Con il suo approccio interdisciplinare, in grado di integrare in maniera magistrale le scienze umane con le scienze "pure", nell'ultimo secolo l'etnobotanica si è fatta strada tra le diverse branche del sapere umano in maniera estremamente innovativa. La sua importanza, probabilmente, è ancora sottovalutata. Ma per chi si addentra nei meandri della materia è chiaro che essa sta rivoluzionando lo studio dell'uomo e della sua storia evolutiva, ambientale, sociale e religiosa, come se nel mondo vegetale - e nel rapporto dell'uomo con esso - si nascondesse la chiave di volta per comprendere molti misteri ancora insoluti.
Abbiamo già trattato, negli ultimi due articoli del blog (Rivoluzione psichedelica e Le Piante degli Dèi), parte della storia della riscoperta dell'uomo occidentale degli stati visionari di coscienza indotti da alcune sostanze vegetali e, per evitare di ripetermi, rimando il lettore a questi approfondimenti per inquadrare la questione nel suo sviluppo storico.
Scrivo il presente articolo proprio per proseguire questa breve "trilogia", focalizzandomi sugli studi e i nomi "nostrani" in materia. Il lettore attento avrà infatti notati che i principali protagonisti sia della rivoluzione psichedelica sia degli studi etnobotanici citati nei precedenti articoli sono esclusivamente esteri. Ma l'Italia non è rimasta immune da questa rivoluzione del sapere e, anzi, ne ha anticipato alcuni aspetti, ad esempio con l'opera avveniristica di Paolo Mantegazza, scienziato, antropologo, viaggiatore e scrittore italiano del XIX secolo che, in anticipo con i tempi, intuì che una delle scienze del futuro sarebbe stata proprio la scienza delle droghe e del loro rapporto con l'azione e il pensiero umani. Egli stesso dedicò alle droghe, all'estasi e all'ebrezza diversi studi, tra cui Quadri della natura umana. Feste ed ebrezza (1871) e Le estasi umane (1887). Ma, cosa più importante per la storia dell'etnobotanica, fu uno dei primi scienziati ad approcciarsi alla materia in maniera "esperienziale", compiendo diversi viaggi in Sud America e studiando in loco la relazione tra l'uomo e le specie vegetali, come ad esempio la coca, di cui divenne un appassionato sostenitore.
Benché Mantegazza sia stato relegato ai margini del sapere dalla poco riconoscente cultura italiana, nonostante i suoi studi decisamente avveniristici, vi è chi, in Italia, ne ha preso a piene mani l'eredità. Sto parlando di Giorgio Samorini, il più importante etnobotanico italiano che, da molti anni, compie un lavoro di ricerca indipendente per diffondere, sia nel nostro paese sia all'estero, una diversa consapevolezza dello studio delle droghe e della relazione tra uomo e sostanze vegetali, mostrando un amore per il sapere estremamente raro e disinteressato per i nostri tempi, dato che egli stesso rende liberamente disponibili gran parte delle sue ricerche (e anche delle sue fonti) sul portale Giorgio Samorini Network, che negli anni è diventato un punto di riferimento imprescindibile per gli studiosi della materia.
Come in Mantegazza, negli studi di Samorini le esperienze personali procedono di pari passo allo studio e all'analisi scientifica della materia trattata. Un approccio che permette di comprendere il fenomeno "droghe" in ogni sua sfaccettatura: quella scientifica, attraverso l'analisi chimica e botanica del perché certe droghe agiscono in un certo modo sul corpo e la mente umana, ma anche la componente fenomenologica, che permette di cogliere, attraverso l'esperienza soggettiva, quelle impressioni che non possono essere ridotte a puro dato scientifico e che richiedono, necessariamente, un'esperienza vissuta personale. Soltanto quest'ultimo aspetto consente di cogliere la materia anche nel suo sviluppo storico e antropologico. E' un dato di fatto che la storia del rapporto tra l'uomo e le droghe sia la storia delle esperienze, siano esse mistiche, sciamaniche, visionarie o semplicemente voluttuarie, in ogni caso soggettive, che l'uomo ha avuto con le droghe, e l'analisi scientifica, nel senso moderno e "occidentale" del termine, che non tiene conto di questa componente non può che risultare monca.
Droghe tribali, pubblicato da Samorini con la Shake Edizioni, si sofferma proprio su questo rapporto atavico tra l'uomo e "l'esperienza del drogarsi", scardinando molti pregiudizi sul tema e, soprattutto, mostrando come l'uso autodistruttivo delle droghe sia figlio esclusivamente di una fetta della cultura umana: la moderna civiltà occidentale, che lo ha poi "esportato" anche in altre culture.
