lunedì 27 febbraio 2017

L'Eraclito di Nietzsche

Non sono molte le personalità filosofiche che Nietszche stimò per tutta la vita; un posto privilegiato nel suo pantheon è sicuramente dedicato ad Eraclito, uno dei pochi filosofi presocratici da lui stimato, a tal punto da reputarlo un suo predecessore. A Eraclito Nietzsche dedica parole appassionate sia ne La filosofia nell'epoca tragica dei greci sia ne I filosofi preplatonici, una serie di lezioni da lui tenute sulla filosofia antica.
Secondo Nietzsche, il carattere elitario del filosofo deriva non solo dalla sua appartenenza all'aristocrazia politica, ma soprattutto dal fatto che egli si considerava l’unico possessore della verità. 
L’autoammirazione di Eraclito, però, non ha nulla di religioso, come in Pitagora che si considerava figlio di Asclepio. Si autoammira perché intorno vede soltanto stoltezza e follia, si sente come l’oracolo di Delphi e, sempre come l'oracolo, cela le sue verità "sotto il velame del li versi strani" (come dirà Dante parlando degli insegnamenti esoterici inseriti nella sua Commedia), poiché soltanto chi è in grado di riconoscere la verità è degno di vederla.
Per questo Eraclito odia tutto ciò che è popolare e volgare, come Omero ed Esiodo, che hanno formato generazioni di giovani con le loro menzogne spacciandole per verità eterne e, soprattutto, perché non sono stati in grado di riconoscere l’unitarietà degli opposti. 
Per Eraclito la vita è un movimento eterno e le regole che lo determinano sono costanti e unitarie. L’una è terribile quanto l’altra esaltante. La velocità del movimento è qualcosa di soggettivo, come nell’ipotesi del naturalista Von Bar secondo il quale la durata è soltanto la velocità con cui noi percepiamo le cose. L’immutabilità non esiste, è solo una questione di percezione. E’ la stessa percezione intuitiva di Eraclito che plasma le sue sentenze; nulla è, tutto è un continuo divenire, anche se noi percepiamo l’immutabilità di alcune cose. L’uno, che sempre diviene, è legge di per sé. L’immutablità sta nella necessità del divenire. Vi è, in questa concezione, una relazione con Anassimandro ma, rispetto a quest'ultimo, l’Uno deve avere tutte le qualità e si manifesta nella molteplicità, mentre nel primo nell’indeterminatezza. Eraclito inventa dunque una nuova cosmodicea. Questa cosmodicea avviene tramite la lotta perenne degli opposti, che in realtà formano un’unica armonia. 
L’eterno divenire ha questo duplice aspetto; da un lato terrorizza, ma dall’altro è grandioso, sublime. Altra relazione con Anassimandro è quella del fuoco; per entrambi il Sole si rinnova ogni giorno per la sua costituzione fisica, non è mai lo stesso. Terza concordanza è quella delle ipotesi delle periodiche fini del mondo, la teoria dell’eterno ritorno. Ed è il fuoco, in entrambi, a condannare tutte le cose. Tutti i dolori e gli affanni svaniscono nella contemplazione invisibile del Dio che osserva il divenire. Bene e male sono relativi al soggetto che esperisce. Il saggio si pone a un livello superiore, lo stesso livello del dio. L’universo crea e distrugge è come un fenomeno artistico o il gioco di un bambino. In Eraclito vi è una considerazione puramente estetica, non c’è un ordine morale come accade invece in Anassimandro per il quale il nascere è una colpa da espiare. Egli si considera sapiente proprio perché in grado di contemplare questo processo, ponendosi al di là delle cose e al di là della limitata prospettiva umana. La sua è un’intuizione che abbraccia tutto, come quella dell’artista e come il gioco di un artista o di un bambino è il divenire del mondo, cosa impensabile in Anassagora dove invece tutto è ordinato. Eraclito non conosce morale, poiché il destino dell’uomo è insito nel suo carattere. Non è un pessimista, lo è solo nella misura in cui non si è soddisfatti della sua visione del cosmo. Non è un ottimista perché non nega dolore e irrazionalità. Ed è proprio per questo che Nietzsche lo considera il suo primo predecessore: Eraclito è stato il primo ad andare al di là del bene e del male.

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Daniele Palmieri

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