lunedì 23 maggio 2016

Adam Smith e la nascita della disuguaglianza sociale

Adam Smith è conosciuto soprattutto per essere stato il fondatore della moderna scienza economica, con la sua opera più conosciuta e commentata: La ricchezza delle nazioni.
In pochi conoscono la sua attività più prettamente filosofica, in linea con la tradizione illuministica scozzese che ha in Hume uno dei suoi capisaldi. In particolare, è poco letta e commentata (almeno in Italia) un'opera altrettanto innovativa e attuale per la discussione filosofica contemporanea, ossia la Teoria dei sentimenti morali
Ne la Teoria dei sentimenti morali, Adam Smith propone una teoria prettamente descrittiva e naturalistica della nascita della morale. La sua è una teoria aliena da qualsiasi influenza teologica o normativa, poiché il suo scopo non è quello di stabilire cosa gli uomini devono fare o non fare, bensì descrivere da osservatore esterno, tramite esempi tratti dall'esperienza quotidiana, come nasce spontaneamente la morale e qual è il suo fondamento naturale.
Tra le tante intuizioni originali, particolarmente interessante è la sua teoria sulla nascita della disuguaglianza sociale e di come lo status quo venga giustificato dagli stessi "strati inferiori" della società. 
Per comprendere la concezione di Smith sulla disuguaglianza sociale occorre prima esporre la sua teoria generale sulla nascita della morale.
Come nasce, dunque, la morale?
Nella sua trattazione, Smith si inserisce nello storico filone del sentimentalismo morale, posizione filosofica secondo cui la morale affonda le sue radici nei sentimenti e nelle emozioni umane.
In particolare, secondo la concezione di Smith due sono i sentimenti principali sui quali si fonda la morale umana: il sentimento di approvazione e quello di disapprovazione. 
Questi sentimenti sorgono quando siamo inseriti in un contesto sociale e possiamo vivere e osservare le dinamiche interpersonali che si instaurano tra gli uomini. Da un lato, essi ci vengono "impartiti" con l'educazione che riceviamo dai familiari e dalle persone a noi vicine. Se compiamo un'azione che i nostri familiari reputano "scorretta", otteniamo la loro disapprovazione, che suscita in noi un'emozione negativa, e a lungo andare comprendiamo che quell'azione non è da fare non solo perché suscita disapprovazione ma perché, appunto, "scorretta". In secondo luogo, il senso morale nasce spontaneamente nel momento stesso in cui osserviamo le dinamiche che avvengono attorno a noi. 
Se siamo testimoni di una violenza immotivata, percepiamo un'emozione negativa e automaticamente bolliamo l'azione commessa nei confronti della vittima come "sbagliata", perché mina l'integrità personale. 
Tuttavia, perché sorge questo sentimento negativo? In fin dei conti, non siamo noi la vittima dell'azione.
Secondo Smith, ciò avviene perché gli umani sono dotati di una facoltà peculiare, la "simpatia". Non bisogna confondere questo termine con l'accezione usata comunemente; con "simpatia" si intende, in questo caso, la capacità di immedesimarsi nella prospettiva altrui per provare ciò che l'altro sta vivendo come se fossimo noi a viverlo. 
In altri termini, nel momento in cui vediamo una persona vittima di violenza, proviamo un'emozione negativa poiché ci immedesimiamo in quella persona e immaginiamo cosa proveremmo se ci trovassimo nella sua posizione. Proviamo dunque un'emozione negativa e, di conseguenza, un sentimento di repulsione nei confronti della violenza, che diventa un'azione moralmente scorretta.
Questo sentimento simpatetico è una connessione invisibile che lega tutti gli uomini, tanto nelle disgrazie quanto nella felicità. Condividiamo con gli altri sia i dolori sia le gioie, e questa condivisione è allo stesso tempo fonte di piacere per la persona che prova dolore o per quella che gioisce. Nel primo caso, infatti, sentiamo di avere un sostegno su cui contare ed è come se il nostro dolore venisse "diluito"; nel secondo caso perché la gioia condivisa è come se si moltiplicasse.
