La sua produzione ha ispirato due tra i principali filoni
della narrativa (e della cinematografia) contemporanea, ossia l’horror/gotico e
il poliziesco.
Nelle raccolte di racconti a lui dedicate gli editori sono
soliti inserire le novelle più note come Il pozzo e il pendolo, La maschera
della morte rossa, Il gatto nero, Discesa nel Maelstrom e via dicendo.
Tuttavia, c’è una piccola perla che spesso viene ignorata e
che quasi nessuno conosce, eccetto i lettori più fedeli.
Si tratta de “Il demone della perversità” (o, in altre
traduzioni, “Il genio della perversione”), un terrificante racconto breve che
in poche pagine sonda uno degli abissi più oscuri e profondi dell’animo umano.
La novella in questione ha in apparenza una trama molto
semplice, che per di più viene narrata soltanto nella parte finale del
racconto.
Il protagonista, nonché voce narrante, uccide un’anziana
signora per mezzo di una candela avvelenata, i cui vapori la soffocano nel
sonno; la morte sopraggiunta nella notte viene scambiata per morte naturale ed
egli eredita, impunito, tutti i beni della vecchia.
Passano gli anni e il crimine non viene a galla; l’uomo
trascorre tranquillo la sua vita, senza rimorsi, pensando tra sé e sé: “sono
salvo”.
Finché un giorno, mentre cammina per strada, la litania che
si ripete quotidianamente gli balena per la testa con un minuscola aggiunta.
“Sono salvo. Sì, sono salvo; se non sarò così sciocco da confessare”.
Improvvisamente, il pensiero di confessare il proprio
crimine inizia ad angustiarlo, ad ossessionarlo e ad opprimerlo sino a
togliergli il fiato.
Tenta di non far trapelare la propria agitazione, per non
destare sospetti nella folla che lo circonda; ma questo impulso che lo spinge a
confessare si fa sempre più forte, sempre più pressante, finché l’uomo non
comincia a scappare, nella speranza di fuggire da tale pensiero.
La polizia, insospettita, lo rincorre e lo bracca e nel
momento stesso in cui viene catturato egli confessa.
“Il segreto per tanto tempo tenuto prigioniero scoppiò fuori dalla mia anima”.
A una prima lettura superficiale si potrebbe pensare che il
protagonista abbia agito in questo modo poiché perseguitato dal senso di colpa.
Tuttavia, questa interpretazione è errata; per comprendere
il racconto, occorre soffermarsi sulla prima parte, di cui ancora non ho
parlato.
Come ho accennato in precedenza, la storia che ho riassunto
viene narrata nelle poche righe finali, ma il vero racconto non è composto da
questo semplice intreccio, bensì dalla lunga digressione filosofica con la
quale Poe inizia la novella e che ne occupa quasi i due terzi.
In essa ci viene descritto quello che Poe definisce il Demone
della Perversità.
Questo demone è l’impulso, il desiderio di autodistruzione
che alberga, latente, in ciascuno di noi.
Le sue manifestazioni sono molteplici; dalle più semplici,
come il voler posporre lo svolgimento di un impegno importante sino all’ultimo
momento – con il rischio di non portarlo a termine –fino alla distruzione
psicofisica di se stessi.
“Siamo sull'orlo di un precipizio. Vi gettiamo dentro un'occhiata, e malessere e vertigini ci colgono. Il nostro primo impulso è di tirarci via dal pericolo. Nondimeno, inesplicabilmente, restiamo. A poco a poco il nostro malessere, la vertigine, l'orrore sfumano dentro la nuvola di una sensazione ineffabile. A gradi ancora più impercettibili questa nuvola assume una forma, come il vapore di quella bottiglia dalla quale usci un genio, nelle Mille e una Notte. Ma questa nostra nuvola sull'orlo del precipizio si condensa in una forma assai più terribile di qualsiasi genio o demonio da racconto, in nient'altro che un'idea, ma paurosa idea, in un'idea che ci agghiaccia il midollo delle ossa con la feroce voluttà del suo orrore. Ed è semplicemente l'idea delle sensazioni che proveremmo durante il rovinoso precipitare di una caduta da simile altezza. Questa caduta e l'annientamento fulmineo che ne conseguirebbe, noi cominciamo a desiderarla ardentemente; e perché?”
Non è possibile fornire una spiegazione razionale di tale
desiderio; è un istinto, come la fame, la sete, il desiderio sessuale. Un
istinto, però, che rema in direzione opposta; un istinto che mira
all’autodistruzione, un istinto che brama l’oblio e la sofferenza e che non ha
altro scopo se non l’annientamento dell’individuo.
Ed è un istinto irrefrenabile poiché “non c’è passione più
infernale e compulsiva di quella per la quale uno, pur rabbrividendo sull’orlo
di un precipizio, medita di gettarvisi”.
L’unico modo per tenerla a bada è sperare che qualcuno ci
afferri prima di compiere il tuffo fatale; ma chi ci assicura che il nostro
salvatore non lanci un fuggevole sguardo sull’abisso e che, anch’egli, non ne
resti ipnotizzato?
Il Demone della perversità potrebbe sembrare una finzione
letteraria astratta, poco credibile, ma nel concreto
questo impulso sembra essere il motore delle azioni più terribili dell’uomo,
come la guerra.
Facciamo la guerra per avere la pace è il motto di Aristotele
spesso citato; ma questo moto tenta di dare una spiegazione razionalistica di
un fenomeno che di razionale non ha nulla.
La guerra, il totale annientamento di tutto ciò che ci
circonda, fino ad arrivare a noi stessi, sembra in realtà la manifestazione più
potente e spaventosa del Demone della Perversità, che dagli oscuri meandri del
nostro animo ci scruta, sussurra, sogghigna, e attende con primordiale pazienza
il momento di venire a galla.
Nel video in sovrimpressione potete trovare l'audioracconto de Il demone della perversità, prodotto dalla casa indipendente di audiolibri: Menestrandise.
Daniele Palmieri
Daniele Palmieri
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