In questi giorni sta girando su Whatsapp e su Facebook un "dialogo edificante" che vede come protagonisti il capitano di una nave che, per tranquillizzare un suo mozzo, preoccupato per una quarantena imposta all'equipaggio, gli racconta come in passato colse un episodio simile per far fiorire la sua vita interiore attraverso la lettura, l'esercizio, la meditazione, la moderazione e via dicendo.
Il passo, pubblicato in origine dall'autore Alessandro Frezza sulla sua pagina Facebook, attraverso il passaparola, le catene e le misteriose logiche della rete è stato attribuito ai più disparati scrittori, fino a trasformarsi e a venire condiviso come un presunto passo del Libro Rosso di Jung, complici anche alcune testate giornalistiche, come l'Huffington Post che, senza nemmeno verificare la fonte hanno deciso di riproporre il passaggio in un loro "articolo" reiterando l'errore, salvo poi correggersi in seguito alle numerose lamentele ricevute.
Trovo ingiusto che un autore venga privato del riconoscimento nei confronti di una propria opera, fosse anche un breve dialogo condiviso sui social network. E, allo stesso tempo, quanto accaduto è profondamente scorretto nei confronti della memoria di Carl Gustav Jung.
Difatti, non solo vengono a lui attribuite parole mai scritte di suoi pugno, ma per di più esse vengono associate al suo libro più intimo e mistico, Il Libro Rosso, un vero e proprio squarcio sulle meraviglie più profonde del suo inconscio. Uno scritto che Jung riteneva così importante a tal punto da essere sempre stato restio a pubblicarlo, in vita, e che è giunto tra le mani dei lettori soltanto dopo lunghe trattative con gli eredi delle sue opere.
Difatti, non solo vengono a lui attribuite parole mai scritte di suoi pugno, ma per di più esse vengono associate al suo libro più intimo e mistico, Il Libro Rosso, un vero e proprio squarcio sulle meraviglie più profonde del suo inconscio. Uno scritto che Jung riteneva così importante a tal punto da essere sempre stato restio a pubblicarlo, in vita, e che è giunto tra le mani dei lettori soltanto dopo lunghe trattative con gli eredi delle sue opere.
Ho deciso di scrivere questo articolo per dare al lettore un assaggio del "vero Libro Rosso", a partire dall'unica parte dello scritto che Jung fece circolare, quando era ancora in vita, in edizione privata e tiratura limitata, con il titolo di: Septem Sermones ad Mortuos, ossia Sette sermoni ai morti.
Rispetto al padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, Jung ha sempre esercitato un fascino maggiore tanto verso il grande pubblico quanto verso gli studiosi di esoterismo (più o meno seri). Questo perché Jung è stato in grado di descrivere la mente umana nella sua interezza, senza limitarsi alle pulsioni sessuali e conflittuali, ma addentrandosi nella camera oscura dei simboli interiori e della mistica, zona considerata tabù tanto dalla psicanalisi quanto dalla scienza novecentesca.
Benché Jung si sforzasse e, spesso, riuscisse a mantenere un approccio analitico e logico nei confronti dei grandi dilemmi dell'inconscio e della psiche umana, egli covava dentro di sé un'irrequietezza e un'attrazione nei confronti del mondo esoterico - ossia delle verità intangibili, irraggiungibili dalla sola ragione, che si nascondono dietro il velo della materia
In tale prospettiva, i Sette sermoni ai morti sono una delle più importanti testimonianze dell'irrefrenabile pulsione dello Jung mistico.
Come accennato in precedenza, i Sette sermoni ai morti nascono all'interno del Libro Rosso di Jung e, benché alcuni studiosi ne abbiano sminuito il valore, l'ubicazione dello scritto nella più ampia panoramica del Libro Rosso ne suggerisce l'importanza. Essi si trovano infatti nella parte conclusiva del testo, che narra delle prove e dei travagli affrontati dall'anima umana nel suo percorso interiore.