Date queste premesse, è possibile esporre la teoria di Smith sulla nascita della disuguaglianza sociale.
Tutto ha inizio da due fattori: l'ambizione alla felicità posseduta da ogni uomo e la naturale propensione a condividere la gioia e il successo poiché, come appena detto, una gioia condivisa è molto più appagante di una felicità tenuta nascosta.
Cosa si intende comunemente per "felicità"? Nell'accezione volgare, certamente quella più diffusa, la felicità è spesso associata a uno stato di potere e ricchezza, che rende l'uomo libero (apparentemente) da qualsiasi vincolo e che lo emancipa dalla schiavitù del lavoro e della fatica.
Questa condizione utopica e idealizzata è spesso lo stato a cui tutti tendono ma, secondo Smith, non solo per le ricchezze in sé. Nessun uomo accumulerebbe un'ingente somma di denaro senza trovare il modo per mostrare agli altri la sua ricchezza. Basti pensare ai miliardari; quanti di questi vestono abiti di sottomarche, guidano utilitarie da poco prezzo, vivono in appartamenti da pochi metri quadri? Nessuno, poiché ciò che contraddistingue il miliardario è l'eccesso. I vestiti di marca, le automobili più costose, le ville smoderatamente grandi, non sono semplicemente dei beni che il ricco acquista perché gli piacciono, ma sono soprattutto dei modi che questi ha per ostentare la sua ricchezza, in modo che gli altri condividano con lui la sua felicità. Una condivisione che, però, non avviene per motivi altruistici, ma per affermare il proprio rango superiore.
Tale affermazione che può avvenire proprio perché le persone comuni provano rispetto e venerazione per la sua ricchezza e la sua condizione di vita, poiché esse personificano l'utopia alla quale tendono anche loro.
In questo modo, il rango, i privilegi e il potere dei dominanti vengono naturalmente giustificati dai dominati i quali, benché oppressi, ammirano la condizione dei potenti poiché ne condividono simpateticamente la gioia, ne riconoscono la legittimità e, anzi, aspirano a raggiungere la medesima condizione. Tale aspirazione, se non contrastata, blocca sul nascere ogni movimento di sovversione dello status quo, poiché il potente diviene un ideale utopico intoccabile e il suo dominio, anche se scorretto, opprimente o illiberale, viene giustificato dalla nostra istintiva approvazione. Come sostiene Smith con un'immagine molto evocativa, questa propensione naturale porta il suddito a considerare il sorriso del sovrano come paga più che sufficiente a ogni servizio che compie nei suoi confronti.
Come non rivedere, in queste parole, il volto dei parvenus alla Donald Trump che con un solo sorriso riescono a radunare folle di fedeli pronti ad acclamare ogni loro affermazione?
Con il tempo, l'arrampicata sociale, generata dalla naturale ambizione al potere e alla felicità, porta delle persone a raggiungere "i piani alti" della società e altre persone a rimanere con i piedi a terra. I potenti li guardano dall'alto ostentando le loro ricchezze e, dal canto loro, i dominati alzano lo sguardo e li ammirano come divinità, accecati dal loro potere. Proprio questa venerazione legittima il potere di chi ha scalato la vetta dell'ambizione, anche se con sporchi mezzi, e sopisce sul nascere ogni moto di sovversione che spinga a instaurare l'uguaglianza sociale. 
Ai temi di Smith come ai giorni nostri (e come è sempre stato nella storia umana), gli oppressi lucidano lo scettro del loro oppressore, aspirando al suo stesso potere, senza accorgersi che quel potere già lo posseggono visto che sono stati loro stessi a porre il sovrano sul trono con la loro ammirazione. Per liberarsene basterebbe distogliere lo sguardo.


