Vi è una tendenza del pensiero a ricondurre tutto all'unità e alla semplicità. Cartesio, grande ispiratore della filosofia moderna, definiva come tratti distintivi delle proposizioni vere il loro essere "chiare e distinte", come se soltanto la luce, la semplicità, la tautologia fossero i tratti distintivi della realtà.
Tuttavia, la realtà spesso sfugge ai sistemi logici e filosofici. Vi sono peculiarità tanto del mondo esteriore quanto del mondo interiore che non possono essere né spiegate né inglobate dalla logica, e che le luci della ragione non potranno mai rischiarare. Per indagare questi aspetti oscuri dell'esistenza, che la rendono complessa, quanto dolorosa e spesso difficili, l'unica soluzione è immergersi a occhi chiusi nell'oscurità stessa, per tentare di carpirne il segreto.
Emil Cioran, filosofo rumeno del 1900, è tra i più grandi fautori di questa filosofia delle tenebre e dell'assurdo.
Cioran è un pensatore della complessità; la sua riflessione è fatta di sfumature di grigio, non è mai bianca o nera, e ciò lo rende estremamente complesso ed estremamente affascinante. Il suo pensiero conduce il lettore in un labirinto chiaroscuro, un insieme di cunicoli sotterranei illuminati dalla fioca luce delle lanterne che gettano ombre sulle pareti. Leggere le sue pagine significa confrontarsi con idee e pensieri torbidi, in grado di farti simpatizzare con la corruzione, la prostituzione, la morte, la decomposizione, il pessimismo e una visione cupa della vita che, paradossalmente, sono però in grado di liberarti ed elevarti. Vi è in Cioran, infatti, una tensione energica seppur cupa e pessimistica, verso una sorta di misticismo del Nulla; una santità senza Dio, una liberazione senza paradiso, una felicità senza gioia, un senso nell'insensatezza, il tutto raggiunto attraverso pensieri e speculazioni a-sistematici, sempre slegati gli uni dagli altri ma legati soltanto dal medesimo sentimento di fondo.
In Cioran, il pensiero filosofico non è una speculazione astratta, né il tentativo di comprendere il mondo con i dettami della logica. Esso nasce da un sentimento viscerale, è un tutt'uno con il corpo, con le sue malattie, i suoi dolori, le sue emozioni, la sua sofferenza. Senza un corpo, non sarebbe possibile pensare. Non soltanto perché per avere una mente è necessario avere un corpo, ma soprattutto perché è dal malessere, dalla sensazione incarnata della "malattia di vivere" che nasce il pensiero. Un uomo che non ha mai sofferto o che non ha mai gioito sarebbe incapace di produrre pensieri degni di essere letti.
Come scrive in Sommario di decomposizione:
"Un'indigestione non è forse più ricca di idee di quanto non lo sia una sfilza di concetti? Le disfunzioni degli organi determinano la fecondità dello spirito. Colui che non sente il proprio corpo non sarà mai in grado di concepire un pensiero vivo" (pp. 126).
Per questo Cioran predilige l'aforisma e la meditazione soggettiva, piuttosto che il trattato filosofico. Le meditazioni e gli aforismi, per la loro stessa natura disconnessa, sono in grado di cogliere ogni sfaccettatura del reale, anche le prospettive contraddittorie che invece ogni sistema filosofico astratto e logico cerca di eliminare. L'aforisma rappresenta alla perfezione il pensiero vivo e vissuto di cui Cioran è alla ricerca; esso nasce sempre dall'emozione del momento, sulla scia di una gioia o un malessere, non può mai essere pensato in astratto e "a tavolino".
Scrive in Al culmine della disperazione:
"All'uomo astratto, che pensa per il piacere di pensare, si contrappone l'uomo organico, che pensa sotto l'effetto di uno squilibrio vitale, e che è al di là della scienza e dell'arte. Amo il pensiero che conserva un profumo di sangue e carne, e a una vuota astrazione preferisco mille volte una riflessione sorta da un'esaltazione dei sensi o da una depressione nervosa. [...] Perché non vogliamo accettare il valore delle verità vive, che si generano in noi e rivelano realtà e valori che fanno parte di noi?".
