Lo stretto legame tra filosofia e vita delle scuole ellenistiche e romane
Marco Aurelio, imperatore e filosofo stoico |
Per le
scuole Ellenistiche e Romane accostarsi alla Filosofia significava sconvolgere
il proprio stile di vita; era una vera e propria conversione laica che
permetteva di passare da una vita inautentica a una vita autentica. Passaggio
possibile solamente acquisendo la consapevolezza delle proprie azioni e dei
propri desideri; si poteva così cominciare a vivere, ossia comprendere per cosa
vale la pena farlo e agire di conseguenza.[1] Un agire che diventa
essenzialmente agire etico, poiché l’azione etica è l’unica che possa dipendere
dalla nostra volontà. Con l’acuirsi della consapevolezza dell’altro e di un
Mondo dai confini indefiniti, si passa da una prospettiva egocentrica e
antropocentrica a una cosmopolitica e universale, che spianerà la strada
all’ideale di humanitas importato
dalla Grecia nell’Impero Romano dal circolo degli Scipioni.[2]
Tuttavia,
questa variazione di prospettiva non è per nulla semplice, poiché essa
rivoluziona la concezione che si ha non solo del Cosmo, ma anche della realtà
interiore e della realtà sociale, in particolar modo dei nostri doveri verso
gli altri e delle nostre esigenze.
Il
cambiamento non può essere conquistato da un giorno all’altro, ma richiede
inevitabilmente un esercizio costante volto a plasmare lo spirito del singolo e
a fargli acquisire il pieno controllo delle proprie facoltà razionali.
Ciò è
possibile tramite l’acquisizione di principi etici che non devono mai
abbandonare il filosofo per l’intero decorso della sua esistenza; perciò essi
devono essere semplici e immediati e devono rifarsi a un principio comune,
fondamento e allo stesso tempo fine della propria vita. Tali principi devono
permettere al filosofo di possedere in ogni momento il pieno controllo delle
proprie facoltà, dimodoché le sue azioni siano sempre dettate non dall’impulso
ma dalla libera volontà.[3] È lo stesso concetto che
si trova già espresso ne l’Etica
Nicomachea di Aristotele, in cui il Filosofo sostiene che l’uomo virtuoso è
colui il quale agisce liberamente scegliendo la virtù, non perché costretto
dalla legge, ma poiché comprende che essa è la migliore tra le scelte
possibili; l’uomo virtuoso, di conseguenza, è felice poiché il suo fine è la
virtù in sé e non il proseguimento della virtù per scopi egoistici.
Una
vigilanza del genere implica un controllo assiduo sul momento presente, poiché
la pratica della virtù è tale soltanto se esercitata con costanza e non a
intervalli irregolari.[4]
Ed è qui che
entrano in gioco gli esercizi spirituali prescritti dallo Stoicismo. Purtroppo,
non sono stati tramandati trattati sistematici che descrivano con precisione
questo tipo di esercizi; tuttavia, è possibile rifarsi alla testimonianza di
Filone di Alessandria, che ne L’erede
delle cose divine elenca le diverse fasi da percorrere.[5]
Le prime
fasi, che possiamo riunire in un unico gruppo, sono composte dalla ricerca, dall’esame approfondito, dalla lettura,
dall’ascolto e dall’attenzione. Come è possibile notare, i
primi esercizi sono prettamente “passivi”, dedicati all’apprendimento dello
stile di vita della Stoà mediante uno studio approfondito, sia tramite la
lettura e una comprensione profonda dei libri della scuola sia ascoltando e
prestando attenzione alle parole dei maestri. È il primo gradino dell’iniziato
alla Filosofia, apparentemente il più semplice ma in realtà molto importante;
la Sophia tramandata dalla scuola
deve penetrare nella propria vita e legarsi indissolubilmente a essa. Ogni
branca del sapere trasmesso è tesa al perfezionamento interiore, la cui
immagine più esplicativa è quella, sempre dello Stoicismo, che vede la
Filosofia come un organismo in cui la Logica sono le ossa, la Fisica il corpo e
l’Etica la mente. Assumendo tale prospettiva, il novizio che studia gli
insegnamenti della Stoà comincia a irrobustire le ossa e il corpo, requisito
essenziale per riuscire a sviluppare una mente in grado di dirigere in maniera
compiuta le sue azioni.