Adam Smith - Teoria dei sentimenti morali
Se questo articolo ti è piaciuto, dai un occhio alle mie pubblicazioni.

Daniele Palmieri

martedì 17 maggio 2016

Bisogna tollerare gli intolleranti? Marcuse e la critica della tolleranza

Bisogna tollerare gli intolleranti? Questa è la domanda fondamentale attorno alla quale ruota un breve pamphlet di Marcuse, Critica della tolleranza, in cui il filosofo tedesco descrive una forma di tolleranza "negativa", che spesso diventa uno strumento di oppressione invisibile in mano al potere.
Per trovare una risposta a questa domanda occorre, innanzitutto, stabilire cos'è la tolleranza e quale è il suo compito. 
Stando al ritratto che ne dà Marcuse, la tolleranza è un fine in sé, ossia l'eliminazione della violenza e la riduzione della soppressione per proteggere uomini e animali dalla crudeltà e dall'aggressione. Si tratta di una forma di tolleranza attiva, presente in una società utopica in cui essa è davvero universale, praticata quanto dai governanti quanto dai governati, con l'unico scopo di garantire la libertà comune e il dibattito democratico.
A questo modello positivo di tolleranza, Marcuse oppone, come anticipato in precedenza, un modello negativo, che si articola in due forme differenti.
La prima è la tolleranza conformistica delle idee consolidate. Si tratta di una tolleranza passiva, omologante, che porta l'individuo ad appiattirsi sul pensiero dominante e a tollerare ogni suo sopruso, anche le oppressioni violente o le guerre ingiuste. E' una forma di tolleranza che "è amministrata per manipolare e indottrinare gli individui, affinché ripetano pappagallescamente, come fossero proprie, le opinioni dei loro capi". Questo tipo di tolleranza è, in realtà, una forma di censura nei confronti delle idee eretiche; una censura infida poiché silenziosa, che si limita ad ascoltare le voci di dissenso, salvo poi girarsi dall'altra parte e non prenderle in considerazione nel momento della decisione.
"Quelle minoranze che lottano per un mutamento del tutto stesso, nelle condizioni più favorevoli che di rado prevalgono, saranno lasciate libere di deliberare e di discutere, di parlare e di riunirsi, e saranno rese inoffensive e impotenti nei confronti della maggioranza opprimente, che milita contro il mutamento sociale qualitativo"
Vi è poi una seconda forma di tolleranza, ancora più controversa e pericolosa: la tolleranza nei confronti dell'intolleranza e dei movimenti che, esplicitamente, militano a favore dell'oppressione, contro i diritti umani. Può uno stato democratico tollerare questa forma di intolleranza? La risposta di Marcuse è noi, poiché in questo modo la tolleranza va contro la sua stesso fine: la libertà individuale, all'interno di un'istituzione che sia in grado di garantire l'autonomia ai propri cittadini la possibilità di scegliere il loro governo e determinare la loro vita. Una condizione utopica, a cui però bisogna tendere in nome del progresso (umano, culturale, sociale) e, in tale contesto, la soppressione di idee xenofobe, razziste, violente, totalitarie è un requisito necessario per permettere questa forma di sviluppo e per diffondere la libertà. "La soppressione del regresso è un preliminare per il rafforzamento del progresso".
In contrasto con Mill, dunque, che sostiene la difesa a oltranza di ogni opinione, anche le più controverse (qui la sua analisi in On liberty), finché esse non sfociano nell'azione, Marcuse sostiene che bisogna sottrarre la tolleranza verso i movimenti regressivi prima che possano diventare attivi, per un motivo molto semplice: poiché essi puntano a diventarlo. Nessun uomo esprime un'opinione per il gusto di farlo. Anche la persona più ininfluente che sostiene posizioni razziste e xenofobe vorrebbe che la sua visione del mondo venga imposta alla realtà sociale, e farà di tutto per supportare le persone più influenti di lui con la possibilità di farlo. Allo stesso tempo, persone influenti, con grande risonanza, che esprimono pubblicamente opinioni intolleranti sono un pericolo per l'intera umanità, poiché contribuiscono a diffondere un clima d'odio. "In circostanze passate e differenti, i discorsi dei leaders fascisti e nazisti furono il prologo immediato del massacro. La distanza tra la propaganda e l'azione, tra l'organizzazione e i suoi effetti sulla gente si è fatta troppo corta. Ma la diffusione della parola sarebbe potuta essere arrestata prima che fosse troppo tardi: se la tolleranza democratica fosse stata ritirata quando i futuri capi cominciarono la loro campagna, l'umanità avrebbe avuto la possibilità di evitare Auschwitz e una guerra mondiale".

Cosa pensare della posizione di Marcuse? Non riesco ancora a prendere una posizione netta a riguardo, poiché la censura è pericolosa come il fuoco ed è difficile stabilirne dei confini precisi che riescano, in maniera chirurgica, a intervenire soltanto lì dove c'è davvero bisogno di farlo. Spesso la censura "motivata" si trasforma in strumento di oppressione anche nei confronti di pensieri, opinioni e idee che non dovrebbero rientrare nei suoi confini ma che, per qualche cavillo burocratico, vengono fatte rientrare in esse poiché funzionale al potere costituito. 
D'altro canto, è innegabile la forte considerazione marcusiana sui movimenti nazifascisti. Hitler aveva reso esplicito il proprio programma politico fin dalla pubblicazione de "La mia battaglia" e "La mia vita"; cosa sarebbe successo se le sue idee fossero state censurate sul nascere? Forse si sarebbero davvero salvate milioni di vite, oppure il problema sarebbe soltanto stato rimandato, visto che i malumori, l'odio e il sentimento di rivalsa che il popolo tedesco covava già dalla fine della prima guerra mondiale, e forse era necessario che l'Europa vi sbattesse la testa.