Da tale prospettiva, il pensiero autentico non può che essere occasionale. Cioran stesso si definisce un "pensatore d'occasione", proprio perché non fu mai lui a cercare le idee, ma si limitò ad attenderle e a trascriverle sulla scia di insonnie e dolori:
"Vivo nell'attesa dell'Idea; la sento, la intuisco, la colgo - e non posso formularla. [...] Antifilosofo quale sono, aborro qualsiasi idea indifferente: non sono sempre triste, dunque non penso sempre. Quando guardo le idee, mi sembrano ancora più inutili delle cose; perciò ho amato soltanto le elucubrazioni dei grandi malati, le rimuginazioni dell'insonnia, i lampi di terrore incurabile e i dubbi attraversati dai sospiri. La quantità di chiaroscuro contenuto in un'idea è l'unico indice della sua profondità, così come l'accento disperato della sua gaiezza è l'indice della fascinazione. Quanti notti bianche nasconde il suo passato notturno? Questo dovremmo chiedere a ogni pensatore. Colui che pensa quando vuole non ha niente da dirci [...]. Diverso è il caso di uno spirito per il quale il vero e il falso abbiano smesso di essere superstizioni: la gloria di un malessere o di un delirio gli basta" (Sommario di decomposizione, pp. 125-126).
Secondariamente, l'aforisma e il pensiero a-sistematico permettono di evitare la trappola del fanatismo e del "profetismo", in cui cadono molti filosofi o religiosi che credono di aver trovato la verità, e che si tronfiano di certezze che invece non possiedono, illudendo così loro stessi, gli altri e divenendo un pericolo per il mondo. Ogni presunta verità tende infatti a diventare totalitaria e violenta.
Come scrive nell'incipit di Sommario di decomposizione:
"In se stessa ogni idea è neutra, o dovrebbe esserlo; ma l'uomo la anima, vi proietta i propri ardori e le proprie follie; impura, trasforma una convinzione, essa si inserisce nel tempo, assume forma di evento: il passaggio dalla logica all'epilessia è compiuto... Nascono così le ideologie, le dottrine e le farse cruente. Idolatri per istinto, noi convertiamo in Incondizionato gli oggetti dei nostri sogni e dei nostri interessi. [...] Mi basta di sentire qualcuno parlare sinceramente di ideale, di avvenire, di filosofia, sentirlo dire "noi" con tono risoluto, invocare gli altri e ritenersene l'interprete perché io lo consideri un nemico. Scorgo in lui un tiranno mancato" (pp. 13-16).
Il mondo stesso può essere descritto soltanto per contraddizioni, senza la pretesa di giungere a una conclusione definitiva, poiché la sua natura più intima è l'Assurdo. Viviamo in "un mondo in cui mai niente è risolto", citando il titolo introduttivo a una delle meditazioni di Al culmine della disperazione, non solo perché l'uomo, in quanto essere finito e imperfetto, non potrà mai giungere a una risoluzione, ma proprio perché nell'esistenza non vi è alcuna soluzione o realizzazione da cercare. L'essere esiste, ma potrebbe anche non esistere; in entrambi i casi, non ci sarebbe un senso, e questo limbo dell'insensatezza in cui nessuna alternativa è migliore di un'altra conduce inevitabilmente a un pessimismo cosmico.
Il pessimismo di Cioran di fronte alla vanità dell'Essere, alla sua assurdità e alla sua insignificanza lo fa spesso cadere nell'inedia e nello sconforto. Perché agire se nulla ha senso, se ci trasciniamo in un limbo in cui ci spaventa vivere, per tutte le sofferenze e le paure che ci attanagliano, ma allo stesso tempo ci spaventa anche morire, poiché così radicato in noi è il malato amore per la vita?
In questo limbo, i giorni si trascinano vanamente, uno dopo l'altro, ma paradossalmente è proprio in questo sconforto che Cioran riesce a cogliere bagliori di estasi mistica, in grado di liberarlo. Se la vita è questo trascinarsi tra nascita e morte, è nell'intensità della creazione e del crepuscolo che riesce a trovare una liberazione e un vago senso a tutto il tormento. Ciò che più lo colpisce dell'esistenza è l'energia, la potenza della creazione della vita, pur nella sua insensatezza, e allo stesso tempo la decadenza del crepuscolo, di cui la caduta rovinosa, meravigliosa e allo stesso tempo pietosa degli Imperi è una grande metafora.