Il secondo
gruppo comprende invece il dominio di sé,
l’indifferenza verso le cose indifferenti,
la meditazione, la terapia delle passioni, il ricordo di ciò che è bene e il compimento dei doveri. Si entra nella
parte più importante dell’esercizio spirituale dello Stoicismo; l’allievo è
tenuto a mettere in atto ciò che ha appreso mediante una pratica continua che
lo porti ad avere il perfetto controllo sulle proprie azioni.
Il dominio
di sé si rivela, dunque, l’aspetto essenziale dell’insegnamento, e ogni sforzo
è teso in tale direzione. Dominio che si deve attuare innanzitutto prendendo le
redini della parte della nostra anima più incontrollabile: le passioni.
Sia nello
Stoicismo sia nell’Epicureismo la Filosofia è un pharmakos volto a lenire il dolore provocato dalle passioni, un
male spirituale molto più grave del male fisico, poiché se quest’ultimo ci è
assegnato dalla sorte, il primo siamo noi a volerlo e, allo stesso tempo, è
nostro dovere estirparlo. Se prima non si guarisce da questa malattia è impossibile
poter agire moralmente all’interno della comunità, per poter migliorare non
solo se stessi ma anche il mondo sociale che ci circonda.
Tale
guarigione vuole stimolare un senso di felicità più profondo, indipendente dai
beni esterni e da tutto ciò che è fugace, una semplice ma autentica gioia di
esistere, che aiuta l’uomo a liberarsi delle proprie paure infondate e dalle
preoccupazioni che gli sottraggono non soltanto il tempo, ma soprattutto la
forza vitale.[6]
In questa
direzione, diventa di primaria importanza un esercizio citato in precedenza: la
meditazione, da non confondere con la
meditazione propugnata da un certo orientalismo semplificatore che ne ha ormai
stereotipato la pratica.
La
meditazione all’interno dello Stoicismo e, in generale, delle scuole di vita,
si attua in modalità completamente diverse dal concetto comune di meditazione.
Essa si
pratica in due modi: con un perpetuo
soliloquio con se stessi e con la contemplazione
consapevole della natura.
Per quanto
riguarda il primo esercizio, una delle descrizioni migliori è quella che dà
Seneca nel De ira:
«Io mi avvalgo di questa possibilità, e mi metto sotto processo ogni giorno. Quando hanno portato via la lucerna e mia moglie, che conosce la mia abitudine, tace, io scruto l’intera mia giornata e controllo tutte le mie parole e azioni, senza nascondermi nulla. […] Diamo pace al nostro animo, quella pace che deriva dalla continua meditazione dei dettami salutari, dalle azioni buone e da una mente intenta a desiderare solo la virtù. Pensiamo a soddisfare la nostra coscienza, senza preoccuparci della fama.»[7]
Esso consiste in un continuo dialogo interiore, per riportare alla mente i principi della scuola e vagliare la propria psyché per assicurarsi dei risultati raggiunti. In questa prospettiva la scrittura stessa diviene una forma di meditazione, un diario personale espressione di un continuo ruminare (utilizzando un termine nietzschiano), con lo scopo di assorbire gli insegnamenti filosofici e vagliare i propri progressi. Emblema di tale forma di esercizio sono le Lettere a Lucilio, sempre dello stesso Seneca, che prima ancora di essere lettere indirizzate all’amico erano meditazioni che il filosofo romano riservava a se stesso.
Esso consiste in un continuo dialogo interiore, per riportare alla mente i principi della scuola e vagliare la propria psyché per assicurarsi dei risultati raggiunti. In questa prospettiva la scrittura stessa diviene una forma di meditazione, un diario personale espressione di un continuo ruminare (utilizzando un termine nietzschiano), con lo scopo di assorbire gli insegnamenti filosofici e vagliare i propri progressi. Emblema di tale forma di esercizio sono le Lettere a Lucilio, sempre dello stesso Seneca, che prima ancora di essere lettere indirizzate all’amico erano meditazioni che il filosofo romano riservava a se stesso.