Droghe tribali è uno studio a tutto tondo sul rapporto tra l'uomo e le droghe nel corso dei secoli che, rispetto ai temi già affrontati negli ultimi articoli, espande il discorso soffermandosi non solo sulle droghe vegetali, ma anche sulle usanze apparentemente più "estreme" che hanno portato, e portano tutt'ora, alcune culture umane ad assumere droghe da fonti differenti: animali, insetti, escrementi e perfino altri esseri umani.
"Ciò che mi spinge a rivolgere l'attenzione del lettore su queste bizzarre dimensioni dell'esperienza umana" scrive Samorini nell'introduzione "non è un mero gusto per il macabro o il ripugnante, bensì l'intenzione di non volermi fermare, nello studio dell'uso umano delle droghe, di fronte ai moralistici concetti di argomenti riprovevoli o inappropriati. Inappropriati lo siamo infinite volte noi, uomini di cultura occidentale, nell'interpretazione e nel giudizio dei comportamenti tribali. Le mie ricerche vanno ovunque ci siano le droghe e l'universalità dell'atto del drogarsi mi porta a studiare anche i comportamenti più estremi presenti nel sesso, nella guerra, nel crimine, nel suicidio, così come nella golosa ricerca di putrefazioni cadaveriche. C'è tanta umanità nei comportamenti estremi, c'è tanta inventiva, genialità fulminea, c'è tanta emozione e non solo sofferenza o fonte di ispirazione moralista, al punto che verrebbe da rivedere il nostro medesimo concetto di estremo" (Droghe tribali, Giorgio Samorini, Shake Edizioni, p. 10).
Abbiamo già visto, nei precedenti articoli, che la rimozione occidentale delle droghe sacre è avvenuta in concomitanza con l'avvento del cristianesimo e nei lunghi e travagliati secoli che ci hanno portato fino all'epoca moderna il "giudizio inquisitoriale" sul tema, preso in eredità dalla giurisprudenza laica, è pressoché rimasto immutato: la droga allucinogena e lo stato alterato di coscienza sono di per se stessi degli atti criminali, indipendentemente dal danno (reale, potenziale o presunto) che possono causare a se stessi o agli altri. Questo pregiudizio di tipo principalmente morale, piuttosto che scientifico o legislativo, si riverbera anche sugli studi storici, religiosi e antropologici, come sottolinea a più riprese Samorini sia in Droghe tribali sia in diverse sue conferenze. Ne consegue che per diversi secoli buona parte degli studi e delle scoperte archeologiche sono stati viziati, e continuano oggi a essere viziati, da questo moderno tabù per le droghe, che soltanto negli ultimi anni sta iniziando a dissiparsi, grazie all'opera di autori coraggiosi come lo stesso Samorini.
Sradicando il pregiudizio moralistico nei confronti delle droghe, ecco che si rivela una nuova storia dell'umanità. Le droghe sono sempre state parte integrante della nostra cultura, per gli scopi più disparati - e anche in una società "drogofoba" come la nostra, le droghe legali sono un motore continuo: si pensi a tabacco, caffeina, teina, zucchero, solo per fare alcuni esempi.
In Droghe tribali questo rapporto di simbiosi è sviscerato anche negli aspetti apparentemente più macabri. Con l'occhio analitico e imparziale dello scienziato, Samorini riesce a penetrare anche nelle usanze apparentemente più "primitive" che rivelano però una sofisticata conoscenza pratica dell'utilizzo dei principi attivi, siano essi vegetali, animali o perfino umani.
Veniamo così a conoscenza di processi estremamente complessi per "domare" i principi attivi, in modo da limitare i danni e potenziare gli effetti psichedelici, come l'usanza, tra gli antichi Olmechi del Messico, di allevare il Bufo marinus, rospo le cui secrezioni ghiandolari possiedono proprietà allucinogene, che veniva dato in pasto alle anatre, uno dei pochi animali in grado di mangiare questa specie di rospo senza subire effetti collaterali, che ne metabolizzavano i principi attivi meno tossici ma più potenti, per poi essere sacrificate e mangiate nei i banchetti sacri, permettendo all'uomo di accedere a questi principi attivi senza avvelenarsi. La scoperta di questo meccanismo è avvenuta proprio riflettendo, senza pregiudizi, sulla costante riproduzione artistica, a scopi sacrali, dei rospi e delle anatre tra i ritrovamenti archeologici legati al popolo Olmeco, ed è probabile che se fosse persistito il tabù nei confronti delle droghe, queste immagini sarebbero state interpretate in maniera esclusivamente superficiale, senza penetrare nel loro significato "pratico", come fonti di estasi visionarie. E' molto probabile che numerose immagini sacre di popoli del passato assumerebbero un altro significato se si sviscerasse il l'effetto concreto sul corpo umano dei soggetti rappresentati e, da questo punto di vista, è molto significativa l'interpretazione di Samorini data alla famosa "coda di rospo" contenuta in molte ricette magiche della stregoneria medievale. Come sostiene l'etnobotanico, gran parte dei principi attivi psichedelici metabolizzati dal rospo si accumulano proprio nel grasso della coda, ed è probabile, dunque, che essa venisse aggiunta non soltanto per superstizione, ma per gli effetti psichedelici e visionari che essa causava.