Nell'emozione sprigionata da questi attimi di passaggio, che sono in grado di smuovere sentimenti profondi proprio perché scuotono la vita dal suo sempre identico torpore, Cioran cerca l'eterno, un sentimento in grado di far trascendere l'uomo dalla quotidianità, da un lato mostrandogli l'insensatezza della vita, e dall'altro spalancandogli sotto i piedi il baratro senza fondo del Nulla, che spaventa e affascina. Il Nulla, pozzo che tutto inghiotte, libera l'uomo dal tempo, dal limbo della morte-in-vita. Scrive Cioran:
"Ieri, oggi, domani sono categorie a uso dei servi. Per l'ozioso insediato sontuosamente nella Sconsolatezza e afflitto da ogni istante che scorre, passato, presente, futuro non sono altro che parvenze variabili di uno stesso male, identico nella sostanza, inesorabile nel suo insinuarsi e monotono nel suo persistere. E questo male è coestensivo all'essere, è l'essere steso. Fui, sono, sarò sono una questione di grammatica e non di esistenza [...] L'equivoco in cui vivono i servi - e qualsiasi uomo aderisca al tempo è un servo - rappresenta un vero stato di grazia, un oscuramento incantato [...]. Ma per l'ozioso disingannato, il semplice fatto di vivere, il vivere esente da ogni fare, è una fatica così estenuante che sopportare l'esistenza qual è gli sembra un mestiere ingrato, una carriera sfibrante - e ogni gesto supplementare impraticabile e irrilevante" (Cioran, Sommario di decomposizione, pp. 74-74).
Si tratta, spesso, di una sensazione momentanea; è questo il grande paradosso del cupo misticismo ateo di Cioran. L'eterno può essere colto soltanto nel finito. Cogliendo l'eternità nella nostra finitezza, essa ci scivola tra le mani abbandonandoci soli, con un vago senso di inquietudine e piccolezza, e l'estasi non è mai dunque definitiva, come quella dei santi, ma ad essa bisogna sempre anelare, e finché non la si vivere si è condannati a percepire l'irrealtà di tutto ciò che ci circonda. Da ciò deriva l'inedia, la volontà di abbandonarsi e trascendere non solo la vita quotidiana, ma la storia nella sua interezza, per fuggire dal tempo:
"Non capisco perché dovrei continuare a vivere nella storia, condividere gli ideali della mia epoca e preoccuparmi della cultura o dei problemi sociali. [...] Non voglio sapere più niente. Superando la storia si realizza la sovracoscienza, indispensabile per l'esperienza dell'eternità. Essa conduce in una regione dove le antinomie, le contraddizioni e le incertezze del mondo non hanno più alcun valore, dove non si sa più di esistere né di morire" (Emil Cioran, Al culmine della disperazione, pp. 80-81).
In questa oscurità passata nell'attesa, vi sono però lampi di luce. Uno di questi è l'amore. Potrebbe sembrare una affermazione banale, ma Cioran, con la sua poesia, è in grado di rendere questo concetto estremamente profondo. L'amore è la forza che dilania, che nella gioia e nella sofferenza che è in grado di far patire all'uomo lo conduce sempre in quel territorio chiaroscuro, proprio dell'alba e del crepuscolo, in cui tutto è più intenso, più energico, più vivo. Non si tratta dunque dell'amore paradisiaco e immobile, né di quello semplicistico delle favole, ma dell'amore che travolge e che tuttavia rende la vita intensa, dà senso all'insensatezza, ma non un senso "assolutistico", come quello dei sistemi filosofici. Dona alla vita il senso dell'intensità, la medesima sensazione donata dall'estasi mistica del vuoto e del nulla, ma in questo caso volta verso l'oggetto della nostra passione, che può estendersi a dismisura fino a inglobare ogni cosa che esiste. Scrive Cioran nella conclusione di Al culmine della disperazione, in una inedita prosa rassicurante e positiva:
"La sola cosa che possa salvare l'uomo è l'amore. E se molti hanno finito per trasformare in banalità questa asserzione, è perché non hanno mai amato veramente. Avere voglia di piangere quando si pensa agli uomini, di amare tutto in un sentimento di suprema responsabilità, sentirsi invasi dalla melanconia al pensiero delle lacrime che ancora non si sono versate per gli uomini, ecco che cosa significa salvarsi attraverso l'amore, la sola fonte di speranza. Per quanto combatta al culmine della disperazione, non vorrei né potrei rinunciare all'amore neppure se la disperazione e la tristezza oscurassero la fonte luminosa del mio essere [...]. In questo mondo ogni cosa può farmi cadere, tranne l'amore. E anche se al tuo amore si rispondesse con disprezzo o indifferenza, anche se tutti ti abbandonassero e la tua solitudine fosse senza appello, i raggi del tuo amore che non sono potuti penetrare negli altri per illuminarli o rendere la loro tenebra più misteriosa si rinfrangeranno per ritornare in te, perché nell'istante dell'ultimo abbandono il loro fulgore ti faccia luce e le loro vampe ti riscaldino. Allora le tenebre non saranno più un'attrazione irresistibile, e la visione della profondità smetterà di darti le vertigini" (Al culmine della disperazione, pp. 147-148)
Daniele Palmieri
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