Come vedremo a breve, tali prove non hanno nulla di tenero ed edificante; non sono paragonabili a una semplice quarantena che permette all'uomo di vivere in tranquillità, mangiar bene e meditare, ma assumono l'aspetto di visioni terribili, tanto meravigliose quanto terrificanti, e sono più simili al travagliato e spaventoso percorso dell'anima del defunto attraverso il Bardo.
La stessa rivelazione dei Sette sermoni ai morti - poiché, come vedremo a breve, di rivelazione, anzi di canalizzazione, si trattò - si verificò in un momento di estrema irrequietezza. E' lo stesso Jung a raccontarcelo in uno dei suoi ultimi scritti, Sogni, ricordi e riflessioni: "Nacquero così i Septem sermones ad mortuos, con il loro peculiare linguaggio. Cominciò con uno stato di inquietudine dentro di me, ma non sapevo cosa significasse o cosa si volesse da me. C'era intorno a me un'atmosfera sinistra: avevo la strana sensazione che l'aria fosse pregna di entità spettrali. Poi fu come se la mia casa fosse abitata dagli spiriti. La maggiore delle mie figlie vide una figura bianca attraversare la stanza; la seconda, indipendentemente dalla sorella, riferì che per due volte nella notte le era stata portata via la coperta; infine la stessa notte mio figlio, di nove anni, aveva avuto un incubo nel sonno. [...] La domenica verso le cinque del pomeriggio, il campanello del portone di casa si mise a suonare pazzamente. [...] non solo l'avevo visto suonare, ma l'avevo visto muovere. Tutti corsero immediatamente alla porta per vedere chi fosse, ma non si vide nessuno. [...] L'atmosfera era greve! [...] Tutta la casa era come abitata da una folla di gente, come se fosse stipata di spiriti. Si affollavano fin sotto la porta, e si aveva la sensazione di respirare a fatica. Ero naturalmente tormentato dalla domanda: [...] di che mai si tratta? Allora in coro gridarono: Ritorniamo da Gerusalemme, dove non abbiamo trovato ciò che cercavamo" (C. Gustav Jung, Ricordi, sogni, riflessioni, BUR, pp. 233-235).
Con questa frase comincia il primo dei Sette sermoni che Jung rivolgerà ai morti che si affollavano sull'anticamera del suo inconscio. O, per meglio dire, che l'eresiarca Basilide rivolgerà alle anime dei defunti, poiché Jung stesso riterrà tale scritto una canalizzazione del mistico gnostico, del quale ci restano soltanto pochi frammenti tramandati dagli esegeti cristiani.
Come suggerisce il titolo del testo, lo scritto è composto da sette discorsi tenuti da Basilide alle anime dei morti in cerca di risposte sul significato ultimo dell'esistenza. Questi tornano da Gerusalemme, simbolo della città sacra del cristianesimo alla quale, evidentemente, si sono recati nel loro viaggio etereo senza tuttavia trovare né risposte né pace. Tocca così al profeta Jung/Basilide rivelare loro l'essenza ultima della realtà, che non coincide con l'edificante mondo paradisiaco cristiano.
La realtà in cui siamo immersi, secondo il Basilide/Jung dei Sette sermoni ai morti, non è altro che Pleroma. Come recitano le sibilline parole dello scritto, affini al Tao Te Ching di Lao-Tze: "Il Nulla è come la pienezza. Nell'infinito il pieno è come il vuoto. Il Nulla comprende entrambi, vuoto e pieno. [...] Chiamiamo questo nulla o questa pienezza PLEROMA. [...] Nel Pleroma c'è niente e tutto. E' pressoché inutile meditare sul Pleroma, perché questo significherebbe annientare se stessi" (C. Gustav Jung, Septem sermones ad mortuos, Arktos Edizioni, p 67). La condizione paradossale delle creature è di essere immerse nel Pleroma ma, allo stesso tempo, perennemente distanti da esso. "Noi siamo lo stesso Pleroma, poiché noi siamo una parte dell'eterno e dell'infinito. Ma noi non e facciamo parte perché siamo infinitamente lontani dal Pleroma; e questo non in senso spirituale o temporale, ma essenziale, perché siamo distinti dal Pleroma nella nostra essenza di creatura - che è contenuta nello spazio e nel tempo" (C. Gustav Jung, Septem sermones ad mortuos, Arktos Edizioni, p. 67-68).