Daniele Palmieri

Marcuse, Critica della tolleranza, edito da Mimesi Edizioni
Se questo articolo ti è piaciuto, dai un occhio alle mie pubblicazioni.

domenica 8 maggio 2016

L'individuo e il divenire del mondo secondo Julius Evola

L'individuo e il divenire del mondo è una raccolta di due conferenze tenute da Julius Evola che, stando alle stesse parole dell'autore, sono un sunto perfetto della sua teoria dell'Idealismo Magico, presentata in Teoria dell'Individuo Assoluto e Fenomenologia dell'Individuo Assoluto. Di conseguenza, esso è un ottimo punto di partenza per farsi una visione generale della teoria evoliana sull'uomo e sul mondo (un'idea sul suo Idealismo Magico, per l'appunto).
La prima conferenza comincia con l'analisi di tre diversi livelli che portano l'individuo al perfetto compimento di sé.
Il primo livello è quello della spontaneità; in esso l'individuo è un tutto con il mondo, il suo centro è al di fuori di lui. Potremmo identificare questa fase con la situazione infantile, durante la quale il bambino vive immerso in un mondo di sensazioni pure e in cui la sua attenzione è volta soltanto verso l'esterno, non verso l'interno.
In una fase più matura, subentra la problematicità. L'individuo inizia a percepire come problematica l'esistenza e lentamente si differenzia dal mondo, creando una cesura tra lui e la realtà. Si tratta della scoperta dell'Io. Il soggetto, venendo a contatto con la propria individualità, percepisce uno iato tra essa e il resto del mondo che, improvvisamente, gli appare come un divenire, un flusso caotico che tenta di sommergerlo e di annichilire il suo Io.
Vi è, infine, la reazione (con annesso superamento) a tale crisi esistenziale. Il superamento può avvenire, generalmente, in due direzioni: la prima è quella della dissolvenza mistico/pessimistica. L'individuo accetta la sua "nullità" e diviene un tutt'uno con il divenire, lasciandosi dissolvere da esso. La seconda è quella scientifica, che tenta di riportare ordine alla problematicità tramite la razionalità. Tuttavia, entrambe le strade presentano un problema; la prima sfocia in una accettazione passiva della vita, la seconda non può spiegare il perché dell'esistenza ma soltanto il come.
Ed è qui che entra in gioco la soluzione di Evola. Egli parte dall'assunto che, in questo mondo in continuo divenire, l'unico dominio certo e indubitabile è proprio quello dell'Io. Esso non può affermarsi finché, tramite il dubbio scettico (di cartesiana memoria) non ha raso al suolo tutto ciò che lo circonda, ergendosi in cima alle rovine e affermando le sue due facoltà principali: la volontà e la potenza. La prima è il libero e personale desiderio di affermazione, la seconda la forza dell'Io di portare a compimento, tramite l'azione, la propria volontà.
L'Io possiede tale dominio sulla realtà proprio perché essa è un'emanazione della sua mente. Con ciò Evola non sostiene, come in molte correnti New Age, che il mondo è il frutto di una nostra creazione e che possiamo modificarlo "pensando positivo". Egli ammette l'esistenza di un mondo esterno (il noumeno kantiano); ma essendo quest'ultimo invalicabile, la realtà dell'uomo si volge soltanto all'interno della sua mente, nel mondo del fenomeno. Su questa realtà deve concentrarsi l'indagine filosofica, portando alla luce quali sono le implicazioni del vivere all'interno di una realtà "fittizia", costruita a partire da un mondo esterno ma modificabile dalla nostra mente.
La realtà fenomenica può entrare nel libero dominio dell'esercizio della mia volontà. Al contrario, l'oggetto in sé si pone come un simbolo del mio non-potere nella misura in cui non riesco a far valere la mia volontà di potenza.
L'Idealismo Magico si pone in questo contrato, tentando di dare una spiegazione della realtà mediante l'azione, con l'intento di ampliare il dominio del potere della volontà dell'uomo sulla realtà.
Un dominio che si estende al mondo reale quando riesco a far coincidere quest'ultimo con la mia realtà fenomenica. Evola porta una sorta di "esperimento mentale" per far comprendere tale concezione.
Immaginiamo di trovarci in un campo in cui non ci sono alberi; ipoteticamente, sarebbe possibile avere un'allucinazione oppure applicare uno sforzo mentale tale da far apparire, nel nostro campo visivo, un albero. A quel punto, l'albero fittizio non sarebbe più distinguibile dal mondo reale, perché sia quest'ultimo sia il primo sono immagini virtuali all'interno della nostra mente.
Immaginiamo ora che ci siano delle persone attorno a noi. Ovviamente queste ultime non vedrebbero l'albero che vediamo noi. Tuttavia, il potere "magico" sta proprio nel rendere gli altri consapevoli della medesima realtà che vediamo all'interno della nostra mente, estendendo così la nostra potenza.
Nel momento in cui riuscissimo a convincere anche le altre persone dell'esistenza dell'albero e se queste ultime si autoconvincessero a tal punto da vedere un albero, ecco che saremmo stati in grado di modificare la realtà oggettiva a nostro piacimento. Tramite la volontà avremmo esteso la nostra potenza. Questo perché la verità non sta in un dedurre ma in un "portare in atto" ciò che è in potenza.
Ampliando tali principi nella seconda conferenza, Evola espone la sua teoria dell'Individuo Assoluto. Se il soggetto è il grado di estendere, in base alla propria volontà, il suo dominio sulla realtà, allora egli si pone in maniera assoluta (dal latino absoluto, sciolto, senza vincoli) nei confronti dell'esistenza.
La persona è, in potenza, un "soggetto universale" creatore della realtà; il suo compimento avviene quando trasforma tale potenza in atto; in tale prospettiva "Dio non esiste, occorre che l'individuo lo crei facendosi divino".
E come può avvenire questa deificazione del soggetto?
Evola inserisce il discorso nel contesto degli antichi miti, come quello di Adamo ed Eva. Il loro atto di assaggiare il frutto proibito è stato compiuto proprio con l'intenzione di divenire pari a Dio, di apprendere la conoscenza del bene e del male. Come nel mito di Prometeo o di innumerevoli altri dei dell'antica Grecia, il protagonista giunge a una coscienza e a una potenza superiore mediante un'infrazione, l'infrazione della legge morale precostituita. Soltanto con tale atto di assoluta libertà (ab-soluta, sciolta da qualsiasi vincolo) l'individuo può sostituirsi a Dio e porre in se stesso il proprio principio, sostenendo così il peso del mondo.
 
