o sdraiati in loculi appositi e dove i monaci vivi si ritiravano a pregare e meditare, seduti in compagnia dei morti, per riflettere sulla vanità dell'esistenza e contemplare lo stato che presto avrebbe raggiunto il loro corpo mortale. Uno di questi putridari si può trovare, ad esempio, nei sotterranei della Chiesa di San Bernardino alle Ossa di Milano. Purtroppo il putridario non è aperto al pubblico, ma lo è la cappella della Chiesa che svolgeva la medesima funzione. Essa, infatti, è interamente "decorata" con ossa e teschi, che circondano il fedele e mostrano all'osservatore, nel nero delle loro orbite vuote, il volto più reale e tangibile della morte che si avvicina. Sedersi in silenzio e osservare i teschi tutti uguali, gli sguardi seri ma al contempo beffardi disegnati dalle mascelle ormai nude, con i denti in bella vista, è una delle pratiche di contemplazione della morte più intense a cui ci si può sottoporre. Similmente, la famosa "Scala dei Morti" della Sacra di San Michele di Torino prende il suo nome dai corpi morti, seduti in cima alla gradinata, che accoglievano i pellegrini al loro arrivo, mettendoli subito di fronte alla fragilità della loro esistenza.
La medesima "trasfigurazione spirituale" della morte e della sua immagine è stata sviluppata, in maniera parallela e autonoma, anche in Oriente, soprattutto nel Buddhismo Tibetano. E' estremamente interessante notare come pratiche del tutto affini a quelle sorte in Occidente si siano sviluppate anche tra i monasteri del Tibet, ben prima che le due culture entrassero in contatto - un'ulteriore dimostrazione di come le strade spirituali siano molteplici, ma a fronte del differente simbolismo vi siano sempre delle tecniche di manipolazione del corpo, dei pensieri e della psiche costanti, che inducono nel praticante il medesimo "sviluppo spirituale".
Nelle pratiche tantriche del Tibet, il rapporto diretto con il cadavere è una costante - come lo era stata in Occidente prima che il forte simbolismo spirituale venisse via via "annacquato" da una civiltà sempre più attaccata alla materialità della vita e intollerante nei confronti di tutto ciò che rimanda alla mortalità, in primis, appunto, la visione della morte.
Come i corpi morti dei Santi cristiani, attorno ai quali si sviluppa una vera e propria venerazione del cadavere e delle reliquie, circondati da un'aurea a metà tra il sacro e il magico, anche i corpi degli alti dignitari religiosi vengono imbalsamati ed "esposti" alla venerazione. "Queste mummie sono chiamate mardong" scrive Alexandra David-Nell nel suo Mistici e maghi del Tibet, "fasciate di stoffa, la faccia dipinta con oro, esse sono poste in mausolei di argento massiccio, ornati di pietre preziose. Spesso un pannello di vetro delimita un quadrato della bara attraverso il quale si può vedere la faccia dorata della mummia" (A. David-Neel, Mistici e maghi del Tibet, Astrolabio, p. 35), un'immagine pressoché identica ai reliquiari presenti in molte Chiese e Cattedrali occidentali, in cui il cadavere, esposto allo sguardo del fedele, diviene un vero e proprio oggetto di contemplazione, una connessione tra mondo mortale/materiale e mondo divino/spirituale.
Ma le pratiche più interessanti sono le tecniche yogiche segrete, praticate dagli iniziati al tantrismo - quello originario e non la macchietta occidentale che ha trasformato il Tantra in una banale pratica di "sesso spirituale".
Il tantrismo tibetano è una via spirituale legata alla manipolazione delle forze primordiali che attraversano l'uomo. Queste forze sono legate soprattutto ai due impulsi più potenti e tabù: l'energia sessuale e la morte. Si badi bene, però, a prendere la consapevolezza che il Tantra originario, benché coinvolga, a volte, anche pratiche sessuali, non si esaurisce esclusivamente nella consumazione dell'atto sessuale: esso è soltanto una contingenza. Ciò che il Tantra persegue è la manipolazione dell'energia sessuale e questa forza, per essere controllata, non necessità che l'atto sessuale debba essere consumato ma, anzi, prevede che tale energia venga risvegliata e controllata anche, e soprattutto, quando non è collegata alla sessualità. Similmente la visione della morte suscita uno scuotimento profondo, paragonabile allo stesso impeto mosso dalle energie sessuali e anche in questo caso il fine dell'iniziato alla via tantrica è quello di controllare queste forze primordiali per incanalarle nel proprio sviluppo spirituale.
Anche in questo caso, è sorprendente constatare come nel Buddhismo Tibetano, similmente alle pratiche di contemplazione cristiane, la morte e il cadavere divengano dei "portali di risveglio", la cui visione è in grado di elevare l'anima dell'iniziato, mobilitando nella sua interiorità delle forze ctonie.
Ne Il sentiero del mistico sacrificio, un antico testo tibetano tradotto in Occidente per la prima volta da Evans Wentz nel suo Lo Yoga Tibetano e le dottrine segrete (Ubaldini), viene descritta una pratica di visualizzazione della morte, la cosiddetta "visualizzazione del cadavere e della dea adirata", in cui l'iniziato deve figurarsi come un corpo morto smembrato e dilaniato dalla Dea Adirata. Come si legge nel testo:
"Immagina che questo corpo, che è la risultante delle tue propensioni kamiche, sia un cadavere grasso e succulento d'aspetto, immenso tanto da abbracciare l'Universo. Allora dicendo Phat! visualizza l'Intelletto radioso che è dentro di te, come fosse la Dea Adirata in piedi accanto al tuo corpo, con un volto e due mani e che impugna un coltello e un teschio. Pensa che ella recida la testa del cadavere e la ponga, come un teschio simile a un enorme calderone, sopra tre teschi sistemati come piedi di un tripode che abbraccia le Tre Regioni. E che tagli il corpo a pezzetti e li getti nel teschio come offerte alla deità. Poi pensa che dal mistico potere dei raggi dei mantra trisillabici Aum, Ah, Hum e Ha, Ho, Hri, le offerte vengano interamente trasmutate in amrita, scintillante e radioso" (Il sentiero del mistico sacrificio, in E. Wentz, Lo Yoga Tibetano e le dottrine segrete, Ubaldini, p. 313). Come nelle meditazioni di Marco Aurelio, il corpo viene suddiviso e ridotto alla mera materialità, a tal punto che ogni parte viene "reificata", trasformandosi in un oggetto sciamanico: "Questo dono è offerto con gioia grandissima" recita l'iniziato durante la visualizzazione "[...] il tamburo fatto col teschio, che è il migliore e più raro dei tamburi, possiede un suono chiaro; la coperta di pelle umana su cui viene imbandito il banchetto è meravigliosa a guardare. La tromba di femore umano emette una melodiosa nota. le campane, adornate di campanellini, e la tiara, esercitano grande fascino(Il sentiero del mistico sacrificio, in E. Wentz, Lo Yoga Tibetano e le dottrine segrete, Ubaldini, p. 314-315).
Queste descrizioni non sono soltanto visualizzazioni legate alla sfera dell'immaginario. Esse riflettono usanze tipiche delle cerimonie funebri tibetane. Sempre come racconta Alexandra David-Neel nel suo Mistici e maghi del Tibet, durante le cerimonie funebri di alcune regioni del Tibet, il cadavere del morto può andare incontro a quattro destini differenti, tutti simili allo smembramento rituale citato in precedenza: "Il corpo è trasportato sulla cima della montagna. E' smembrato in quattro parti con un coltello ben affilato. Le interiora, il cuore, i polmoni vengono lasciati sul terreno, perché se ne nutrano gli uccelli, i lupi e le volpi. Il corpo è buttato in un fiume sacro. Il sangue e gli umori si dissolvono nelle acque azzurre. I pesci e le lontre ne mangeranno la carne e il grasso. Il corpo è bruciato. Carne e ossa e pelle sono ridotte a un mucchio di cenere. I Tisa troveranno nutrimento nell'odore. Il corpo è sotterrato. Carne, ossa e pelle saranno succhiate dai vermi" (A. David-Neel, Mistici e maghi del Tibet, Astrolabio, pp. 35-36).
Similmente, tanto nel Buddhismo Tibetano quanto nelle antiche pratiche sciamaniche del Bon, è usanze riutilizzare calotte craniche e ossa per creare oggetti rituali come coppe, flauti, trombe e "ornamenti sacri" utilizzati, come nei putridari occidentali, per avere sempre la morte di fronte ai propri occhi come monito, ricordo della vanità e dell'impermanenza delle cose materiali.
In scritti tibetani, anche più recenti, come Appunti su Il libro delle tre ispirazioni di Je Sherab Gyatso (contenuto in Praticare i 6 yoga di Naropa, a cura di G. Mullin, Amrita Edizioni), risalente al XIX secolo, è ancora presente un rapporto diretto, nelle pratiche yogiche del tantra, con il cadavere. Parlando della "pratica della proiezione della coscienza", una tecnica yogica legata alla liberazione della propria anima dal ciclo Samsarico all'insorgere della morte, Je Sherab Gyatso suggerisce di addestrarsi a proiettare la propria coscienza prima su una carcassa di maiale e poi su un cadavere recuperato da una fossa comune, finché non si diviene in grado di scaldare i corpi morti mediante la propria energia vitale. 
Un'ultima pratica, meno tabù ed eseguibile anche ai giorni nostri senza il rischio di incorrere nel reato penale di villipendio di cadavere, è contenuta ne La Beatitudine del Fuoco Interiore, testo scritto da Lama Yesce (Chiara Luce edizioni) e rivolto proprio agli Occidentali desiderosi di avvicinarsi alle pratiche tantriche originarie dei Sei Yoga di Naropa.
Come nei testi tradotti da Wentz, anche il libro di Lama Yesce contiene una tecnica di meditazione del cadavere, riadattata però alla sensibilità occidentale, che prevede la visualizzazione delle differenti fasi del morire e della decomposizione del proprio corpo:
1) Nel primo stadio occorre visualizzare la decomposizione dell'elemento terra: il corpo, lentamente, si dissolve man mano che diminuisce l'energia vitale esso diventa sempre più magro e debole, e la coscienza progressivamente perde chiarezza. Le immagini e i pensieri si fanno tremolanti.
2) Nel secondo stadio avviene la decomposizione dell'elemento acqua. Il corpo si rinsecchisce, ogni liquido corporeo si asciuga, le sensazioni sonore si fanno sempre più ovattate fino a sparire. La coscienza, ora, è circondata da una cortina di fumo.
3) Nel terzo stadio si dissolve l'elemento fuoco. Il corpo si fa sempre più freddo man mano che il calore delle membra si ritira, come una candela in cui la cera è quasi giunta al termine, fino a soffocare la fiamma sullo stoppino. In questo stadio non vengono più percepiti gli odori, l'inspirazione si fa sempre più breve, debole, e l'espirazione sempre più lunga - fuoriesce dal corpo più energia di quella che, invece, viene assorbita. Il "deficit" si fa sempre più vicino. Come un ceppo giunto ai suoi ultimi singhiozzi, la coscienza emette le scintille finali.
4) Nel quarto stadio viene meno l'elemento aria. La respirazione è completamente interrotta, la lingua si fa gonfia e turgida, incapace di muoversi. La fiamma si sta spegnendo.
5) Quando tutte le porte della percezione si sono ormai spente, tutto svanisce ed ecco che sorge una nuova coscienza, non più imbrigliata ai sensi esterni. Appare un bagliore biancastro, come se si stesse contemplando un cielo completamente avvolto dalla pallida luce della luna. 
6) La luce bianca si trasforma in luce rossa: la luce lunare si trasforma in luce solare, quella che tinge il del tramonto in un rosso fiammeggiante.
7) Anche il rosso svanisce e si tinge di nero, come la volta celeste quando il sole è ormai svanito. La coscienza è ora totalmente immersa nel vuoto. Ma questo è soltanto il preludio a un nuovo giorno.
8) Giunge finalmente l'ultima alba: la coscienza risorge nella "chiara luce" del mattino, paragonato da Lama Yesce alla luce dell'alba del cielo autunnale. Come scrive Lama Yesce: "Come il sole che sorge in un cielo chiaro e privo di nuvole, la luce gradualmente aumenta sempre di più, sino a quando l'intero spazio diventa chiara luce. Questa è l'esperienza del dharmakaya, lo stato di coscienza più sottile. Ogni esistenza è non duale, e tutti i problemi dualistici sono scomparsi. Entrate così nella natura simile allo spazio della chiara luce. La vostra coscienza di saggezza si fonde con lo spazio universale" (Lama Yesce, La beatitudine del fuoco interiore, Chiara Luce Edizioni, p. 81).