Il Pleroma è la totalità di ciò che esiste e non esiste; essa trascende l'Essere e il Non-Essere parmenideo poiché li ingloba entrambi; tuto ciò che esiste è, dalla prospettiva dell'essere vivente, soltanto una qualità transitoria del Pleroma. L'uomo stesso non può viverlo nella sua totalità poiché può vivere e concepire soltanto un opposto alla volta; le cose sono o calde o fredde, o vive o morte, o alte o basse, o lunghe o corte, o materiali o immateriali e via dicendo. Il suo corpo e la sua anima sono in balia di questo eterno mutare, l'eterna battaglia della superficie delle cose descritta anche da Eraclito.
Da ciò la sua natura mortale, contingente; da ciò la disperazione delle anime dei morti, ancora ingabbiate nel mondo transeunte, che non hanno trovato pace nemmeno nella sacra Gerusalemme. Dov'è Dio, allora? E' forse morto? Non è forse mai esistito? Si domandando le anime, disperate.
Al che, Jung/Basilide rivela che esiste un Dio, ma non è il dio di Gerusalemme. L'eterna lotta tra il Dio e il Diavolo cristiani altro non è se non la lotta tra il mondo degli opposti; patteggiare per l'uno o per l'altro non sortisce alcuna differenza: l'uomo rimane invischiato nella limitatezza. Esiste un Dio superiore di queste due mere ipostasi. "E' questo un dio che voi non conoscete perché l'umanità l'aveva dimenticato. Lo chiamiamo con il suo nome: A B R A X A S. E' indefinito ancor più del dio e del demonio"(C. Gustav Jung, Septem sermones ad mortuos, Arktos Edizioni, pp. 76-77). Al solo nominarlo, si crea scompiglio e terrore tra i morti. Chi è questa divinità aliena?
Secondo alcune eresie gnostiche, la Terra è circondata da tanti cieli quanti sono i giorni dell'anno; ciascun cielo è vegliato da un demone guardiano. Conoscere il nome del demone permette all'anima di sconfiggerlo e accedere al cielo successivo. E l'ultimo cielo, che tutto ingloba, è dominato da un'entità immensa e temibile: Abraxas, per l'appunto, demone dell'ultimo cielo dalla testa di gallo, il busto da uomo e due lunghi serpenti al posto delle gambe, che tiene in mano uno scudo e una frusta e la cui somma delle lettere greche corrisponde al numero 365.
Seppur intimoriti, i morti vogliono sapere e Jung/Basilide prosegue con il terzo sermone.
"Difficile da penetrare è la deità di Abraxas. Il suo potere è massimo e l'uomo non lo percepisce. Dal sole attinge il summum bonum; dal diavolo l'infinitum malum - ma da Abraxas la VITA, indefinita nell'insieme, madre del bene e del male. La vita sembra essere infima e debole rispetto al summum bonum e perciò è molto difficile concepire che Abraxas trascenda lo stesso sole, che è sorgente radiosa di ogni forza vitale, in potenza. Abraxas è il sole e nel contempo l'eterna fauce del vuoto che risucchia, il demonio calunniatore e distruttore. Il potere di Abraxas è duplice: ma voi non lo potete vedere poiché per i vostri occhi gli opposti di questa potenza, in lotta tra loro, si estinguono. Quel che il dio-sole esprime è vita. Quel che il demonio esprime è morte. Abraxas esprime invece quel verbo sacro ed esecrato che è nel contempo vita e morte. Abraxas genera verità e menzogna, bene e male, luce e oscurità con la stessa parola e nello stesso atto. Perciò Abraxas è terribile" (C. Gustav Jung, Septem sermones ad mortuos, Arktos Edizioni, p. 77).