Da questo punto di vista, uno degli aspetti più interessanti del testo è la capacità di mettere in luce come il rapporto tra l'uomo e le droghe nel corso dei secoli, se non addirittura dei millenni, è consistito in una perpetua oscillazione tra la scoperta di nuovi principi attivi da parte di alcune popolazioni e la dimenticanza, oppure il mutamento del loro uso, quando essi sono stati o repressi o adottati da nuove civiltà, a dimostrazione di come la conoscenza, sia essa scientifica, filosofica, botanica, spirituale, non proceda mai in linea retta, ma di come sia soggetta e continui balzi casuali, ora in avanti ora indietro. Ogni civiltà, in base alla sua "sovrastruttura" sociale, politica e religiosa, è in grado di instaurare rapporti diversi con la medesima droga, ottenendo effetti diametralmente opposti.
I due esempi principali e curiosi sono quelli legati a due sostanze vegetali: la lattuga e il tabacco.
La lattuga selvatica (Lactuga Serriola) è stata per molti anni soggetto di una vera e propria contraddizione etnobotanica: in Europa veniva utilizzata come un sedativo anafrodisiaco mentre in Egitto come un potente afrodisiaco; essa era infatti associata al dio Min, che quando ne mangiava in grandi quantità il suo fallo si erigeva oltre misura, per punire i prigionieri di guerra. Grazie ai suoi studi e alle sue sperimentazioni individuali, Samorini è riuscito a districare questo paradosso:
"Tagliando i fusti di tutte le specie di lattughe [...] fuoriesce un lattice bianco dal sapore amaro, identificato nell'antico Egitto con lo sperma di dio Min. Allo stato fresco questo sperma divino è tossico, ma fatto seccare assume un aspetto simile all'hascisc e ha un odore simil-oppiaceo: si è così ottenuto il lattucario, un'antica medicina usata nel Medioevo europeo come sedativo, analgesico e anafrodisiaco [...] mentre a dosaggi più elevati, subentrano componenti stimolanti o perfino allucinatorie. Questa relazione dose/effetto trova riscontro nella composizione chimico-farmacologica dei principi attivi presenti nella lattuga" (Droghe tribali, Giorgio Samorini, Shake Edizioni, pp. 64-68).
Tutto ciò a dimostrazione di come ogni vegetale, anche quello in apparenza più "semplice" come la lattuga selvatica, possa nascondere, oltre ad antichi e dimenticati usi storici, una farmacologia estremamente complessa, che spesso ha influito sulla storia stessa del rapporto tra l'uomo e queste specie vegetali. Come scrive Samorini, in maniera molto ironica: "Più volte, mangiando la lattuga da orto che mi osserva dalla mia comoda mensa, penso a quelle migliaia di prigionieri di guerra che hanno dovuto subire prolungate sodomizzazioni (l'effetto delle dosi egizie del lattucario dura 7-8 ore) per permettere agli antichi sodomizzatori, gli egiziani, di creare per selezione quella tenera e dolce insalata che passa oggi attraverso la mia bocca. I comportamenti umani a volte, oltre a essere strani, hanno conseguenze imprevedibili" (Droghe tribali, Giorgio Samorini, Shake Edizioni, p. 71).
La seconda storia, quella del tabacco, è ancora più interessante, poiché emblematica della capacità dell'uomo occidentale di profanare e trasformare le droghe sacre per i suoi usi voluttuari, svuotandole del loro significato ma anche della loro potenza sacrale.