Daniele Palmieri

domenica 5 dicembre 2021

James Nestor: L'arte di respirare

Respirare è un gesto naturale, dato per scontato e apparentemente semplice. A un primo sguardo superficiale, non sembrano esservi molti modi per farlo. Basta inspirare ed espirare, con il naso o con la bocca; in ogni caso, si tratta di immettere ossigeno ed espellere anidride carbonica - e in una concezione prettamente meccanicistica del corpo umano, sembrerebbe non esservi alcuna importanza su come avvenga questo scambio. L'importante è che, in un modo o nell'altro, l'ossigeno entri nei polmoni e che l'anidride carbonica ne venga espulsa.
Eppure, la questione è molto più complessa. Vi sono innumerevoli modi per respirare e ogni tecnica influisce in maniera differente sul nostro stato fisico e mentale. Il gesto automatico, naturale, dato per scontato, è molto più importante di quello che pensiamo e lungi dall'essere un'azione automatica, il respiro necessita di essere educato, per trarne i massimi benefici nella propria vita quotidiana.
Questo è il nucleo principale attorno al quale si evolve L'arte di respirare di James Nestor, edito in Italia da Aboca, una delle letture più sorprendenti e rivelatorie che ho avuto la fortuna di incontrare.
James Nestor è un giornalista scientifico che ha collaborato The New York Time, The Atlantic e Scientific America, la cui ricerca si focalizza sui limiti del corpo e della mente umana, con un approccio decisamente "esperienziale", come avremo modo di raccontare. Nestor ha pubblicato due testi incentrati sul respiro: il già citato L'arte di respirare e Il respiro degli abissi. Il suo interesse nei confronti del respiro, come lui stesso racconta, nacque quasi per caso, per gli eventi che lo portarono a scrivere Il respiro degli abissi. Era il lontano 2011 quando Nestor fu inviato in Grecia per compiere un reportage dei campionati mondiali di nuoto in apnea per la rivista Outside. Prima di allora non aveva mai nutrito alcun interesse nei confronti dell'apnea ma, come racconta nel testo, la scelta del Direttore era caduta su di lui semplicemente perché aveva sempre vissuto vicino all'oceano e vi aveva dedicato parecchi articoli. 
A un primo impatto "esterno" con la materia, Nestor non ne rimase molto colpito. Scorrendo foto, dati e informazioni, gli parve soltanto "un bizzarro passatempo [...] a cui la gente si dedica per poterne parlare alle feste o usarne il nome come indirizzo di posta elettronica" (James Nestor, Il respiro degli abissi, EDT, p. 2).
Ma, una volta arrivato in Grecia, sulla barca dalla quale osserva la gara, le cose cambiano radicalmente. "Ciò a cui assisto da quel momento in poi mi sconcerta e mi atterrisce" scrive nel libro. Nestor assiste ad atleti in grado di scendere sotto i 90 metri di profondità, trattenendo il respiro per tre, quattro, cinque minuti, per poi risalire in superficie in assoluta tranquillità. Da quel momento cominciò a prendere l'apnea molto più seriamente, a tal punto da dar vita a un reportage che dalla Grecia lo porterà tra Porto Rico, Giappone, Honduras e Sri Lanka per entrare in contatto con diversi "maestri degli abissi", accomunati dalla passione per le profondità marine, gli esseri viventi che le popolano e la ritenzione del respiro come strumento per divenire un tutt'uno con il mare o l'oceano.
Lo studio dell'apnea divenne, per Nestor, l'anticamera di una ricerca più ampia sulla respirazione. Dopo aver visto le imprese degli apneisti, rimase, all'autore, il dubbio su quante potenzialità nascoste vi fossero nel controllo coscienze della respirazione. Fu così che si rimise in viaggio per dar vita al secondo libro: L'arte di respirare.
L'aspetto più interessante che ritorna sia ne Il respiro degli abissi sia ne L'arte di respirare è l'approccio esperienziale di Nestor. L'autore non si limita a rintracciare dati, statistiche o personalità da intervistare. Vi è, senz'altro, questo importante lavoro di ricerca, che viene però completato dalla curiosità di Nestor che lo porta a voler sperimentare sulla propria pelle - e sui propri polmoni, in questo caso - le ricerche da lui condotte. Così, mentre ne Il respiro degli abissi racconta di come sfidò i suoi limiti di ritenzione del respiro per immergersi con le creature marine e trovarsi faccia a faccia con i capodogli, fin dalle prime pagine de L'arte di respirare lo troviamo coinvolto in un faticoso esperimento per dimostrare che non tutte le forme di respirazione sono analoghe e che, per respirare correttamente, non basta far raggiungere l'ossigeno ai propri polmoni.
"Nell'ultimo secolo" scrive Nestor "l'opinione prevalente della medicina occidentale era che il naso fosse più o meno un organo ancillare. Dovremmo usarlo per espirare, se possibile, ma in caso contrario non c'è problema: è per questo che esiste la bocca. Molti medici, ricercatori e scienziati continuano a sostenere questa opinione. Nei National Institues of Health ci sono ventisette dipartimenti dedicati a polmoni, occhi, malattie della pelle, orecchie eccetera. Il naso e i seni paranasali non sono mai rappresentati. Nayak lo trova assurdo. E' il responsabile delle ricerche di rinologia a Stanford. Dirige un laboratorio di fama internazionale che si concentra esclusivamente sulla comprensione del potere occulto del naso. [...] Per questo è interessato a scoprire che cosa succede a un corpo che funzioni senza di esso. Ed è per questo che [...] a partire da oggi, passerò il quarto milione di respiri con dei tappi di silicone che mi bloccano le narici e un nastro chirurgico per impedire che anche la più piccola quantità d'aria entri o esca dal mio naso. Respirerò soltanto con la bocca" (James Nestor, L'arte di respirare, Aboca, pp. 27-28).
L'esperimento si rivela, fin dai primi giorni, una tortura. Non basta, infatti, che i polmoni ricevano la loro dose d'aria per respirare in maniera sana ed efficiente. A soli cinque giorni dall'inizio dell'esperimento "Respirare con la bocca ci sta distruggendo la salute. La mia pressione sanguigna si è impennata di 13 punti in media rispetto ai valori precedenti dell'esperimento [...]. Se non monitorato, questo stato di alta pressione cronica [...] può causare attacchi di cuore, ictus e altri disturbi gravi. Nel frattempo, la variabilità della frequenza cardiaca, una misura dell'equilibrio del sistema nervoso, è crollata, suggerendo che il mio corpo si trova in uno stato di stress. Poi c'è il battito, che è aumentato, e la temperatura corporea, che è calata, e la mia lucidità mentale, che si può considerare ai minimi storici [...]. Ma la cosa peggiore è la sensazione: stiamo malissimo. Ogni giorno sembra andare peggio" (James Nestor, L'arte di respirare, Aboca, pp. 47-48).
La respirazione orale prolungata, oltre a essere dannosa per l'intero organismo, causa una serie di effetti collaterali a catena all'intero apparato respiratorio e orale, come testimoniano gli esperimenti di Harvold citati da Nestor: "Inspirare aria dalla bocca diminuisce la pressione e questo fa sì che i tessuti molli in fondo alla bocca si rilassino e si curvino verso l'interno, creando un minore spazio complessivo e rendendo la respirazione più difficile" (James Nestor, L'arte di respirare, Aboca, p. 59).
Una situazione che, tuttavia, può diventare reversibile. Nel respiro vi è la malattia ma anche la cura, nel momento in cui si recupera il corretto modo di respirare. Dal decimo giorno dell'esperimento, in cui Nestor può finalmente togliersi i tappi e ricominciare a respirare con il naso, ecco che ricomincia la rinascita, attraverso la sperimentazione di diverse pratiche atte a sviluppare una maggiore consapevolezza del respiro.
C'è un motivo, insomma, se ci siamo evoluti dotati di naso. "Il naso è importantissimo perché purifica l'aria, la riscalda e la inumidisce in modo da facilitarne l'assorbimento. Molti di noi questo lo sanno. Ma quello che tanti non considerano è il ruolo imprevisto del naso in disturbi come la disfunzione erettile. O la sua capacità di innescare una pioggia di ormoni e sostanze chimiche che abbassano la pressione del sangue e agevolano la digestione. Come risponda alle fasi del ciclo mestruale della donna. Come regoli il battito cardiaco, apra i vasi nelle dita dei piedi e immagazzini i ricordi" (James Nestor, L'arte di respirare, Aboca, pp. 77-78). La riscoperta del respiro, da parte di Nestor, comincia proprio dal naso e dalle innumerevoli testimonianze antiche che legavano l'energia umana a una corretta respirazione. Ben prima della scienza, la sapienza mistica e religiosa tradizionale aveva riconosciuto l'importanza del respiro. Nestor sottolinea come, tanto nei testi taoisti quanto in quelli induisti, e perfino tra le tribù autoctone degli Indiani d'America, la respirazione orale veniva ritenuta una delle principali cause delle malattie del corpo e, al contrario, la padronanza della respirazione nasale veniva considerata la via maestra per il contatto con il divino. Nelle pratiche yogiche, nella meditazione taoista, nell'esicasmo cristiano, nei mantra buddhisti, solo per citare alcune tecniche spirituali, la respirazione gioca un ruolo fondamentale, non solo per il rilassamento del corpo e per acquietare i pensieri, ma soprattutto per indurre nell'uomo una sensazione di "espansione della coscienza" in grado di avvicinarlo al divino. 
Esperienze che non sono soltanto illusioni create dalla fede, ma precisi stati psicofisici indotti dalla respirazione, come dimostra uno studio sorprendente effettuato dall'Università di Pavia volto a studiare il respiro nelle principali pratiche di preghiera e meditazione delle diverse religioni, riportato da Nestor all'interno del libro:
"Quando i monaci buddhisti cantano il loro mantra più conosciuto, Om Mani Padme Hum, ogni frase pronunciata dura sei secondi, con sei secondi per inalare prima che il canto ricominci. Il canto tradizionale dell'Om, il suono sacro dell'universo, usato nel giainismo e in altre tradizioni, richiede sei secondi per cantare, con una pausa di circa sei per inalare. Anche il canto sa ta na ma, una delle tecniche più note del Kundalini Yoga, comporta sei secondi per vocalizzare, seguiti da sei secondi per inalare. Poi c'erano le antiche posizioni induiste di mano e lingua chiamate mudra. [...] I respiri profondi e lenti che si eseguono [nella tecnica chiamata khechari] durano sei secondi ciascuno. [...] Nel 2001 i ricercatori dell'università di Pavia hanno radunato una ventina di soggetti, li hanno ricoperti di sensori per misurare il flusso sanguigno, la frequenza cardiaca e il feedback del sistema nervoso, poi hanno chiesto loro di recitare un mantra buddhista, oltre alla versione originale latina del rosario [...]. Con loro stupore, hanno scoperto che il numero medio di respiri per ogni ciclo era quasi esattamente identico [...]: 5,5 respiri al minuto. Ma ancora più sorprendente era l'effetto che aveva questa respirazione sui soggetti. Ogni volta che seguivano lo schema della respirazione lenta, l'afflusso di sangue al cervello aumentava e i sistemi del corpo entravano in uno stato di coerenza, in cui le funzioni di cuore, circolazione e sistema nervoso sono coordinate al massimo dell'efficienza. Nel momento in cui i soggetti tornavano a respirare in modo spontaneo o a parlare, i loro cuori battevano a un ritmo un po' più irregolare, e l'integrazione di questi piani si perdeva" (James Nestor, L'arte di respirare, Aboca, pp. 136-137).
Gli studi citati da Nestor sono la dimostrazione di come le pratiche di preghiera, meditazione e ripetizione dei mantra non siano dei semplici retaggi superstiziosi, ma, come le definirebbero Pauwels e Bergier, delle "tecniche di manipolazione dell'invisibile", il cui effetto si estende in egual modo sulla corpo e sulla psiche. E proprio il respiro funge da collante tra visibile e invisibile, spirito e materia, scienza e religione. Non a caso, secondo la concezione yogica, il Prana, l'energia vitale, viene assimilata dal corpo proprio attraverso il respiro. 
Esercitate in maniera costante e portate all'estremo, queste tecniche sono in grado di condurre l'uomo al di là del propri limiti, permettendogli di attingere a una riserva di energia latente pressoché infinita. Ne sono un esempio due casi moderni riportati sempre da Nestor all'interno della sua ricerca: quello di Wim Hof e quello di Stanislav Grof. Wim Hof, dopo un dramma personale, ha cominciato ad approfondire le tecniche yoga di respirazione fino a incontrare la "tummo", la respirazione tibetana del calore interiore, praticata da yogin e fachiri in grado di aumentare fino a otto gradi la propria temperatura corporea. Praticando in maniera costante questa forma di respirazione, inizia a cimentarsi in una serie di imprese di resistenza, portando il suo corpo a tollerare temperature glaciali che, dal punto di vista prettamente scientifico, avrebbero dovuto costargli diversi ipotermie, ma che lo porteranno invece a infrangere diversi Guinnes World Record.
Stanislav Grof, invece, è uno psichiatra che negli anni '70, studiando gli effetti della LSD sulla coscienza, si focalizzò su uno dei suoi "effetti collaterali" apparentemente secondari: l'accelerazione del respiro. Tutti i pazienti a cui era stata somministrata l'LSD mostravano una respirazione accelerata. Di fronte a questa rilevazione, Grof si chiese se fosse possibile ottenere i medesimi effetti dell'LSD inducendo la medesima accelerazione. Nacque così la sua tecnica respiratoria, che nominerà "Respirazione olotropica", una pratica di espansione della coscienza che, attraverso l'iperventilazione, la deprivazione visiva e la stimolazione della coscienza attraverso musiche psichedeliche, è in grado di indurre nella mente umana degli stati alterati di coscienza assimilabili a quelli dell'LSD.
Respirare, insomma, è un atto estremamente serio; un vero e proprio portale verso il mondo interiore, tanto del corpo quanto della mente. In apparenza potrebbe sembrare un'affermazione banale, ma dovrebbe far riflettere il fatto che possiamo trascorrere circa tre giorni senza bere, quaranta senza mangiare ma soltanto pochi minuti senza respirare. In media respiriamo circa otto litri d'aria al minuto. Il che significa che in una intera giornata respiriamo 11mila litri d'aria. Uno scambio di energia costante tra l'uomo e il cosmo, che permette di concepire in maniera più concreta il concetto di "Prana" e di capire come, già per Anassimene, l'essenza della vita andasse rintracciata nel Pneuma. Una volta assimilata questa consapevolezza, viene spontaneo porre attenzione alla respirazione. E dopo aver letto L'arte di respirare di James Nestor, verrà spontaneo focalizzare l'attenzione si ogni singolo respiro.