Julius Evola, L'individuo e il divenire del mondo, Edizioni Mediterranee
 
Daniele Palmieri
 
Ho parlato di Evola anche in Julius Evola: Cavalcare la trigre
Se questo articolo ti è piaciuto, dai un occhio alle mie pubblicazioni.

venerdì 6 maggio 2016

La filosofia è una cosa da folli (Daniele Palmieri)


E' uscito: La filosofia è una cosa da folli, il mio secondo, breve, saggio filosofico che vuole offrire una panoramica generale sul reale significato della materia, cercando di restituire un ideale vivo e dinamico di vita filosofica in grado di trasformare l'esistenza del filosofo che, in virtù della sua follia, vede cose che agli altri sfuggono.
In seguito, un breve estratto del libro, acquistabile su IBS (qui) e su altri store online.


"Perché facciamo Filosofia? Questa domanda può avere molteplici significati.

Perché alcuni uomini sentono il bisogno di discutere di problemi che non sembrano avere soluzione? Cosa ne ricavano? Non ultimo, cosa li spinge a farlo?
La pedanteria di alcuni manuali accademici fa nascere la Filosofia nell’ora x del giorno y dell’anno z in cui Talete ha detto, per la prima volta, che l’acqua è il principio di tutte le cose.
Identificano questa frase come la madre della Filosofia poiché, per la prima volta, un uomo ha tentato di spiegare i fenomeni naturali adducendo non a immagini mitologiche, bensì a motivazioni razionali.
In parte è vero; la razionalità è considerato il baluardo imprescindibile dalla Filosofia. Ma lo spirito della materia è riducibile soltanto a essa? In una parola: no.

Ridurre la Filosofia alla mera razionalità significa svuotarla di ogni contenuto. La razionalità può essere uno strumento della Filosofia ma non certo l’unico, tantomeno ne è il contenuto.

Di sicuro, non è dalla razionalità che nasce la Filosofia e non è la razionalità che ci spinge a fare Filosofia.
Essa nasce da un sentimento ben più profondo e primordiale, un’emozione molto più misteriosa, oscura e ineffabile. La Filosofia nasce dalla paura.
Aristotele nel primo libro della Metafisica utilizza un termine più preciso, che non ha un corrispondente nella lingua italiana capace di esprimerne tutte le sfaccettature.
La parola greca usata da Aristotele è thauma che esprime il terrore reverenziale che proviamo di fronte a eventi sconosciuti o sconvolgenti.
È un termine antico, che richiama le forze telluriche del demone ctonio Taumante, una divinità partorita dagli abissi più reconditi del nostro pianeta: il ventre della madre terra Gea e i fondali profondi del mare, personificato dal dio Ponto.
La Filosofia nasce proprio dallo sbigottimento che proviamo quando, per la prima volta, ci troviamo dinnanzi alla forza sublime e irrefrenabile del cosmo che ci circonda.