Prima della sua "scoperta" del tabacco, avvenuta sulla fine del XV secolo, il tabacco era usato dai nativi americani esclusivamente a scopi sciamanici e religiosi, come tramite per la comunicazione con gli spiriti. E anche in epoca presente il tabacco, perfino nella sua forma "trasmutata" dall'uomo occidentale, viene utilizzato come "supporto" nei rituali con l'Ayahuasca e la Jurema. In entrambi i casi, sia nell'uso storico sia in quello moderno, il tabacco viene utilizzato per suscitare visioni ed espandere la coscienza. Eppure, nella sua forma "volgarizzata" e "commercializzata" dall'uomo occidentale, questi aspetti visionari sono del tutto assenti e, anzi, questa droga pare essere tollerata e diffusa proprio perché in grado di integrarsi con lo stile di vita dell'uomo occidentale moderno e la sua coscienza "normalizzata" e "produttiva", alla stregua del caffè, del thé e dello zucchero.
Da cosa deriva questo paradosso? Come per il lattucario, è solo una questione di dosaggi, o vi sono motivi più profondi alle spalle?
Una delle ipotesi principali è che sia avvenuta una sorta di "selezione artificiale" da parte dell'uomo occidentale, che con gli anni avrebbe selezionato soltanto le specie dagli effetti meno visionari, creando così il "tabacco moderno". Ma, secondo Samorini, a fronte degli esigui studi compiuti in materia, bisogna riconoscere in questa desacralizzazione del tabacco una componente anzitutto culturale.
L'occidentale ha letteralmente stravolto il "set" e il "setting" tipici dell'assunzione sacrale del tabacco. La coscienza rivolta al divino e al sovrasensibile è stata sostituita dalla coscienza materialistica e "cittadina", e le cerimonie sacre e i luoghi rituali sono stati sostituiti dalle "pause relax" e dal momento edonistico fine a se stesso. Come scrive Samorini: "Il modello che ho intravisto [...] si basa sul fatto che la trasformazione in droga sociale di una pianta sacramentale provoca (o completa) la disattivazione dei suoi effetti visionari. Ernst Junger parlava di un "elemento dionisiaco" dell'effetto delle droghe, che la cultura occidentale mano a mano perde nell'uso di queste droghe, e ipotizzava che un affine processo di "addomesticamento" fosse accaduto anche nel vino [...]. Si potrà pensare che sto parlando nient'altro di tolleranza di una droga [...] forse v'è chi amerebbe parlare di "tolleranza sociale" [...]. Forse sto parlando di altro, di un meccanismo fisiologico-sociale che resta tutto da verificare e studiare [...] Tornando al tabacco, come si suol dire, oltre alla beffa, il danno, poiché non solo ci siamo privati delle sue proprietà più propriamente "dionisiache", ma l'abbiamo pure trasformato in uno dei più diffusi veleni di cui, con qualche masochismo peculiare della nostra società, ci nutriamo. Ecco, dunque, fin dove può giungere il processo di disumanizzazione della macchina culturale in cui viviamo, tale da disattivare, in pochi secoli, umani e plurimillenari sacramenti, chiavi esistenziali fondanti il nostro divenire. Di quale vizioso processo di addomesticamento della molecola selvaggia ci stiamo corazzando! [...] Non è da escludere che gli effetti "dionisiaci" di una droga siano disattivati solamente nella loro percezione conscia e vengano comunque esperiti dal sistema mente/corpo. In pratica, noi non ci accorgeremmo più della componente visionaria-dionisiaca degli effetti del tabacco, del caffè e delle altre droghe sociali, ma li vivremmo in toto e continuamente; è come se facessero parte del rumore di fondo mentale, la cui percezione conscia è inibita dalla continua presenza. Ciò porterebbe di conseguenza a una rivisitazione dello stesso concetto di sobrietà, dell'"Io sobrio" [...]" (Droghe tribali, Giorgio Samorini, Shake Edizioni, pp. 98-99).
Questo processo è esemplificativo del rapporto tra l'uomo occidentale moderno e le droghe. Citando una nota tesi dell'antropologo Graham Hancock, è come se in occidente fosse in corso, da secoli, una "guerra alla coscienza", volta a sradicare l'utilizzo delle sostanze enteogene, poiché inconciliabili con i dogmi religiosi, con la società gerarchica o, in epoca presente, con il sistema produttivo-capitalistico, e a privilegiare invece le droghe in grado o di renderlo produttivo, come il caffè, il thé, lo zucchero e il tabacco (nel suo uso desacralizzato) o che ne ottenebrano la coscienza (come l'alcool). D'altronde, come scrive lo stesso Samorini: "Non c'è uomo al mondo più profanatore di se stesso dell'uomo di cultura occidentale e il suo rapporto con i sacramenti è da secoli disastroso" (Droghe tribali, Giorgio Samorini, Shake Edizioni, p. 100).
Droghe tribali, Giorgio Samorini, Shake Edizioni
Immagine: Codex Mendoza
Daniele Palmieri
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