Se, dunque, il Pleroma è il reale che si manifesta allo stesso tempo nell'Essere e nel Non-Essere, Abraxas è un'entità ancora più superiore. Egli non è solo il custode del Pleroma, ma è anche colui che può vedere il Pleroma nella sua interezza, poiché si trova al di sopra di esso; Abraxas è l'unico che può concepire una cosa e il suo contrario nello stesso istante, eterna sorgente della vita-morte, la cui alterità è così distante dal nostro comune modo di vedere le cose che a malapena possiamo concepirlo. Per questo si nasconde. Per questo terrorizza. Per questo fustiga con la sua frusta tutti coloro che osano avvicinarsi all'ultimo cielo. E per questo dobbiamo osare, trascendere i comuni concetti di bene e male, vita e morte, essere e non essere, per aspirare alla sua divina essenza e fuggire così dalla gabbia del Pleroma.
Perciò, nel settimo sermone, quando le anime dei morti chiedono a Basilide/Jung, quasi tremando: quid est homo? chi è l'uomo?, questi risponde che l'uomo è un varco, un passaggio, un portale: "In questo mondo l'uomo è Abraxas, il creatore e il distruttore del suo mondo"(C. Gustav Jung, Septem sermones ad mortuos, Arktos Edizioni, p. 91).
Abraxas è la stella, lo zenith, a cui l'uomo deve puntare, attraversando il varco interiore vegliato da dio, dal diavolo, dagli déi ai demoni, per divenire un tutt'uno con esso. Un nulla separa l'uomo dal suo unico dio, poiché il nulla è ciò in cui svaniscono gli opposti una volta ricongiunti - e a questa consapevolezza "i morti tacquero ed ascesero simili a fumo che si levi dal fuoco di un pastore che nella notte veglia sul suo gregge" (C. Gustav Jung, Septem sermones ad mortuos, Arktos Edizioni, p. 92).
C. Gustav Jung, Septem sermones ad mortuos, Arktos Edizioni
Daniele Palmieri
Il Pleroma è la totalità di ciò che esiste e non esiste; essa trascende l'Essere e il Non-Essere parmenideo poiché li ingloba entrambi; tuto ciò che esiste è, dalla prospettiva dell'essere vivente, soltanto una qualità transitoria del Pleroma. L'uomo stesso non può viverlo nella sua totalità poiché può vivere e concepire soltanto un opposto alla volta; le cose sono o calde o fredde, o vive o morte, o alte o basse, o lunghe o corte, o materiali o immateriali e via dicendo. Il suo corpo e la sua anima sono in balia di questo eterno mutare, l'eterna battaglia della superficie delle cose descritta anche da Eraclito.
Da ciò la sua natura mortale, contingente; da ciò la disperazione delle anime dei morti, ancora ingabbiate nel mondo transeunte, che non hanno trovato pace nemmeno nella sacra Gerusalemme. Dov'è Dio, allora? E' forse morto? Non è forse mai esistito? Si domandando le anime, disperate.
Al che, Jung/Basilide rivela che esiste un Dio, ma non è il dio di Gerusalemme. L'eterna lotta tra il Dio e il Diavolo cristiani altro non è se non la lotta tra il mondo degli opposti; patteggiare per l'uno o per l'altro non sortisce alcuna differenza: l'uomo rimane invischiato nella limitatezza. Esiste un Dio superiore di queste due mere ipostasi. "E' questo un dio che voi non conoscete perché l'umanità l'aveva dimenticato. Lo chiamiamo con il suo nome: A B R A X A S. E' indefinito ancor più del dio e del demonio"(C. Gustav Jung, Septem sermones ad mortuos, Arktos Edizioni, pp. 76-77). Al solo nominarlo, si crea scompiglio e terrore tra i morti. Chi è questa divinità aliena?