Una forza che sembra annichilire tutto sotto il suo pugno, una forza che gli Indù personificarono nella figura del dio Shiva il quale con una mano crea e con l’altra distrugge ciò che ha appena creato, come un fanciullo che si diverte a erigere castelli di sabbia per poi schiacciarli.
Di fronte a tutto ciò l’uomo si sente proprio come un simulacro di sabbia. Sente di non poter far nulla per frenare questa forza inarrestabile e d’improvviso tutto pare perdere senso.
Il vuoto Abisso del cosmo infinito sfiora per un momento la mente finita di noi fragili esseri mortali e da questa alchimia nasce la Filosofia.
Essa è il desiderio viscerale di colmare il baratro che si apre sotto i nostri piedi non appena ci accorgiamo che, sotto la superficie apparentemente semplice delle cose, si nasconde un burrone senza fondo, che minaccia in ogni secondo di inghiottirci.
Siamo terrorizzati da tale Abisso ma allo stesso tempo esso ci attrae poiché, come scrisse E. A. Poe ne Il demone della perversità: “non c’è passione più infernale e compulsiva di quella per la quale uno, pur rabbrividendo sul bordo di un precipizio medita di gettarvisi”.
La Filosofia non è nata con Talete, è stata partorita molto prima quando, sul sepolcro del primo Uomo, abbiamo preso coscienza per la prima volta della morte, della finitezza di tutte le cose, di un divenire caotico senza alcun ordine apparente.
La Filosofia è figlia della morte e madre di incertezze.
Il desiderio di portare ordine al caos tramite la ratio, la ragione, è tutt’altro che qualcosa di puramente razionale; è un desiderio autodistruttivo, una battaglia persa in partenza, eppure una battaglia dalla quale non possiamo sottrarci poiché essa fa parte della nostra stessa essenza.
“La ragione umana ha il particolare destino di essere tormentata da problemi che non può scansare, perché le sono imposti dalla sua stessa natura, ma ai quali tuttavia non è in grado di dar soluzione, poiché oltrepassano ogni suo potere” scrisse Immanuel Kant nella prefazione alla prima edizione della Critica della Ragion Pura.
In altre parole, domandarsi perché facciamo Filosofia significa domandarsi qual è l’essenza dell’uomo.
Da millenni siamo tormentati da domande che sono nate con noi, non appena abbiamo preso coscienza della nostra finitezza; “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo?” potremmo riassumerle, utilizzando il titolo di un famoso quadro di Gauguin.
Eppure, di fronte a uomini particolarmente interessati a trovare risposte, ce ne sono molti altri che vivono nell’indifferenza più totale.
Ciò nonostante, ritengo che tutti gli uomini nascano con il seme della Filosofia; basta guardare il comportamento dei bambini e tutti i loro spontanei perché?
Curiositas è il termine latino che contraddistingue la tendenza a domandarsi il perché delle cose. Nessun bambino cresce e si sviluppa senza il formicolio della curiositas che lo spinge a investigare le cause degli eventi; tuttavia, non tutti hanno la fortuna di essere incoraggiati nella loro naturale inclinazione alla ricerca. A volte rispondiamo loro con sentenze lapidarie, altre volte forniamo spiegazioni dogmatiche, altre ancora diamo motivazioni fantasiose o smorziamo la domanda non dandone proprio.
Tutte le volte in cui un bambino non riceve una risposta che lo spinga a investigare oltre, la naturale curiositas viene smorzata sempre di più, sempre di più, finché non si spegne in silenzio e la fatidica domanda viene avvertita non più come uno stimolo ma come un fastidio.
La curiositas può tornare molti anni più tardi ma in una forma più matura.
Difatti, c’è una fondamentale differenza tra la curiositas del bambino e la ricerca filosofica dell’adulto.
La prima, come accennato in precedenza, è soltanto un seme che non attende altro di germogliare; le domande del bambino sono domande che nascono non dal thauma, dal terrore filosofico, bensì da una sorta di gioco con la vita.
Nella fase infantile, il bambino non ha ancora afferrato il concetto di divenire; vive in un mondo senza tempo che, per quanto ne sa, non sarà mai diverso da come lo percepisce in quel momento. Non gli si è ancora prospettata la visione del Nulla e i suoi perché sono domande spontanee e innocenti sulle regole di una vita che, per ora, è avvertita soltanto come un gioco.
Soltanto quando la curiositas germoglia spinta dalle esperienze della nostra vita possono crearsi i presupposti per far radicare in noi l’albero della Filosofia; tuttavia, esso richiede un terreno fertile, ossia un animo che, dopo il terrore iniziale, non arretri spaventato di fronte all’Abisso ma che abbia il coraggio di tuffarsi direttamente nel baratro."