James Nestor, L'arte di respirare, Aboca Edizioni

Daniele Palmieri

lunedì 22 novembre 2021

Svela l'io sono e poi uccidilo. L'insegnamento di Nisargadatta Maharaj

Maruti Kampli nacque a Bombay nell'ormai lontano 1897 e passò gran parte della sua vita a vendere "bidi", delle sottili sigarette indiane, in una piccola bottega situata in un quartiere periferico, immerso nel caos della vita cittadina. All'età di trentacinque anni, tuttavia, la sua vita normale ebbe una svolta; egli incontrò Sri Siddharameshwar Maharaj. Il maestro spirituale non si dilungò in lunghi discorsi, ma glie rivelò una breve, lapidaria, massima su cui riflettere: "Tu sei l'Ultima realtà, l'Assoluto". Maruti Kampli passò tre anni a meditare su questa frase, abbandonando tutto, finché, un giorno, non penetrò nel mistero del suo significato e, da qui, nel segreto ultimo della realtà. Fu così che si realizzò, che abbandonò le vesti mortali del semplice venditore di tabacco per diventare l'immortale Nisargadatta Maharaj. 
La sua vita "di superficie", in realtà, non cambiò molto e, anzi, sembrò fare un passo indietro. Dopo le lunghe pratiche di ascesi, meditazione e silenzio comprese, di fronte alla rivelazione ultima, che tutti quegli sforzi non avevano mai avuto alcun significato. Tornò così alla sua esistenza precedente, ricongiungendosi con i familiari e con l'attività che aveva momentaneamente abbandonato. 
Eppure, sotto la superficie, qualcosa in lui era trasmutato. Il corpo - o corpo-cibo, come lo definisce lui - ormai agiva in automatico, come l'automa che era sempre stato. Ma dietro questa maschera, a questo burattino degno dei racconti di Thomas Ligotti, non vi era più imprigionata alcuna coscienza. Quella si era liberata; o, meglio, Nisargadatta si era liberato sia delle sbarre del corpo sia del secondino più crudele, la coscienza stessa. 
L'unica differenza esteriore fu la nuova clientela che Nisargadatta aveva attirato nel suo negozio. Non solo i soliti tabagisti, ma una numerosa sequela di pellegrini giunti ad ascoltare i suoi discorsi, molti dei quali furono trascritti per essere tramandati ai posteri.
Nisargadatta fu trasformato, involontariamente, in un Guru, anche se lui un Guru non volle mai essere e, di certo, non fu una maschera che indossò, come molti volti noti della spiritualità indiana "di massa" confezionata a uso e consumo dell'Occidentale. Nelle sue tasche non entrò un soldo in più, se non quello derivante da qualche confezione di "bidi" venduta ai nuovi arrivati.
L'insegnamento di Nisargadatta, tramandato dalle numerose conversazione trascritte dai discepoli, è quanto di più "spiritualmente antimoderno" si possa concepire - se, con "modernità" vogliamo intendere l'idea che il fine dell'uomo sia quello di produrre, lavorare e consumare, e di dar vita ad altre coscienze che continuino a fare ruotare questa perenne ruota karmica. E all'interno di questa cornice ritagliarsi una pseudo-spiritualità che possa essere funzionale alla catena produttiva. Una spiritualità, cioè, che funga da "valvola di sfogo dello stress" o che lo convinca ad accettare il principale dogma dell'età moderna: l'ego, e tutto ciò che all'ego appartiene, interiormente ed esteriormente.
Scherzando, in uno dei dialoghi contenuto in Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium edizioni, Nisargadatta dice che gran parte dei pellegrini, soprattutto occidentali, che lo raggiungono vanno via contrariati quando l'unica risposta ricevuta consiste nella rivelazione della loro non-esistenza. La negazione dell'ego, dell'io, non vi è forse tabù più grande per l'uomo occidentale, soprattutto in questi secoli.
Eppure, l'insegnamento di Nisargadatta spinge inevitabilmente verso questa direzione. Sempre con una certa ironia, dice in uno dei suoi dialoghi: "Molte persone erudite, che conoscono profondamente le scritture, vengono qui a parlare con me. Io non discuto con loro, non mi metto a discutere le loro idee, non voglio contrariarle. Ma dopo che hanno finito di parlare, dico: "Tutto quello che avete detto è vero; ma ricordatevi una cosa: quello che siete ora, questo stato di coscienza, è il più grande inganno che ci sia, non durerà" (Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium, p. 85).
La cornice teorica in cui si inserisce questa prospettiva può essere definita come una forma di "pessimismo cosmico", o di "realismo cosmico", a seconda dei punti di vista. Usando una metafora di uno dei suoi dialoghi, l'essere umano, con l'intero universo a lui manifesto, vive all'interno di un lungo film, dove tutto è già deciso, fotogramma dopo fotogramma. Soltanto lo scorrere della pellicola, il suo movimento, suggerisce l'illusione di una progressione. Ma il Tempo altro non è che una macchina che divora il nastro, che lacera e sminuzza i fotogrammi e con essi le immagine impermanenti in essi contenute. Dice Nisargadatta:
"Nessuno decide come sarà il film. Nove mesi prima della nascita, nel momento in cui il bambino viene concepito, viene presa una fotografia delle condizioni in cui si trovano i cinque elementi. E tutto poi si svolge automaticamente. Nessuno interviene o decide. Tutto avviene automaticamente perché in quel momento manca il senso dell'"io sono"; esso appare molto più tardi.  [...] All'istante del concepimento la situazione di questo mondo e del cosmo viene registrata nel seme. In questo elemento primario, in questa coscienza biologica, tutto accade istantaneamente. Una persona può essere concepita in India e andare a vivere all'altro capo del mondo... questo fa già parte di quanto è stato registrato. Che tu lo creda o no!" (Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium, pp. 49-50).
Il mondo, come direbbe Schopenhauer, è una rappresentazione dietro alla quale si nasconde una volontà; nella visione di Nisargadatta una volontà soggettiva, che dà vita al mondo, rimanendone schiavo. 
Tuttavia, in questa concezione apparentemente pessimistica vi è una via di fuga che, gradino dopo gradino, può condurre l'essere umano alla liberazione. Nell'uomo, infatti, così come in tutti gli esseri viventi, vi è qualcosa che va al di là della vita, che trascende l'esistenza stessa. "Tu non sei la coscienza" dice Nisargadatta "E non sei nemmeno lo stato in cui c'è il senso di essere. Sullo schermo del cinematografo le figure si muovono in continuazione; esse non possono fare altrimenti, sono nel film. Non decidono nulla; è la pellicola che si muove. Ma cos'è che rende possibile l'apparire delle figure sullo schermo? Soltanto il movimento della pellicola? No: è la luce che la attraversa, la luce che sta dietro. Anche per te è la stessa cosa. La tua realtà consiste unicamente nell'essere luce, nell'osservare il film che si svolge, producendo gli eventi del mondo. Sii questa sorgente di luce dietro la coscienza" (Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium, p. 52).
Il principio che si nasconde dietro all'essere e alla vita è la luce, l'Assoluto. Essa è senza forma, sempre identica; la molteplicità delle forme e dei colori è data da una illusione, quando essa attraversa le immagini. Ma il soffio è sempre lo stesso, anche quando, suonando un flauto, si producono delle note. Allo stesso modo, vi è un principio nascosto in tutti gli esseri che produce la molteplicità dei mondi e che, in un circolo vizioso, è soffocato dall'illusione prodotta e dal conseguente attaccamento verso questo mondo fatto di immagini. 
Il corpo, le sensazioni, le emozioni, i pensieri, la fame, la sete, tutto contribuisce a invischiare, appesantire, incatenare la luce nascosta, convincendola di non essere altro che questa illusione. Ma: "Il corpo è una cosa in cui il cibo ha preso forma. E' soltanto cibo. Voi siete il serbatoio in cui si raccoglie il prodotto della digestione degli alimenti che prendete e nell'essenza di questo corpo-cibo si trova la conoscenza "io sono". In questo bastoncino d'incenso c'è un profumo. Quando l'accendete, il profumo si libera. Allo stesso modo, il profumo "io sono" si trova nel corpo e quando percepite questo "io sono", voi sapete che si tratta dell'essenza del corpo-cibo che si libera. Ma chi percepisce questa qualità non è "l'io sono". Chi percepisce è al di là dell'"io sono", è prima dell'"io sono", è puro Assoluto" (Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium, p. 97).
L'"io sono" è il punto di partenza, il ponte di decollo, dal quale comincia l'ascesa verso la liberazione. Bisogna compiere, sostiene Nisargadatta, un progressivo lavoro di sgrossatura per giungere all'essenza del proprio essere. Eliminare tutte le cose transitorie. Io non sono i miei pensieri, essi mutano di continuo, così come le mie emozioni, le mie sensazioni, i miei bisogni fisiologici. Tutte queste cose contribuiscono a mantenermi imbrigliato nel flusso del divenire. E anche la coscienza, che spesso viene ritenuta il baluardo dell'uomo contro il mondo, non è altro che un prodotto illusorio. Essa muta di continuo, con il passare degli anni e delle esperienze. Ma in questo perpetuo flusso del divenire, cosa rimane stabile? La percezione di esistere, di essere un "io sono" separato dal resto del mondo, di essere sempre un soggetto esistente a cui capitano una miriade di eventi. L'"io sono", l'atto stesso di essere, di esistere, è l'unica cosa che sopravvie a questa sgrossatura. Come dice Nisargadatta:
"Da principio bisogna mantenere il senso dell'"io sono". Bisogna adorare questa presenza dell'"io sono", bisogna gioirne, farsela amica. Devi diventare una cosa sola con lei e allora spontaneamente finisce per apparire in te il senso: "Io non sono questo "io sono"". "Io sono" significa unicamente l'insieme della manifestazione e non l'apparato psicosomatico "corpo-mente" che porta il tuo nome. Rifiuta di identificarti al "corpo-mente" e semplicemente prendi stabilmente coscienza nell"io sono", senza bisogno di specificare altro. Questa è la prima tappa. "Io sono questa coscienza dinamica di ciò che si manifesta" (Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium, p. 58).
Eppure, anche l'"io sono" deve essere trasceso, superato. Esso è l'ultimo guardiano della soglia che ci separa dalla luce, dall'Assoluto. Anche se sgrossato da tutti gli elementi transitori, l'"io sono" ci imprigiona. "Esistere" vuol dire continuare a essere nel film, perpetrare la separazione tra me e il resto del mondo. Se esiste "l'io sono", esiste anche qualcosa che vi si oppone, un "altro" che non fa parte dell'"io". 
L'io sono, con la coscienza, è un cappio intorno al collo che si stringe sempre di più fino a soffocare l'uomo e a privargli la vista dell'Assoluto: "Un uomo lascia cadere in mare un biglietto da mille dollari. Si tuffa per riprenderlo, perché tra li e quel biglietto c'è un rapporto stretto; c'è un'intima relazione tra lui e quei mille dollari. Si tuffa, e annega. Questa intimità, questa familiarità con quella che chiamate vita, è la corda che vi strangola" (Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium).
Al di là dell'"io sono" si estende una realtà che tutto compenetra; questo è la vera meta a cui bisogna approdare, superando anche l"'io sono": "Realtà significa il primo e l'ultimo stato. E' lo stato più antico, lo stato primordiale, eterno, assoluto. Sopra questo stato è apparso come un rivestimento, come una nuova, come una macchia, lo stato illusorio. A questa comparsa è legata la constatazione "io sono", che porta con sé tutta una serie di eventi e il suo bisogno costante di andare e venire. Questo stato illusorio è apparso e quindi dovrà necessariamente scomparire, perché è legato al tempo. Ma noi siamo emotivamente attaccati a questo stato. Emotivamente significa che siamo convinti di essere questo "io sono". Quindi, affinché questo stato illusorio, legato al tempo, possa dissolversi, bisogna trascendere il nostro attaccamento emozionale a questa conoscenza "io sono". Finché la nuvola non se ne andrà, lo stato primordiale non potrà apparire. Lo stato primordiale non è qualcosa da conquistare; è già lì. Bisogna semplicemente eliminare lo schermo che lo nasconde [...]. Il principio che è nato comprende soltanto tre stati: lo stato di veglia, lo stato di sonno profondo e la conoscenza "io sono". Finché ci saranno questi tre stati, ti identificherai con l'"io sono". Finché non avrai raggiunto l'Assoluto, liberandoti da questa illusione, rimarrai intrappolato in questo stato che è legato al tempo e che deve essere trasceso" (Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium, p. 59). 
Per approdare all'Assoluto, l'"io sono" deve essere ucciso, distrutto. Questa trasmutazione alchemica è un atto necessario, poiché soltanto la distruzione della pellicola che filtra la luce può svelare la luce nel suo stato originario e indifferenziato: "Quando guardi qualcosa trasformarsi, prendere una nuova forma, la sua forma precedente non va forse distrutta? Prendi per esempio l'acqua che evapora; diventa una nuova, poi pioggia e quindi il ciclo ricomincia. [...] Tu hai la certezza di essere. Poi questa conoscenza diventa non-conoscenza, che è l'ultima propaggine della conoscenza. Facciamo ancora questo paragone con l'acqua. Tu hai un recipiente d'acqua. La vedi, la tocchi. Poi l'acqua evapora e non rimane più niente. Tu pensi probabilmente che sia andata distrutta, mentre non c'è stata distruzione, non c'è stata morte. L'acqua non è stata distrutta, ma è diventata nuvola, abbondanza, fertilità. Così, quando la conoscenza di esistere diventa non-conoscenza, essa si fonde nell'Assoluto. L'essere diviene non-essere; non è più qualcosa di tangibile, ma questo non significa che sia andato distrutto o che sia stato ucciso. Quando l"io sono" si dissolve nell'infinito, quello che era percepibile, manifesto, diventa impercepibile, intangibile. Quando comincia ad apparire una traccia dell'"io sono", improvvisamente tutto l'universo appare, mentre quando l"'io sono" scompare, tutto si dissolve, e si spegne" (Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium, pp. 64-65).
Da questa prospettiva elevata, nel momento in cui si abbandona l'"io sono", ci si accorge, per un fugace istante, che tutto è sempre stato un'illusione. Che il Tempo è un'immensa macchinazione che tutto distrugge, ma che per esistere necessita che nascano altre coscienze, altre forme, altre immagini da divorare, rendendole schiave del suo ciclo perenne solo in apparenza; perenne solo nella misura in cui nascono altre anime e altre coscienze che lo percepiscono.  Ma, dice Nisargadatta: "La nostra esistenza è solo uno stato temporaneo; diciamo, come una giornata che va dalle cinque del mattino a mezzanotte. Anche se vivi cent'anni, questo non significa altro che cento volte trecentosessantacinque giorni, in ciascuno dei quali sei sveglio diciannove ore. La cognizione "io sono" non è eterna. Quella che vivi non sarà mai l'esperienza dell'eterno. Se il tuo stato di essere presente continuasse eternamente, non ti sarebbe mai venuto in mente di andare a chiedere qualcosa a qualcuno. Quindi, attualmente, quello che tu conosci è qualcosa di temporaneo; ma chi osserva, il testimone di questo stato, è inevitabilmente l'eterno [...]. Anche se prendi Allah, Gesù o Krishna, tutte queste entità o personalità sono vissute soltanto nel tempo. Il principio che osserva quello che è temporaneo, che lo percepisce senza bisogno di andare a chiedere niente a nessuno, questo principio è l'eterno" (Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium, pp. 73-74).
L'Eterno, l'Assoluto è l'unica Realtà. E una volta che, da questa dimensione illusoria, l'uomo riesce a ricollegarsi con questo principio immutabile, ecco che trascende il corpo, la coscienza, l'"io sono" e perfino il Tempo, e se anche il suo corpo resta ancora vivo, attivo e apparentemente inserito nella società, il suo principio immortale si è ormai risvegliato e, dall'Eternità, contempla il Tutto come un lontano testimone. Usando le parole che Nisargadatta ha rivolto a una persona che gli ha domandato come mai, dopo l'illuminazione, sia tornato alla sua precedente attività: "La coscienza c'è, ma essa per me non ha più alcun interesse. Io sono indifferente a tutto; sono semplicemente una specie di testimone. Un'osservazione è in atto; e questo è tutto. Di fronte agli avvenimenti che accadono, io non sento alcun particolare interesse; non faccio progetti, non ho particolari intenzioni. [...] A poco a poco ho smesso di essere convinto di quello che facevo. Dopo che mi sono realizzato, provavo ancora interesse; radunavo persone. Esse mi interessavano; desideravo comunicare loro quello che avevo scoperto. Ma ora, tutto questo è finito. In futuro, quando verranno a trovarmi persone straniere, non sono affatto sicuro che parlerò con loro" (Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium, pp. 174-175).
La sua vita e la sua morte dimostrano la veridicità delle sue parole. Nonostante il "successo" ottenuto e il grande numero di pellegrini giunti ad ascoltarne le parole, non si trasformò mai in uno di quei guru creati ad arte a uso e consumo dei bisogni pseudo spirituali degli occidentali e morì, sempre a Bombay, di cancro alla gola. Ma questo non fu un problema, poiché al suo corpo e alla sua coscienza era già morto da tempo.


Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium

Daniele Palmieri

giovedì 18 novembre 2021

Gurdjieff e la creazione dei corpi sottili

Vi è un filo conduttore che unisce tutte le ricerche filosofiche, religiose, magiche, esoteriche e sciamaniche: l'idea che esista, nell'uomo, un principio vitale invisibile e che esso possa ottenere l'immortalità. 
Questo principio invisibile è stato chiamato in molti modi, ma uno dei nomi più diffusi è senz'altro quello di: anima, il soffio vitale senza il quale un organismo è soltanto un corpo morto. 
Un'altra idea costante è che l'anima non sia un fenomeno semplice: non esiste un solo tipo di anima, essa è molteplice così come molteplici sono le sue manifestazioni, e se anche viene concepita, nell'essere vivente, come un "tutto unitario", essa è tuttavia suscettibile a un'analisi anatomica, che ne suddivide le tipologie e le facoltà. Una delle più chiare rappresentazioni di questo concetto è, ad esempio, suddivisione dell'anima di Aristotele, che pur ritenendo l'indivisibilità dell'anima umana, ritiene tuttavia che a livello concettuale essa possa essere suddivisa in anima vegetativa, anima sensitiva, anima razionale e anima intellettiva.
Come accennato in precedenza, all'anima viene sempre riservato un trattamento di favore rispetto al corpo. Ad essa sembrano appartenere caratteristiche invisibili e impercettibili, come il pensiero, che ne suggeriscono un natura differente. E, come sostenne Cartesio, un altro dei grandi "anatomisti" dell'anima, dato che tutte le qualità dell'anima sembrano non appartenere al corpo, ma essere anzi affini a tutto ciò che vi è di eterno e invisibile, anche l'anima, separata dal corpo, deve essere ritenuta immortale.
Senza poter entrare nel dettaglio della molteplicità di visioni circa le parti dell'anima, la sua composizione, il suo destino e la sua immortalità, è tuttavia un fatto innegabile che gran parte di queste tradizioni diano per scontato, o arrivino alla conclusione, che esista un'anima e che quest'anima sia immortale.
L'uomo nasce con l'anima e con l'immortalità. Può perdere, senz'altro, o l'una o l'altra, ma questo avviene per una colpa, un errore, un peccato; per una azione che dipende dalla sua volontà e che, in ogni caso, implica il fatto che prima possedesse sia l'anima sia l'immortalità, esattamente come, per perdere un mazzo di chiavi, bisogna prima averlo avuto in tasca.
Ma questa concezione di un possesso "passivo" dell'anima e dell'immortalità potrebbe essere sempre stata un grande inganno. E' quello che pensa George Ivanovic Gurdjieff, per il quale né l'anima né l'immortalità sono un dato di fatto, bensì una conquista evolutiva, che soltanto pochi eletti sono in grado di sviluppare dopo lunghi sacrifici. Come scrive Ouspensky, citando le sue parole, in  Frammenti di un insegnamento sconosciuto"L'immortalità è una di quelle qualità che l'uomo si attribuisce senza avere una sufficiente comprensione del loro significato. Altre qualità di questo genere sono l'individualità, nel senso di unità interiore, l'Io permanente ed immutabile, la coscienza e la volontà. Tutte queste possono appartenere all'uomo, ma ciò non significa certo che esse già gli appartengono di fatto o possano appartenere a chiunque" (Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Astrolabio, p. 48).
L'anima e l'immortalità sono una conquista. Pensare di possederle, senza far nulla, fin dalla nascita, è o una menzogna o un inganno, in ogni caso un abbaglio che spinge l'uomo alla pigrizia spirituale e che lo relega a un'esistenza in balia di forze meccanicistiche, contro le quali non può nulla.
Riflettendo su come si è perpetrato questo inganno, Gurdjieff analizza la suddivisione più diffusa dell'anima umana, secondo la quale l'uomo è composto da quattro corpi: 
1) Corpo fisico (tradizione cristiana e teosofica) o "carrozza/corpo materiale" (tradizione orientale ma anche platonica): il corpo biologico, il cui sviluppo è principalmente meccanico. Esso corrisponde a quella che Aristotele chiamava anima vegetativa ed è preposto a tutte le funzioni fisiologiche di base.
2) Corpo naturale (tradizione cristiana), corpo astrale (tradizione teosofica) o "cavallo/sentimenti" (tradizione orientale e platonica): il "corpo emozionale", che Aristotele chiamava anima sensitiva, dal quale dipendono emozioni e sentimenti, da quelli più bassi a quelli più alti.
3) Corpo spirituale (tradizione cristiana), corpo mentale (tradizione teosofica)  cocchiere/pensiero (tradizione orientale e platonica): il corpo dal quale dipende il pensiero, chiamato da Aristotele anima razionale.
4) Corpo divino (tradizione cristiana), corpo causale (tradizione teosofica), "padrone/volontà" (tradizione orientale e platonica): il corpo divino, dal quale dipende la Volontà più alta; è il più importante tra i quattro, che Aristotele chiamava anima intellettiva, e che riteneva affine alla sostanza eterna delle verità universali.
Come accennato, Gurdjieff ritiene che gran parte delle tradizioni filosofiche, religiose ed esoteriche abbiano formulato una concezione simile, legata a una quadripartizione dell'anima, dando per scontato che l'uomo, nel corso del suo sviluppo, cresca accompagnato da tutti e quattro questi corpi. Ciò che varia è soltanto "l'educazione interiore", che porta alcuni individui a sviluppare un controllo superiore dei corpi più elevati su quelli più bassi. Ma la loro "proprietà" non viene messa in discussione. 
Tuttavia, per Gurdjieff: "L'uomo non nasce con i corpi sottili [...] questi richiedono una cultura artificiale, possibile solo in determinate condizioni, esteriori e interiori, favorevoli. Il corpo astrale non è un complemento indispensabile per l'uomo. E' un gran lusso, che non è alla portata di tutti. L'uomo può vivere benissimo senza corpo astrale. Il suo corpo fisico possiede tutte le funzioni necessarie alla vita" (Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Astrolabio, p. 49-50).
L'idea gurdjieffiana apre nuovi spiragli nella comprensione dell'evoluzione spirituale dell'uomo. Per quasi tutte le tradizioni esoteriche antiche, infatti, l'esistenza dei corpi sottili o di un'anima spirituale separata dal corpo, è pressoché un dato di fatto. Nella concezione ordinaria, l'uomo nasce già con questa scintilla divina e, spesso, il lavoro principale consiste nel liberarla. 
Ma molti non riescono in questo scopo; e questo perché, nella maggior parte dei casi, si cerca di ravvivare un fuoco che ancora non è stato acceso. Per Gurdjieff, i corpi sottili non sono un dato di fatto, né un'appendice che nasce, cresce e si evolve con l'uomo. L'unico corpo che è dato all'uomo, fin dalla nascita, è il corpo fisico, che si sviluppa in maniera meccanica in tutte le sue componenti, compresa la coscienza ordinaria che, lungi dall'essere l'anima separata dal corpo di cui parlano le tradizioni esoteriche, non è altro che un sottoprodotto della macchina, una sua funzione fisiologica così come il respiro o il battito del cuore, succube di influenze interne ed esterne contro le quali, nel suo stadio ordinario, può fare ben poco. Allo stesso modo, le emozioni e i pensieri che popolano l'uomo, non sono prodotti dai corpi sottili più alti, ma possono benissimo essere ricondotti alle facoltà più basse del corpo fisico e alla sua azione meccanica. Sempre citando le sue parole: "Nel caso delle funzioni di un uomo avente soltanto il corpo fisico, l'automa dipende dalle influenze esteriori, e le altre funzioni dipendono dal corpo fisico e dalle influenze esteriori che esso riceve. Desideri o avversioni [...] dipendono dagli choc e dalle influenze accidentali. Il pensare [...] è un processo interamente automatico. La volontà manca all'uomo meccanico: egli ha soltanto desideri; la maggiore o minore permanenza dei suoi desideri e appetiti è chiamata una forte o debole volontà" (Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Astrolabio, p. 51).
La differenza tra un'emozione meccanica, un pensiero meccanico, una coscienza meccanica e un'emozione spirituale, un pensiero spirituale e una coscienza spirituale risulta evidente in quei pochi individui, dalle facoltà straordinarie, che nel corso degli anni sono riusciti non a educare i propri corpi spirituali, bensì a crearli, a produrli, mediante l'esercizio: "Nel caso di un uomo in possesso dei quattro corpi, l'automatismo del corpo fisico dipende dall'influenza degli altri corpi. In luogo dell'attività discorse e spesso contraddittoria dei differenti desideri, vi è un unico Io, intero, indivisibile e permanente, vi è una individualità che domina il corpo fisico e i suoi desideri, e può superare le sue ripugnanze e le sue resistenze. Invece di un processo meccanico di pensiero, vi è la coscienza. E vi è la volontà, vale a dire un potere non più composto semplicemente da desideri svariati, il più delle volte contraddittori, appartenenti a diversi io, ma derivante dalla coscienza e governato dall'individualità o da un Io unico e permanente. Soltanto questa volontà può essere chiamata libera, perché essa è indipendente dall'accidente e non può essere alterata, né diretta all'esterno" (Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Astrolabio, p. 51).
Tre sono le vie che, nel corso dei millenni, da oriente a occidente, hanno percorso la via dello sviluppo dei corpi sottili dell'uomo:
1) La via del fachiro: la via della lotta costante contro il proprio fisico. In essa, si lavora per assumere il completo controllo sulla macchina del corpo, sottoponendola alle più atroci torture - ad esempio, costringendosi a rimanere immobili, nella stessa posizione, per giorni, mesi o addirittura anni, a privarsi di cibo, acqua, sonno e sottoponendosi a sfide sovraumane. Al termine di questo lungo apprendistato, non vi è nulla che può scalfire il corpo del fachiro e, tuttavia, per raggiungere questo risultato, egli ha dovuto abdicare alle funzioni emotive e intellettuali. 
2) La via del monaco: la via della fede, della sottomissione mistica, del sacrificio individuale. Come il fachiro, anche il monaco trascorre l'intera sua esistenza in una lotta incessante contro se stesso, che nella tradizione religiosa prende il nome di psicomachia, lotta dell'anima. Ma, sebbene come il fachiro egli si trovi a confrontarsi con il suo corpo, il suo nemico principale sono i sentimenti. Egli sottomette la molteplicità di emozioni che popolano la sua interiorità, personificate, nelle visioni mistiche, in demoni dagli aspetti terribili, all'unica emozione degna di essere vissuta: la fede, appunto. Tuttavia, come la via del fachiro, anche la via del monaco lascia deve sacrificare tutti gli altri aspetti della totalità umana e anche il monaco perfetto si trova costretto a lasciare da parte il corpo fisico e le facoltà intellettuali.
3) La via dello yogi: la via della conoscenza e dell'intelletto. Lo yogi trascorre l'intera sua esistenza a sviluppare l'intelletto, unendosi con l'intelligenza divina e penetrando nei misteri dell'esistenza. La sua coscienza si estende fino a inglobare l'intero cosmo e divenire un tutt'uno con esso, mediante l'atto yogico. Ma anche questa via si lascia indietro due componenti: le emozioni e il corpo.
Ciò che risulta evidente, studiando queste tre vie, è che i loro risultati possono essere conseguiti soltanto dopo anni di sacrifici, martiri, privazioni. Nella concezione filosofica Gurjieffiana, a metà tra realismo e pessimismo, è come se la Natura non avesse previsto che l'uomo potesse accedere a simili facoltà e che anzi essa ne osteggi lo sviluppo e che le nascondi dietro la maschera del corpo fisico: d'altro canto, come sostiene Gurdjieff, non è essenziale sviluppare i corpi sottili per poter sopravvivere; a questo fine è più che funzionale la macchina biologica, che però si arresta quando l'essere umano punta più in alto, scorgendo l'immortalità. Perciò, lo sviluppo delle facoltà sottili sarà sempre un atto titanico e prometeico: un gesto proibito, blasfemo. Come disse Gurdjieff: "La via dello sviluppo delle possibilità nascoste è una via contro la natura, contro Dio. Ciò spiega la difficoltà e il carattere esclusivo delle vie. Esse sono ardue e strette. Ma al tempo stesso nulla potrebbe essere raggiunto senza di esse. Nell'oceano della vita ordinaria, e specialmente della vita moderna, le vie sono un fenomeno piccolo, appena percettibile, che dal punto di vista della vita stessa, non ha la minima ragione d'essere. Ma questo piccolo fenomeno contiene in se stesso tutto ciò di cui l'uomo può disporre per lo sviluppo delle sue possibilità nascoste. Le vie si oppongono alla vita di tutti i giorni, basata su altri principi e assoggettata ad altre leggi. In ciò consiste il loro potere e il loro significato. In una vita ordinaria, per quanto colma di interessi filosofici, scientifici, religiosi o sociali, non vi è nulla e non può esservi nulla che offra le possibilità contenute nelle vie. Esse conducono o potrebbero condurre l'uomo all'immortalità. La vita mondana, anche la più riuscita, conduce alla morte e non potrebbe condurre a nient'altro" (Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Astrolabio, p. 56).
Ma anche in questi poderosi sforzi volti a sviluppare l'immortalità e le facoltà sottili si nasconde un errore, sostiene Gurdjieff. Le tre vie, prese singolarmente, sono monche. Tutte portano all'estremo limite un aspetto dell'umano, raggiungendo l'immortalità sviluppando o il corpo, o le emozioni o l'intelletto. Tutte, inoltre, offrono l'immortalità ma a prezzo del sacrificio più grande: il sacrificio di se stessi.
Da questa mancanza prende forma il suo sentiero spirituale: la quarta via. "La quarta via" dice Gurdjieff "non richiede che ci si ritiri dal mondo, non esige la rinuncia a tutto ciò che formava la nostra vita. [...] Questo sapere rende possibile un lavoro simultaneo nelle tre direzioni. Tutta una serie di esercizi paralleli sui tre piani: fisico, mentale ed emozionale, servono a questo scopo. [...] La quarta via è talvolta chiamata la via dell'uomo astuto" (Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Astrolabio, pp. 58-59). La quarta via di Gurdjieff è uno dei primi tentativi occulti di risvegliare la macchina umana all'interno del contesto automatizzato in cui essa è inserita, senza separarla dalla realtà comune ma, anzi, mettendola di fronte ai meccanismi paradossali in cui essa è inserita.

Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Astrolabio

Daniele Palmieri

mercoledì 1 settembre 2021

Alexandre Dumas: Il signore dei lupi. Licantropia e rivalsa sociale

Alexandre Dumas penso non abbia bisogno di presentazioni. Il Conte di Montecristo e I Tre moschettieri, solo per citare due titoli, sono forse tra i romanzi più conosciuti della letteratura mondiale. Ma forse una breve presentazione la richiede uno dei suoi lavori meno conosciuti: Il Signore dei lupi.
Il Signore dei lupi è un romanzo di poco più di un centinaio di pagine, edito in Italia da Piano B Edizioni, che ha subito attirato il mio interesse per il tema principale del libro. Si tratta, infatti, di uno dei primi romanzi dedicati alla figura, poi divenuta iconica, del Lupo Mannaro.
Una delle prime apparizioni letterarie, si intenda, perché la figura folklorica del Lupo Mannaro è ben più antica, risalente già al mondo greco-romano, ma che raggiunge il suo apice nelle credenze magiche e stregoniche del mondo medievale e rinascimentale, come testimonia un pamphlet pubblicato  nel 1599 da Beauvois de Chauvincourt, Discorso sulla licantropia, che oltre al ricco folklore sul tema testimonia l'inquietudine tangibile diffusa tra le popolazioni rurali nei confronti di questa figura.
Nella costruzione magistrale del suo racconto, Dumas attinge a piene mani da questa tradizione. Gli elementi ci sono tutti: ampie distese di boschi oscuri, indomati anche quando proprietà di ricchi e nobili latifondisti; contadini intimoriti, superstiziosi, da un lato ma, dall'altro, più sensibili nei confronti delle forze oscure che, di notte, si muovono nel sottobosco; una capanna di legno nascosta, lontano dalla civiltà, dove alberga un reietto che, per quanto intelligente e abile nel proprio lavoro, viene visto con sospetto dalla popolazione per via del suo isolamento; infine, il vortice di leggende, credenze, dicerie, simboli legati alla magia e alla stregoneria.
Protagonista del racconto è l'uomo solitario poc'anzi citato, un certo Thibault, uno zoccoliere di umili origini ma dalla istruzione, la conoscenza e l'abilità pratica superiore rispetto alla sua condizione sociale che, tuttavia, non riesce a integrarsi con il resto della società. Questa sua incapacità deriva da un astio nascosto covato nei confronti della realtà sociale in cui è inserito. La consapevolezza della sua abilità, da un lato, e, dall'altro, quella di non poter far nulla per poter migliorare la propria condizione sociale in un mondo dominato da nobili inetti, violenti e privilegiati, nel corso degli anni lo hanno corroso internamente, provocando un velenoso deposito di rancore, destinato a essere espulso. 
Il punto di non ritorno è lo scontro con un signorotto del luogo, il barone Jean de Vez, un nobile dedito alla caccia con il quale, durante un lungo inseguimento fatto di depistaggi e menzogne, si contende la cattura di un daino.
Fin dalla causa scatenante del conflitto ci si trova a simpatizzare con Thibault. Benché egli abbia visto per primo il daino e benché la cattura della preda, da parte sua, rappresenterebbe un bisogno necessario per variare la sua magra dieta, per via della legge vigente gli sarebbe impedito cacciare nel territorio del Barone per il quale, dall'altro canto, la cattura di un daino rappresenta soltanto un vezzo, un passatempo. 
La consapevolezza di questa ingiustizia porta Thibault a tentare la fortuna e si mette all'inseguimento del daino, depistando il suo concorrente; ma, alla fine, ha la peggio. Viene catturato in flagrante e condannato a subire l'umiliazione di essere frustato sul posto. La violenza viene fermata soltanto grazie all'intervento di una fanciulla che, attirata dalle grida di dolore di Thibault e giunta sul posto, implora al Barone di fermare quel supplizio. 
Thibault si invaghisce subito di quella ragazza pura e candida, che si presenta con il nome di Agnelet, ma anche in questo caso è subito costretto a subire un ulteriore abuso psicologico. Il Barone acconsente alla grazia ma solo in cambio di un bacio. Thibault viene così rilasciato e si trova in balìa di due sentimenti contrastanti. Da un lato un amore intenso nei confronti di Agnelet, della sua bontà, della sua clemenza e della sua sensibilità, e dall'altro da un odio viscerale nei confronti del Barone Jean de Vez e dei suoi atteggiamenti viscidi e criminali, riconosciuti anche dalla stessa Agnelet, come dimostra questo sagace scambio di battute tra la ragazza e il Barone:

"E non hai paura così giovane e carina [a vagare per i boschi da sola n.d.R.]?
"Qualche volta sì, perché durante le veglie invernali sento raccontare strane storie di lupi mannari e quando mi trovo sola in mezzo a tanti alberi e sento fischiare tra i rami mi vengono i brividi. Ma appena sento la fanfara dei corni da caccia e l'abbaiare dei cani mi tranquillizzo".
[...] "Infatti noi facciamo una gara spietata ai lupi, ma, perbacco, esisterebbe un mezzo per far cessare le tue paure. Vieni a cogliere l'erba al castello di Vez! Nessun lupo, mannaro o no, ne ha mai varcato i fossati!".
Angelet scosse il capo.
"Come non vuoi? Perché rifiuti?".
"Perché al castello troverei cose forse peggiori del lupo..." (Alexandre Dumas, Il signore dei lupi, pp. 36-37).

In ogni caso, l'odio prende presto il sopravvento e lentamente si incarna in una figura archetipica: quella del Lupo Cattivo. 
Durante il suo inseguimento del daino, visto che le preghiere a Dio parevano non funzionare, Thibault si era trovato a invocare l'aiuto di Satana. Ed ecco che, dopo la pena inflitta dal Barone, il suo aiuto, pur tardando ad arrivare, si rivela: tornato nella sua baracca nascosta nel bosco, Thibault trova il daino legato. Interrogandosi su come ciò possa essere accaduto, la risposta, per quanto grottesca e surreale, non tarda ad arrivare, nelle vesti di "un immenso lupo nero che camminava eretto sulle zampe posteriori" che "giunto nel mezzo della stanza, sedette al modo dei lupi e fissò Thibault. Questi afferrò un'accetta e, per spaventare lo strano visitatore, la tenne sollevata sulla testa. Allora il lupo assunse prima una singolare espressione di beffa e poi si mise addirittura a ridere. Per la prima volta in vita sua Thibault sentiva ridere un lupo! Sgomento, lasciò ricadere il braccioAlexandre Dumas, Il signore dei lupi, p. 41).

Questo immenso Lupo Nero non è Satana in persona, bensì un suo emissario. Un aiutante del "Dio dal Piede Caprino", così come lo definisce lo stesso Lupo. In un lungo colloquio, il Lupo rivela a Thibault di essere stato lui ad aiutarlo e, in cambio di una momentanea protezione dai cani del Barone, sulle sue tracce, convince lo zoccolaio a stipulare un patto per sollevarlo dalla sua posizione sociale:

"Diciamo" disse il lupo, come se nulla fosse accaduto "che io non posso concederti tutti i beni che desideri, ma posso accordarti il potere di realizzare tutto il male che desideri per il tuo prossimo".
"E a cosa mi servirà?".
"Stupido. Rifletti: se un infortunio capitato al tuo migliore amico è sempre piacevole, prova a pensare quanto può essere sgradevole un infortunio capitato al tuo peggior nemico! Senza dimenticare che il male del prossimo, amico o nemico, può facilmente volgersi a tuo vantaggio(Alexandre Dumas, Il signore dei lupi, p. 44).

In cambio di questa spintarella, il Lupo non chiede in cambio la "classica" anima, ma qualcosa di apparentemente semplice. "Oh, non temere" lo rassicura "non ti chiedo una libbra della tua carne, ma solo un tuo capello: un capello per il primo desiderio, due per il secondo, quattro per il terzo e così via, sempre raddoppiando(Alexandre Dumas, Il signore dei lupi, p. 45).
Thibault, sorpreso, accetta questo "semplice" pegno. Da questo momento in poi, Il signore dei lupi si trasforma in una lenta discesa nell'oblio, un'esplorazione dell'ombra primordiale, una regressione agli istinti animaleschi primitivi. E l'aspetto più straniante di tutto il romanzo è che il lettore, oltre a partecipare in prima persona a questa esplorazione speleologica del male interiore, guardandosi attorno è impossibilitato dal cogliere qualsiasi via di fuga luminosa. I nemici di Thibault, nobili, privilegiati, altezzosi, violenti, autoritari, traditori, suscitano ancora più disprezzo; l'unico personaggio puro che, non a caso, si chiama Agnelet (Agnellina) pare troppo impotente per contrastare l'oscurità che si diffonde in tutto il paese e, di fronte a questo abisso di violenza e dannazione, il lettore comprende che l'unica soluzione possibile risiede in un deus ex machina, l'intervento divino liberatore. Un intervento, tuttavia, che viene percepito, intuito, agognato, ma che non avverrà mai, anche quando il classico moralismo letterario ottocentesco lo richiederebbe. A eccezion fatta del finale misterioso ed enigmatico, in cui si percepisce un po' di luce, per l'intera narrazione ci si sente imprigionati in un vero e proprio meccanismo del Male, come nei racconti del Marchese de Sade.
Thibault, infatti, che inizialmente si era ripromesso di non abusare di questo dono e di riuscire a conquistare il minimo indispensabile, è presto trascinato in un vortice di odio e rancore, un tortuoso labirinto in cui ogni desiderio fa nascere ulteriori problemi risolvibili soltanto con altra violenza. In questa lenta regressione, Thibault diventa sempre più insensibile e selvaggio e scopre cosa realmente il Lupo Nero intendesse con la richiesta dei suoi capelli. Questi, infatti, non gli vengono strappati, ma si tramutano lentamente in lunghi e spessi peli rossi, simili a crini di cavallo, che non si riescono in alcun modo a tagliare o nascondere, trasformando la sua chioma in quello che, notoriamente, nel folklore popolare era considerato il simbolo del maligno: il rosso intenso. 
Questa progressiva regressione animalesca del protagonista è acuita da alcuni aiutanti inviatigli dal Lupo Nero, incarnazione dei suoi impulsi primitivi sempre più incontrollabili: un branco di lupi rossi come la peluria che lentamente gli copre il capo. Il primo incontro tra Thibault e queste entità a metà tra animale e demone merita di essere riportato per intero, poiché rappresenta uno dei passi più intensi del romanzo:

"Thibault [...] aveva deciso che si sarebbe rifugiato nei boschi, dove a quell'ora nessuno avrebbe osato rincorrerlo. [...] Era calata la notte; una di quelle notti d'autunno buie e tempestose in cui il vento, che strappa dagli alberi le foglie ingiallite, suscita nella foresta suoni lamentosi e lugubri gemiti. [...] Entrò dunque coraggiosamente nella foresta nel punto chiamato ancora oggi la Brughiera dei Lupi. [...] Camminava da qualche minuto lungo un viottolo buio [...] quando udì, a pochi passi dietro di lui, un rumore di foglie smosse. Si voltò e nell'oscurità vide lo scintillio di due occhi simili a carboni ardenti. Guardando più attentamente scorse un grosso lupo che lo seguiva passo passo. Non era il lupo che aveva accolto nella sua capanna; quello era nero, mentre questo era rossastro [...]. Improvvisamente lo zoccolaio vide davanti a sé altre due luci ardenti che brillavano nell'oscurità, divenuta più fitta. Tenendo alto il bastone pronto a colpire, avanzò in direzione delle luci che restavano immobili. A un certo punto gli parve d'inciampare in un corpo disteso sul sentiero. Era quello di un altro lupo. [...] Guardando ora avanti e ora indietro, si avvide che un terzo lupo lo fiancheggiava, sulla destra [e] un quarto lupo lo scortava sul fianco sinistro. Aveva percorso pochi chilometri e già una dozzina di lupi formavano intorno a lui un cerchio(Alexandre Dumas, Il signore dei lupi, p. 69). Thibault scappa, spaventato, i lupi lo seguono, lui si ripara nella capanna e accende un fuoco sperando di scacciarli. Loro rimangono seduti fuori, in attesa, e al giungere dell'alba "i lupi si alzarono tutti insieme e, lanciando il lugubre ululato con cui gli animali delle tenebre salutano il giorno, si dispersero in varie direzioni e scomparvero(Alexandre Dumas, Il signore dei lupi, p. 70).

Alla seconda notte, di fronte all'atteggiamento amichevole dei lupi, Thibault si rende conto che questi non sono presenze a lui ostili ma, anzi, gli aiutanti inviatigli dal Lupo Nero. E dinnanzi a un "potere così formidabile" decise di sfruttarlo "formulando i desideri più sfrenati, anche a costo di far somigliare la sua capigliatura alla corona di fuoco che di notte si vede fiammeggiare sulla più alta ciminiera della fabbrica di vetri di Saint-Gobain (Alexandre Dumas, Il signore dei lupi, p. 74)." In altri termini, Thibault si trasforma nel Signore dei Lupi e ogni sua azione lo porterà ad assimilarsi sempre di più con questo nuovo, diabolico, animale totem, a tal punto, nei capitoli finali del romanzo, di comunicare con loro tramite ululati, di mangiare le prede da loro catturate concedendogliene, come un capobranco, solo alcuni assaggi, di dormire in tane interrate nelle conce degli alberi e, soprattutto, di vivere spinto da sentimenti animaleschi di odio, eccitazione sessuale, rancore e vendetta. 
La licantropia nasce così, per Dumas, da una giusta volontà di rivalsa sociale che, tuttavia, viene costantemente repressa dalla classe dominante e trasformata così nel riflesso, ancora più mostruoso, crudele e ferale, della stessa violenza e dello stesso odio che Baroni viziati come Jean de Vez disseminano per il regno.
E' questa, forse, la verità più cruda dell'intero romanzo. Come accennato in precedenza, il lettore si sente in balìa di un mondo mosso da quelle forze oscure temute e narrate nei racconti popolari dei contadini; forze che si moltiplicano e raddoppiano a dismisura come i peli rossi sul capo di Thibault o i lupi rossi del suo branco e che presto prendono il sopravvento, contaminando anche le battaglie più nobili, come la lecita brama di giustizia. Per tutta la lettura ho atteso un risvolto moralistico, che davo quasi per scontato, essendo tipico della letteratura ottocentesca "di intrattenimento", soprattutto di stampo francese. Eppure, questo risvolto, fatto intuire da alcuni passi, in realtà non si presenterà mai; o, meglio, quando si presenta, sul finale, sembra ormai troppo tardi. Ha l'effetto di un colpo di vento che, per un istante, ravviva un tiepido braciere ormai quasi spento, che tuttavia non riesce né a rischiarare né a illuminare. Ed è proprio questa speranza disattesa a costituire l'aspetto più moderno del romanzo di Dumas, che portando a galla l'ombra più oscura, incarnata nella figura del Licantropo, è in grado di dipingerla con i suoi tratti più crudi - lasciando da parte quella che Sade, nella rappresentazione moralistica del male tipica della sua epoca, definiva "l'arte di dipingere senza colori".

Alexandre Dumas, Il signore dei lupi, Piano B Edizioni.