La funzione
propedeutica della scrittura si rivela in forma ancora più accentuata nei Ricordi di Marco Aurelio, che
rappresentano un prezioso esempio di come la meditazione filosofica scritta
fosse un esercizio precisamente strutturato.[8]
Scrive
infatti Hadot:
«I pensieri di Marco Aurelio […] ci conservano un notevole esempio di un genere letterario che doveva essere molto frequente nell’antichità, ma che il suo stesso carattere destinava a scomparire facilmente: gli esercizi di meditazione affidati a un testo scritto. Come vedremo ora, le formule pessimistiche di Marco Aurelio non sono l’espressione delle opinioni personali di un imperatore deluso, sono esercizi spirituali praticati secondo metodi rigorosi.»[9]
Difatti, oltre al vaglio dei propri progressi, un secondo esercizio di scrittura meditativa, ricorrente nei Ricordi, consiste nell’isolare col pensiero un momento di continuità temporale, anche un semplice avvenimento di vita quotidiana, per poi passare dalla parte al tutto. Lo scopo è inquadrare tale avvenimento in una visione complessiva del cosmo, prendendo così coscienza sia della vanità delle cose sia dell’importanza di cogliere al meglio il momento presente:
«I pensieri di Marco Aurelio […] ci conservano un notevole esempio di un genere letterario che doveva essere molto frequente nell’antichità, ma che il suo stesso carattere destinava a scomparire facilmente: gli esercizi di meditazione affidati a un testo scritto. Come vedremo ora, le formule pessimistiche di Marco Aurelio non sono l’espressione delle opinioni personali di un imperatore deluso, sono esercizi spirituali praticati secondo metodi rigorosi.»[9]
Difatti, oltre al vaglio dei propri progressi, un secondo esercizio di scrittura meditativa, ricorrente nei Ricordi, consiste nell’isolare col pensiero un momento di continuità temporale, anche un semplice avvenimento di vita quotidiana, per poi passare dalla parte al tutto. Lo scopo è inquadrare tale avvenimento in una visione complessiva del cosmo, prendendo così coscienza sia della vanità delle cose sia dell’importanza di cogliere al meglio il momento presente:
«Nulla può accadere a nessun uomo che non sia vicenda pertinente all’ordine umano. Del resto a un bove nulla può accadere che non sia bovino; a una vigna nulla che non appartenga all’ordine delle viti; né a una pietra cosa estranea all’ordine petrigno.
Conseguenza: se a ciascuna cosa accade sempre quello che rientra nell’ordine suo normale e nell’ordine naturale, per quale motivo dovresti tu fare il difficile?
Vedi bene che la comune natura non intende recarti nulla che tu non possa sopportare.»[10]
Citando le
parole di Epitteto riportate nel Manuale:
«Non dire mai di nessuna cosa: “l’ho persa”, ma “l’ho restituita”. È morto tuo figlio? È stato solo restituito. È morta tua moglie? È stata solo restituita. “Mi è stato tolto il podere”: no, anche questo è stato solo restituito. “Ma chi me l’ha portato via è un malvagio”: che cosa ti importa attraverso chi, colui che te lo aveva dato, ne ha chiesto la restituzione. Finché te lo concede, abbine cura come di una cosa altrui, come fanno i viaggiatori in una locanda.»[11]
Al di là del soliloquio con se stessi vi è la contemplazione della natura, che nella visione filosofica antica consisteva nello studio della fisica e degli eventi naturali.
«Non dire mai di nessuna cosa: “l’ho persa”, ma “l’ho restituita”. È morto tuo figlio? È stato solo restituito. È morta tua moglie? È stata solo restituita. “Mi è stato tolto il podere”: no, anche questo è stato solo restituito. “Ma chi me l’ha portato via è un malvagio”: che cosa ti importa attraverso chi, colui che te lo aveva dato, ne ha chiesto la restituzione. Finché te lo concede, abbine cura come di una cosa altrui, come fanno i viaggiatori in una locanda.»[11]
Al di là del soliloquio con se stessi vi è la contemplazione della natura, che nella visione filosofica antica consisteva nello studio della fisica e degli eventi naturali.
Lungi
dall’essere un semplice interesse di eruditismo o, come nei giorni nostri, un
mero strumento in mano allo scientismo, lo studio della fisica era un gradino
di elevazione spirituale, che proprio nella sua componente contemplativa
permetteva all’animo di nobilitarsi, di astrarsi dalle questioni volgari
quotidiane per innalzarsi a un livello di coscienza superiore. Come scrive
Seneca in una lettera a Lucilio:
«Perché mai, tu dici, ti piace consumare il tempo in codesti problemi che non ti tolgono alcun tormento dell’animo, che non annullano alcun desiderio importuno? Quanto a e, affronto e porto avanti preferibilmente quei temi con cui l’animo si placa, e analizzo dapprima me stesso, poi l’universo. Nemmeno ora perdo tempo, come tu credi: di fatti, tutti questi argomenti, purché non vengano sminuzzati e distorti da varie sottigliezze, elevano e confortano l’animo, che, oppresso da un greve fardello, desidera liberarsene e tornare a quegli elementi di cui era stato parte integrante.»[12]
La contemplazione consapevole della natura e la dissoluzione razionale della propria psyché in essa (e non più estatica come nei culti misterici) libera l’uomo dalle sue catene e allo stesso tempo infonde in lui il piacere della conoscenza, nonché il piacere estetico delle bellezze naturali, dell’ordine intrinseco del cosmo espressione del Lògos divino che regola ogni cosa. In quest’ottica, gli esempi principali sono il De rerum naturae di Lucrezio e le Naturales quaestiones di Seneca.