La filosofia è una cosa da folli, Echos edizioni
Acquistabile su Ibs.it: http://www.ibs.it/code/9788898824618/palmieri-daniele/filosofia-e-una-cosa.html

Se questo articolo ti è piaciuto, dai un occhio alle mie pubblicazioni.

mercoledì 4 maggio 2016

John Stuart Mill: La libertà

La libertà (On liberty) di John Stuart Mill è uno dei classici della cultura filosofica e politica occidentale; un testo ad ampio respiro, che ha posto le basi della concezione moderna di "libertà" (molto diversa da quella degli antichi) che quasi tutti, al giorno d'oggi, danno per scontato - e che, proprio per questo, è messa in pericolo.
Tema del saggio di Mill, esplicitato fin dall'inizio, è "quello della Libertà Civile o Sociale: la natura e i limiti del potere che la società può legittimamente esercitare sull'individuo".
Ci troviamo in pieno ottocento; lentamente la cultura democratica si sta affermando e Mill è uno dei principali sostenitori della democrazia. Tuttavia, ciò non gli impedisce di vedere il grande pericolo insito in questa forma di governo: l'oppressione della maggioranza. Il suo scopo è, in primo luogo, quello di delineare un confine inviolabile attorno al singolo individuo, che lo strapotere della maggioranza non possa in alcun modo superare; secondariamente, quello di difendere lo spirito critico dall'opinione predominante, che finisce per spegnere il dissenso non solo con l'oppressione ma, in forma più subdola, tramite l'omologazione.
Come bilanciare, dunque, indipendenza individuale e controllo sociale?
Rispondendo a tale domanda John Stuart Mill enuncia il suo principio più noto:

"Il solo e unico fine che autorizzi l'umanità, individualmente o collettivamente, a interferire con la libertà di azione di uno qualunque dei suoi membri, è quello di proteggere se stessa. L'unico scopo che autorizzi l'esercizio del potere nei confronti di qualsiasi membro della comunità civile contro la sua volontà è quello di evitare danno agli altri".
(John Stuart Mill, La libertà)

Finché l'azione di un individuo non sconfina nella libertà altrui, lo Stato non può intervenire per privarlo della sua libera volontà di agire.
Soltanto in due casi la sanzione dello Stato è legittima: quando l'uomo in questione fa del male o quando egli non fa il bene che avrebbe potuto compiere (anche se, in questo caso, la sanzione deve essere minore); un concetto innovativo, che mira a colpire, tra le altre cose, uno dei grandi mali del nostro paese: l'omertà. Se è in tuo potere evitare un crimine oppure salvare una persona e, tuttavia, non agisci, sei colpevole come se l'azione criminosa fossi stato tu a compierla.
Impostata la discussione su questi presupposti generali, nella seconda sezione de La libertà, John Stuart Mill affronta l'importante questione della libertà di pensiero e discussione. Un problema strettamente legato al primo, poiché una delle principali libertà dell'uomo è proprio quella di poter esprimere i propri pensieri, di poter parlare senza vincoli; nel momento in cui lo Stato impedisce a una persona di esprimersi, sta violando uno dei principi fondamentali della libertà individuale.
Libertà di pensiero che, secondo Mill, deve essere difesa a ogni costo, anche in caso di opinioni impopolari o controverse (come può essere, al giorno d'oggi, il negazionismo). La censura è un atto intrinsecamente sbagliato; limitare la libertà di espressione, anche in casi controversi, può sortire soltanto effetti negativi, per una serie di ragioni.
Innanzitutto perché non si potrà mai avere la certezza di quale sia l'opinione giusta e quale, invece, quella sbagliata; anche se la maggioranza è convinta di sapere, con assoluta certezza, che la sua opinione è quella corretta, vi è sempre un margine di errore, persino nell'ovvietà (o nella presunta tale). Se non si lascia spazio a quella minima percentuale di errore si dà per scontata la propria infallibilità, con tutte le conseguenze negative che ne derivano (basti pensare a tutte quelle persone che, nel passato, davano per scontato che fosse il Sole a girare attorno alla Terra).
Da questo punto di vista, dunque, la censura avrebbe la conseguenza negativa di smorzare lo spirito critico che, in caso di un'opinione errata della maggioranza, permetterebbe di sostituirla con una più corretta; al contrario, in caso in cui fosse l'opinione di minoranza quella sbagliata, essa permetterebbe di rafforzare le ragioni dell'opinione di maggioranza e censurarla sarebbe sintomo o di paura o di impossibilità di trovare argomenti per ribattere.
Una delle forme più infide di censura, al tempo di Mill come ai giorni nostri, è la censura del silenzio, quella che ignora le idee eretiche anziché perseguitarle, finendo per nasconderle sotto il tappeto insieme alla polvere:

"Oggigiorno, le opinioni eretiche non riescono a guadagnare terreno e nemmeno a perderne [...] non le vediamo mai divampare: restano a covare sotto la cenere in cerchie ristrette di persone dedite al pensiero e allo studio, quelle stesse persone da cui sono nate, e non irradiano mai la loro luce, vera o ingannevole che sia, sugli affari che riguardano l'umanità."
(John Stuart Mill, La libertà)