Daniele Palmieri

giovedì 26 agosto 2021

Introduzione alla lettura di Rudolf Steiner


Rudolf Steiner è stato uno dei personaggi più particolari del panorama filosofico, esoterico e mistico del XX secolo. Basta dare un occhio alla sua bibliografia, tanto quella scritta di suo pugno quanto l'immenso corpus di testi stenografati, per accorgersi della molteplicità di argomenti di cui ha trattato, che spaziano tra filosofia, mistica, esoterismo, occultismo, religione, mitologia, arte, educazione, medicina, alimentazione, perfino agricoltura. Ad una prima analisi, di fronte a questa varietà di argomenti così dissimili tra loro, si potrebbe guardare la sua figura con sospetto - e a parte anche a ragion veduta. Non sempre, difatti, Steiner ha avuto le competenze adatte per affrontare alcuni temi e spesso le sue teorie sono riprese a piene mani da movimenti complottistici e pseudoscientifici (anche se spesso in maniera estremamente semplificata). Eppure, vi è una certa tendenza, nella nostra epoca, a eliminare dalla discussione i personaggi scomodi solo perché i loro rami hanno dato vita anche a frutti bacati, ignorando così la molteplicità di buoni frutti nati in tutti gli altri rami. Così come non è razionale abbattere un albero solo per qualche frutto marcio, allo stesso modo è paradossale snobbare un pensatore solo per le derive più spinose del suo pensiero, senza nemmeno prendersi la briga di leggerlo, studiarlo, analizzarlo, comprenderlo e inquadrarlo nella sua cornice teorica. 
Questo discorso risulta fondamentale quando si parla di Steiner, tra le cui pagine si alternano vette di poesia e righe prolisse e impantanate, intuizioni geniali e teorie surreali, profondità filosofico-spirituale e bizzarre concezioni occultiste. Un groviglio di strade in cui, spesso, risulta difficile orientarsi ma che, con alcune linee guida, può trasformarsi in un viaggio dal sapore psichedelico in una concezione del mondo e del cosmo totalmente altra, che si può comprendere a pieno soltanto mettendo da parte, per un momento, la visione ordinaria della realtà e ogni pregiudizio sulla sua figura. D'altra parte se, da un lato, dai suoi rami sono nati frutti bacati, è altresì vero che le sue opere hanno avuto un grande impatto su diversi settori della cultura novecentesca, come sull'arte - l'intera teoria delle linee geometriche e della spiritualità del colore di Kandinsky, ad esempio, è basata sugli studi esoterici di Steiner -, sull'agricoltura - l'agricoltura biodinamica, spesso confusa con l'agricoltura biologica, deriva da una serie di pratiche sia agricole sia esoteriche basate sulla concezione steineriana del cosmo -, sulla pedagogia - da Steiner deriva la pedagogia Waldorf, molto diffusa in Germania e in Svizzera -, sulla rivalutazione e la diffusione degli scritti scientifici di Goethe, di cui Steiner fu uno dei principali commentatori filosofici. Ignorare Steiner significa ignorare un tassello importante per la comprensione di una fetta importante della cultura tedesca del novecento, i cui influssi sono ancora vivi ai giorni nostri e penso, dunque, sia importante affrontarlo e studiarlo quanto meno da questa prospettiva, senza necessariamente condividerne l'intero corpus dottrinario. Ho dunque intenzione di scrivere una serie di articoli per coloro che intendessero avvicinarsi al suo pensiero e alla comprensione della figura. 
Cominciando dal principio, per quanto sia un personaggio unico nel panorama della cultura, anche Steiner è figlio di una precisa corrente filosofica, esoterica, mistica e spirituale tipicamente tedesca, ed è a partire da questa cornice culturale che occorrerebbe inquadrarlo. 
Tra i predecessori di questa variegata linea genealogica possiamo citare il teologo Meister Eckhart, l'alchimista Paracelso, il mistico Jakob Bohme, l'omeopata Hahnemann, i filosofi idealisti come Hegel, Fichte, Schelling, e non ultimo, come già accennato, il Goethe scientifico, poetico e letterario. Autori di ambiti molto diversi ma collegati, oltre che dall'humus culturale della lingua tedesca di area germanica, svizzera e austriaca, da alcuni principi molto importanti. Primo tra tutti, una concezione estremamente "vissuta" del sovrasensibile, ossia l'idea che l'anima umana possa avvicinarsi al mondo invisibile non solo con la mediazione dei testi sacri o della teologia razionale, ma soprattutto attraverso un vissuto diretto, di tipo interiore, legato allo sviluppo delle potenze psichiche mediante esercizi spirituali di stampo meditativo, ascetico e contemplativo. Da tale prospettiva, la realtà metafisica non è un'idea teorica astratta costruita a tavolino, ma una realtà a se stante, tangibile quanto la materia, ma che richiede lo sviluppo dei sensi interiori necessari per poterla osservare, studiare, dissezionare, analizzare e descrivere. Così, esattamente come la scoperta dell'atomo o di altre galassie ha necessitato dell'ampliamento delle capacità visive attraverso le lenti dei microscopi e dei telescopi, allo stesso modo la realtà metafisica può essere osservata soltanto da coloro che impediscono ai loro sensi spirituali di atrofizzarsi, con un esercizio costante che li porta a svilupparsi e a fiorire.
In secondo luogo, l'idea che il cosmo, nella sua essenza, sia molto più simile al pensiero che alla materia e da qui la possibilità della mente di spaziare in ogni angolo dell'esistenza, dall'infinitamente piccolo all'infinitamente grande; da tale prospettiva, il pensiero o, meglio, l'Anima umana possiede una duplice natura; essa è al contempo un microscopio e un telescopio e la differente messa a fuoco del minuscolo e dell'immenso permette di scoprire un caleidoscopio di forme, figure, entità e leggi fisiche e spirituali che, in un tutt'uno inscindibile,  consentono lo sviluppo intrecciato dello spirito e della materia.
Infine, la prosa stessa di Steiner e il suo metodo teorico e pratico riflettono la medesima inventiva tipica dell'atteggiamento e della spiritualità tedesca che, in virtù di questa visione unitaria del cosmo, non concepisce la dicotomia tra discorso scientifico, discorso filosofico, discorso religioso e discorso poetico, poiché nell'Universo l'estetica ispiratrice della poesia, le leggi fisiche ispiratrici della scienza, la logica ispiratrice della filosofia e il sacro ispiratore della religione coincidono in un'unica entità dinamica, che nasce ed evolve al di là della limitata visione umana, spesso incapace di far coincidere questi discorsi contraddittori solo in apparenza.
Ciò, spesso, rende difficile la lettura delle opere di Steiner. Il primo ostacolo che si incontra quando ci si intende avvicinare alla sua figura è la sua immensa bibliografia. Ci si sente spaesati di fronte alla mole impressionante della sua Opera Omnia, che consta di oltre 400 titoli. Scegliendo un libro in base alla tematica suggerita dal titolo, si potrebbe incappare nel secondo ostacolo: la difficoltà del linguaggio e della terminologia steineriana. A dire la verità, Steiner non ha una prosa complessa come altri filosofi o mistici di lingua tedesca, eppure leggendo per la prima volta le sue opere, anche senza essere a digiuno di testi esoterici, si prova un senso di estraneità di fronte a una terminologia e a una modalità espressiva peculiare, che non si riscontra in altri scritti proprio perché frutto della libera ricerca di Steiner all'interno del "mondo dello spirito", che tenta di restituire al lettore le esperienze e le sensazioni vissute in prima persona. Per comprendere tali esperienze bisogna dunque imparare a familiarizzare per gradi con il mondo descritto da Steiner, così come per gradi si impara a conoscere la topografia di un luogo sconosciuto, e per farlo occorre tenere presente che gran parte dei testi steineriani pubblicati non sono, in realtà, scritti di suo pugno, bensì stenografie delle centinaia di conferenze che, per anni, egli ha tenuto in tutta Europa. E' sconsigliabile, dunque, avvicinarsi all'opera di Steiner attraverso i suoi testi stenografati, per una serie di motivi. Anzitutto, bisogna tenere presente che le conferenze, pur essendo volte a divulgare il pensiero antroposofico, parlavano a un pubblico che, in parte, già "masticava" il pensiero, la terminologia e il modo di esprimersi di Steiner. Di conseguenza spesso, in questi testi, ci sono molti elementi dati per scontato o, al contrario, numerose ripetizioni derivanti dallo stile orale che necessita di tornare più volte sullo stesso tema, per evitare che il pubblico perda il filo del discorso. Steiner stesso, pur condividendo la diffusione delle opere stenografate, mette in guardia il lettore sulla presenza di errori in esse contenuti; difatti, per sua stessa ammissione, queste opere, pur essendo redatte a partire dalle sue conferenze, non erano però riviste e corrette dall'autore e, di conseguenza, alcuni concetti potrebbero risultare astrusi non tanto per colpa di Steiner, quanto perché incompresi dallo stesso redattore.