«Perché mai, tu dici, ti piace consumare il tempo in codesti problemi che non ti tolgono alcun tormento dell’animo, che non annullano alcun desiderio importuno? Quanto a e, affronto e porto avanti preferibilmente quei temi con cui l’animo si placa, e analizzo dapprima me stesso, poi l’universo. Nemmeno ora perdo tempo, come tu credi: di fatti, tutti questi argomenti, purché non vengano sminuzzati e distorti da varie sottigliezze, elevano e confortano l’animo, che, oppresso da un greve fardello, desidera liberarsene e tornare a quegli elementi di cui era stato parte integrante.»[12]
La contemplazione consapevole della natura e la dissoluzione razionale della propria psyché in essa (e non più estatica come nei culti misterici) libera l’uomo dalle sue catene e allo stesso tempo infonde in lui il piacere della conoscenza, nonché il piacere estetico delle bellezze naturali, dell’ordine intrinseco del cosmo espressione del Lògos divino che regola ogni cosa. In quest’ottica, gli esempi principali sono il De rerum naturae di Lucrezio e le Naturales quaestiones di Seneca.
Dalla
meditazione e dalla contemplazione si passa poi all’esercizio della vita
attiva, nel già citato controllo di sé,
nell’indifferenza verso ciò che è caduco e
soprattutto nel compimento dei propri
doveri.[13]
Quest’ultimo
passo è fondamentale; senza l’applicazione concreta nelle azioni la filosofia
resta un vano esercizio. Sarà proprio la capacità dello Stoicismo nel dettare
ben precise condotte di vita a far diventare tale filosofia la scuola dove si
formerà l’intera classe dirigente dell’Impero Romano. Difatti, il proprio
dovere consiste essenzialmente nell’agire morale ne confronti del prossimo e,
di conseguenza, in una vita impegnata al perfezionamento degli altri e di sé,
con la partecipazione alla vita pubblica. In tale prospettiva il dovere viene
prima del diritto e, anzi, il diritto è una diretta conseguenza del dovere.
Soltanto
l’uomo che agisce seguendo la libera ma necessaria volontà morale adempie al
proprio dovere e, di conseguenza, comprende qual è il suo ruolo nella società e
cosa ha il diritto di fare e di volere.
Una volta
indirizzato su questa strada, il compito del filosofo è appena cominciato; gli
anni dinnanzi a lui sono lunghi e il suo compito è praticare gli insegnamenti
con costanza, senza mai sviare dalla strada né perdere di vista i propri punti
fermi, soprattutto senza perdere la capacità di meravigliarsi poiché:
«a un uomo saggio rimarrà sempre qualcosa da scoprire, da portare alla luce, qualche verità in cui l’animo possa spaziare.»[14]
«a un uomo saggio rimarrà sempre qualcosa da scoprire, da portare alla luce, qualche verità in cui l’animo possa spaziare.»[14]
Daniele Palmieri
[7]
Seneca, De ira, III 36, 3; 41, 1,
trad. di A. Marastoni in Tutte le opere,
a cura di G. Reale, Bompiani (2000), pp. 115, 117.
[8]
P. Hadot, La fisica come esercizio
spirituale, in Esercizi spirituali di
filosofia antica, Einaudi, pp. 119-133.
[10]
Marco Aurelio, Ricordi VIII, 46,
trad. di Enrico Turolla, Biblioteca Universare Rizzoli (1997), Milano 2004, pp.
329.
[12]
Seneca, Lettere a Lucilio VII 65, a
cura di Fernando Solinas, Mondadori (1994), Torino 2011, pp. 180.
[14]
Seneca, Lettere a Lucilio XVII 109, a
cura di Fernando Solinas, Mondadori (1994), Torino 2011, pp. 464.
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