Secondo alcune eresie gnostiche, la Terra è circondata da tanti cieli quanti sono i giorni dell'anno; ciascun cielo è vegliato da un demone guardiano. Conoscere il nome del demone permette all'anima di sconfiggerlo e accedere al cielo successivo. E l'ultimo cielo, che tutto ingloba, è dominato da un'entità immensa e temibile: Abraxas, per l'appunto, demone dell'ultimo cielo dalla testa di gallo, il busto da uomo e due lunghi serpenti al posto delle gambe, che tiene in mano uno scudo e una frusta e la cui somma delle lettere greche corrisponde al numero 365.
Seppur intimoriti, i morti vogliono sapere e Jung/Basilide prosegue con il terzo sermone.
"Difficile da penetrare è la deità di Abraxas. Il suo potere è massimo e l'uomo non lo percepisce. Dal sole attinge il summum bonum; dal diavolo l'infinitum malum - ma da Abraxas la VITA, indefinita nell'insieme, madre del bene e del male. La vita sembra essere infima e debole rispetto al summum bonum e perciò è molto difficile concepire che Abraxas trascenda lo stesso sole, che è sorgente radiosa di ogni forza vitale, in potenza. Abraxas è il sole e nel contempo l'eterna fauce del vuoto che risucchia, il demonio calunniatore e distruttore. Il potere di Abraxas è duplice: ma voi non lo potete vedere poiché per i vostri occhi gli opposti di questa potenza, in lotta tra loro, si estinguono. Quel che il dio-sole esprime è vita. Quel che il demonio esprime è morte. Abraxas esprime invece quel verbo sacro ed esecrato che è nel contempo vita e morte. Abraxas genera verità e menzogna, bene e male, luce e oscurità con la stessa parola e nello stesso atto. Perciò Abraxas è terribile" (C. Gustav Jung, Septem sermones ad mortuos, Arktos Edizioni, p. 77).
Se, dunque, il Pleroma è il reale che si manifesta allo stesso tempo nell'Essere e nel Non-Essere, Abraxas è un'entità ancora più superiore. Egli non è solo il custode del Pleroma, ma è anche colui che può vedere il Pleroma nella sua interezza, poiché si trova al di sopra di esso; Abraxas è l'unico che può concepire una cosa e il suo contrario nello stesso istante, eterna sorgente della vita-morte, la cui alterità è così distante dal nostro comune modo di vedere le cose che a malapena possiamo concepirlo. Per questo si nasconde. Per questo terrorizza. Per questo fustiga con la sua frusta tutti coloro che osano avvicinarsi all'ultimo cielo. E per questo dobbiamo osare, trascendere i comuni concetti di bene e male, vita e morte, essere e non essere, per aspirare alla sua divina essenza e fuggire così dalla gabbia del Pleroma.
Perciò, nel settimo sermone, quando le anime dei morti chiedono a Basilide/Jung, quasi tremando: quid est homo? chi è l'uomo?, questi risponde che l'uomo è un varco, un passaggio, un portale: "In questo mondo l'uomo è Abraxas, il creatore e il distruttore del suo mondo"(C. Gustav Jung, Septem sermones ad mortuos, Arktos Edizioni, p. 91).
Abraxas è la stella, lo zenith, a cui l'uomo deve puntare, attraversando il varco interiore vegliato da dio, dal diavolo, dagli déi ai demoni, per divenire un tutt'uno con esso. Un nulla separa l'uomo dal suo unico dio, poiché il nulla è ciò in cui svaniscono gli opposti una volta ricongiunti - e a questa consapevolezza "i morti tacquero ed ascesero simili a fumo che si levi dal fuoco di un pastore che nella notte veglia sul suo gregge" (C. Gustav Jung, Septem sermones ad mortuos, Arktos Edizioni, p. 92).
C. Gustav Jung, Septem sermones ad mortuos, Arktos Edizioni
Daniele Palmieri
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