Perciò, per un primo approccio con il pensiero steineriano è consigliabile cominciare con i libri scritti direttamente di suo pugno, in particolare dai quattro pilastri del pensiero antroposofico: Teosofia, l'Iniziazione, La Scienza Occulta nelle sue linee generali e La Filosofia della Libertà, con alcune incursioni anche all'interno de La mia vita, per comprendere come è cominciata e da quali principi ed esperienze si è evoluta la personale ricerca steineriana all'interno del mondo dello spirito.
Ho fatto più volte l'errore di approcciarmi a Steiner partendo dai suoi testi stenografati, salvo poi arenarmi nella tortuosità del linguaggio, della terminologia e del discorso, per poi convincermi a leggere i capisaldi del suo pensiero scritti direttamente dalla sua penna e posso confermare che vi è un abisso tra lo stile oscuro delle conferenze e la chiarezza cristallina dei suoi saggi, in grado di rendere comprensibile, a posteriori, anche i suoi testi stenografati.
In ogni caso, l'Iniziazione è forse il testo privilegiato per compiere i primi passi nel pensiero steineriano. Il testo, infatti, tenta di rispondere alla domanda: Come si conseguono conoscenze dei mondi superiori? Descrivendo fin da subito, in maniera chiara e concisa, non solo qual è il metodo operativo di Steiner ma, soprattutto, quali sono gli esercizi spirituali che consentono all'uomo di provare le sue stesse esperienza, senza dover fare affidamento alla fede cieca nelle sue parole.
Questo è l'aspetto più importante, a mio parere, per comprendere l'esperienza mistica e spirituale di Steiner. Benché spesso sembra di trovarsi di fronte alle parole di un mistico e di un profeta, che descrive una realtà spirituale totalmente altra, vi è in Steiner la volontà di trasmettere al lettore le modalità in cui vivere le medesime esperienze. Mentre la realtà del mistico e del profeta rimane ancorata alle loro visioni soggettive, alle quali non resta che prestare fede, Steiner non nasconde i suoi segreti operativi e descrive in maniera minuziosa come esercitare i sensi interiori vedere ciò che egli vede. Solo assumendo questa prospettiva sarà possibile comprendere realmente il contenuto filosofico, esoterico e spirituale dell'opera steineriana, senza bollarlo in maniera semplicistica come un pensatore bizzarro o un folle.
Perciò, idea cardine dell'opera è che: "In ogni uomo esistono facoltà latenti per mezzo delle quali può acquistarsi conoscenze sui mondi superiori. Il mistico, lo gnostico, il teosofo parlano sempre di un mondo degli spiriti, che sono per loro altrettanto reali quanto quello che si può vedere con gli occhi fisici e toccare con mani fisiche. Chi li ascolta può sempre dirsi che anch'egli può avere le esperienze di cui si parla se sviluppa in sé talune forze che ancora dormono in lui. Si tratta soltanto di sapere come occorra adoperarsi per sviluppare tali facoltà" (Rudolf Steiner, L'Iniziazione, Editrice Antroposofica, p. 15).
Gli esercizi che Steiner propone, inoltre, non sono da lui inventati di sana pianta, ma attingono all'antica tradizione occidentale, tanto pagana quanto cristiana. Ciò lo distingue dall'altro grande movimento della sua epoca, di cui Steiner stesso fece parte per un certo periodo prima di separarsene, ossia la Teosofia. In controtendenza rispetto alla Teosofia, infatti, Steiner tentò di riscoprire le radici misteriche occidentali degli insegnamenti occulti, senza volgersi quasi esclusivamente a oriente, come i teosofi. Questo perché, dal suo punto di vista, le scuole esoteriche sorte in Occidente e in Oriente sono le depositarie della sapienza vissuta del mondo spirituale, delle "officine dell'anima" volte a tramandare non soltanto un insieme di nozioni teoriche sui mondi superiori, ma soprattutto un insieme di pratiche per esperire in maniera diretta il mondo invisibile, attraverso lo sviluppo dei sensi psichici attraverso il superamento delle "prove spirituali", che insieme formano il cammino dell'iniziato. Citando Steiner:
"La scienza dello spirito parla di quattro qualità che il discepolo deve acquisire nel cosiddetto cammino delle prove, per accedere alle conoscenze superiori. La prima è la capacità di scindere nei pensieri il vero dalla parvenza, la verità dalla semplice opinione. La seconda qualità è la valutazione giusta del vero e del reale, rispetto alla parvenza. La terza capacità consiste nell'esercizio delle sei qualità: controllo del pensiero, controllo delle azioni, perseveranza, tolleranza, fede e imperturbabilità. La quarta è l'amore per la libertà interiore(Rudolf Steiner, L'Iniziazione, Editrice Antroposofica, p. 110).
Contrariamente alle persone dalla scarsa conoscenza dell'opera steineriana, che spesso lo tacciano di occultismo, superstizione medievale se non addirittura satanismo, le prove di cui si parla non consistono in strani riti magici, ma nell'esercizio delle basilari facoltà interiori. "Ci si deve rendere chiaramente conto" scrive Steiner "che si deve partire dai sentimenti e dai pensieri con ci si vive di continuo, e che si tratta soltanto di dar loro una direzione diversa da quella abituale. Ognuno deve dirsi anzitutto che nel mondo dei propri sentimenti e pensieri stanno nascosti i misteri più alti, ma che finora non li ha potuti percepire. In ultima analisi tutto si risolve nel fatto che l'uomo porta con sé di continuo corpo, anima e spirito, ma che è chiaramente cosciente soltanto del proprio corpo, non della propria anima e non del proprio spirito. Invece il discepolo diventa cosciente della propria anima e del proprio spirito, come gli uomini lo sono di solito del corpo. Questa è la ragione per cui importa dare ai sentimenti e ai pensieri la giusta direzione. Allora si sviluppano le percezioni per ciò che è invisibile nella vita ordinaria(Rudolf Steiner, L'Iniziazione, Editrice Antroposofica, p. 47).
Il primo esercizio proposto da Steiner per sviluppare la consapevolezza interiore dell'anima e dello spirito consiste nella seguente visualizzazione, che citeremo per intero in modo da rendere partecipe il lettore del metodo pratico operativo dell'esperienza esoterica steineriana. Scrive l'autore: "Ci si ponga dinanzi il piccolo seme di una pianta. Di fronte a questo oggetto insignificante, si tratta di sviluppare con intensità giusti pensieri e, con essi, determinati sentimenti. Anzitutto ci si renda chiaramente conto di che cosa in realtà si vede con gli occhi. Si descriva la forma, il colore e tutte le altre proprietà del seme, e poi si facciano le seguenti riflessioni: da questo seme, se piantato a terra, nascerà il complesso organismo di una pianta. Ci si rappresenti la pianta costruendola nella propria fantasia, e poi si pensi: le forze della terra e della luce più tardi faranno realmente scaturire dal seme ciò che ora mi rappresento con la fantasia. Se avessi davanti a me un oggetto artificiale che imitasse quel seme con tale perfezione che i miei occhi non potessero distinguerlo da un seme vero, nessuna forza della terra e della luce ne farebbe scaturire una pianta. Chi comprende con chiarezza e sperimenta interiormente questo pensiero potrà anche col giusto sentimento formare il seguente altro pensiero: Nel seme già riposa nascosta, come forza dell'intera pianta, ciò che più tardi ne crescerà e nell'imitazione artificiale questa forza non c'è, nondimeno per i miei occhi entrambi sembrano uguali. Il vero seme contiene dunque qualcosa di invisibile che non esiste nell'imitazione. Su ciò che è invisibile occorre volgere il sentimento e i pensieri. Si pensi: ciò che è invisibile si trasformerà più tardi in pianta visibile che mi apparirà con forma e colore. Ci si fermi su questo pensiero: ciò che è invisibile diventerà visibile. Se non potessi pensare, on mi si potrebbe neppure palesare fin d'ora ciò che diventerà visibile soltanto più tardi. Va sottolineato con precisione: ciò che così si pensa deve anche essere intensamente sentito. Nella calma, senza intromissione disturbatrice di altri pensieri, bisogna sperimentare il pensiero sopra accennato, e lasciarsi il tempo necessario perché il pensiero e il sentimento che ad esso si ricollega, si possano imprimere in certo qual modo nell'anima(Rudolf Steiner, L'Iniziazione, Editrice Antroposofica, pp. 47-48).
Questo lungo passo è emblematico del metodo steineriano. Come è possibile notare, la riflessione filosofica sulla natura della realtà e del pensiero - a tratti simile a quella cartesiana - non sfocia però nella metafisica astratta, nella riflessione teorica fine a se stessa, bensì in un impulso spirituale volto a trasformare l'invisibile in visibile, cambiando radicalmente la struttura interiore della percezione umana. Perciò L'Iniziazione è il testo privilegiato per cominciare ad approfondire Steiner. Per tutta l'opera Steiner non descrive la sua visione del mondo, ma trasmette al lettore i suoi esercizi di esperienza dell'invisibile, affinché questi possa compiere le prime esplorazioni, con i suoi passi, nella dimensione occulta.

Daniele Palmieri