In questo modo il potere dominante preserva lo status quo, senza nemmeno il bisogno di ricorrere alla forza che, paradossalmente, finirebbe per mettere in luce le idee eretiche (quello che è successo in passato con le idee di Bruno e Galileo), ma difendendo la stagnazione del pensiero tramite il silenzio e l'omologazione.
Passando dal piano della libertà di espressione a quello della libertà di agire, Mill analizza, nella terza parte de La libertà, in che misura le persone possono applicare concretamente le proprie idee.
Anche in questo caso, Mill difende l'assoluta libertà individuale; non solo è giusto ma auspicabile che tutte le persone inseguano il proprio ideale di vita, affinché prolifichino le diversità di carattere e perché tutti possano trovare la propria strada. 
Il tutto, chiaramente, nei limiti della massima utilitarista secondo la quale la mia libertà finisce dove comincia la tua (nel momento in cui la tua opinione si trasforma in strumento di oppressione, non sei giustificato a metterla in atto, soltanto a esprimerla).
Trasformare le proprie opinioni in vita attiva è, inoltre, necessario, poiché la forza mentale e la forza morale si sviluppano soltanto quando le si usa.

"Chi fa una cosa perché si usa farla non fa una scelta, non impara affatto né a discernere né a desiderare il meglio. [...] Quando si fa una cosa solo perché la fanno gli altri, non mettiamo in esercizio le nostre facoltà: né più né meno di quando si crede a una cosa solo perché la credono gli altri. [...] Chi sceglie da sé il progetto della propria vita impegna invece tutte le proprie facoltà".
(John Stuart Mill, La libertà)

John Stuart Mill incoraggia la "pagana affermazione di sé", una componente che rende l'uomo di valore in grado di plasmare la propria esistenza, di trasformare il pensiero in azione, la teoria in condotta di vita, nel tentativo di vivere al pieno ogni giorno su questo mondo. E' un tipo individuo che rema in direzione contraria alla prassi consolidata e alla mediocrità dell'omologazione, poiché quando la banalità è imperante tocca all'uomo di genio smarcarsi e emergere, senza lasciarsi silenziare. Nel momento in cui tale individualità viene meno, il progresso culturale di un popolo si immobilizza. Di fatti, gli uomini perdono rapidamente la capacità di concepire e comprendere la diversità se si disabituano a vederla; quando ciò accade, ogni evoluzione culturale si arresta.
Nell'ultima parte de La libertà, John Stuart Mill torna sui limiti all'autorità della società sull'individuo ed espone una nuova massima, che completa il discorso:

"All'individualità dovrebbe appartenere quella parte della vita che interessa principalmente l'individuo; alla società, la parte che interessa principalmente la società".
(John Stuart Mill, La libertà)

Finché le mie scelte rimangono nell'ambito della vita privata, lo Stato non ha alcun diritto a intervenire poiché, il linea di principio, la persona più interessata al mio bene non può essere altro che me stessa. Anche se le mie scelte mi conducessero all'autodistruzione, finché esse non intaccano il benessere sociale, il potere pubblico non può varcare i confini della mia volontà.
Compito dello Stato, da questo punto di vista, dovrebbe essere quello di promuovere una cultura della consapevolezza; ed è qui che si mostra l'aspetto più attuale del saggio di Mill.

"Se la società lascia che parecchi dei suoi membri crescano come dei bambini, refrattari a qualsiasi considerazione razionale di motivi non strettamente immediati, ebbene, allora la società non avrà che da biasimare se stessa per le conseguenze".
(John Stuart Mill, La libertà)

Compito fondamentale dello Stato dovrebbe essere quello di promuovere lo sviluppo delle facoltà razionale dei cittadini, tramite l'educazione pubblica. Un popolo senza gli strumenti per pensare, infatti, non sarà mai un popolo consapevole e il che è un grande pericolo in una democrazia, in cui le decisioni importanti spettano (o spetterebbero) proprio al popolo.
Soltanto una solida istruzione permette di dare all'essere umano la possibilità di "far bene la sua parte nella vita, verso gli altri e verso se stesso", una prospettiva di certo invisa al potere, che invece vorrebbe dei docili fantocci ignoranti da maneggiare. Tuttavia:

"Uno Stato che tarpa i suoi cittadini per farli diventare strumenti più docili nelle sue mani [...] si accorgerà presto che, con dei piccoli uomini, non si può realizzare nulla di veramente grande".
(John Stuart Mill, La libertà)

Daniele Palmieri

Ho trattato di John Stuart Mill anche in questo articolo sul concetto di "Natura" e "naturale".
Se questo articolo ti è piaciuto, dai un occhio alle mie pubblicazioni.