sabato 25 dicembre 2021

La meditazione del cadavere. La contemplazione della morte tra Occidente e Oriente

                
Una delle pratiche di contemplazione più diffuse  nel mondo occidentale, tanto nel mondo greco-romano tanto in quello cristiano, è quella della contemplazione della morte. 
Tra gli Stoici, come Seneca, Epitteto e Marco Aurelio, era diffusa l'idea di allontanare la paura della morte, sia personale sia dei propri cari, non solo meditando costantemente sulla vanità dell'esistenza, ma soprattutto figurandosi, in anticipo, il momento fatale.
In molti passi dei suoi Pensieri, Marco Aurelio suggerisce di compiere questa pratica focalizzandosi sull'essenza materiale del proprio corpo, visualizzando quanto di fragile, perituro e materiale esso possiede. Occorre porre in risalto la carne, le ossa, il sangue, il seme, risaltarne la "materialità" e considerarsi come un semplice agglomerato di componenti destinate a decomporsi e svanire. 
Una pratica di contemplazione che, tuttavia, non deve sfociare nell'autocommiserazione, nella       depressione o nel lutto. Questa scomposizione anatomica del proprio corpo, con lo scopo di porre in risalto il cadavere, ha un duplice fine: quello di prendere atto della fugacità del tempo, per vivere a pieno la propria vita, come sostiene Seneca ne La vanità della vita e nelle Lettere a Lucilio, e quello di corrodere tutto ciò che vi è di perituro e superficiale per recuperare ciò che giace sepolto sotto la carcassa materiale: la luce sempiterna dell'anima.
Il corpo può infatti diventare una tomba prematura per l'anima, quando la soffoca e la imbriglia ai propri capricci. Ma quando lo si scompone, vi si scava attraverso e lo si analizza per scoprire cosa realmente si nasconde dietro la nostra identità, ecco che la luce dell'anima rifulge e torna a splendere in tutta la sua luminosità.
Questa pratica rimarrà viva e presente anche nel mondo cristiano, fino a partire dal simbolismo originario dei Vangeli. 
La passione di Cristo e le tappe via via più dolorose della via Crucis descritte nei Vangeli possono essere rilette, simbolicamente, come una progressiva scomposizione del corpo. Cristo, come Orfeo, viene smembrato non dalle Ninfe ma dai suoi aguzzini: il suo corpo è umiliato, scarnificato, sottoposto alla fatica e alle ingiurie, inchiodato alla croce ed elevato al cielo per mostrare alla folla inferocita la debolezza di una carne che suda, sanguina, soffre e piange. Ma al termine del supplizio ecco la resurrezione: dal cadavere deposto nella tomba riemerge un nuovo corpo, il corpo di luce, l'anima immortale che effonde sui fedeli i raggi del suo calore e della sua santità.
Il cristianesimo sviluppò questo simbolismo del cadavere nella pratica della contemplazione della morte. Tra gli esempi più fulgidi e ricchi anche di ironia, del sorriso beffardo tipico degli scheletri che popolano le danze macabre, vi è un passo di sant'Ambrogio di Milano, che nel suo Exameron esorta i fedeli a tendere sempre un occhio ai sepolcri per contemplare la morte: Getta lo sguardo dentro i sepolcri, e vedi che cosa rimarrà di te, cioè del tuo corpo, se non cenere e ossa, e gettavi lo sguardo, ripeto, e dimmi un po’: chi è povero e ricco là dentro? Riconoscivi i disgraziati dai potenti! Noi tutti nasciamo nudi, e moriamo nudi. Non c’è differenza alcuna tra i cadaveri, eccetto che, probabilmente, i corpi dei ricchi, enfiati di tutti i piaceri, puzzano di più” (Ambrogio di Milano, Exameron, Tea Edizioni, p. 261).

Nel corso del medioevo, la visualizzazione della morte divenne una delle forme di preghiera e contemplazione più diffuse. Prendendo alla lettera le istruzioni di sant'Ambrogio di Milano, in molte chiese e monasteri si svilupperanno i cosiddetti "putridari", delle stanze sotterranee dove i cadaveri dei monaci defunti venivano "imbalsamati" e riposti, seduti, in piedi o sdraiati in loculi appositi e dove i monaci vivi si ritiravano a pregare e meditare, seduti in compagnia dei morti, per riflettere sulla vanità dell'esistenza e contemplare lo stato che presto avrebbe raggiunto il loro corpo mortale. Uno di questi putridari si può trovare, ad esempio, nei sotterranei della Chiesa di San Bernardino alle Ossa di Milano. Purtroppo il putridario non è aperto al pubblico, ma lo è la cappella della Chiesa che svolgeva la medesima funzione. Essa, infatti, è interamente "decorata" con ossa e teschi, che circondano il fedele e mostrano all'osservatore, nel nero delle loro orbite vuote, il volto più reale e tangibile della morte che si avvicina. Sedersi in silenzio e osservare i teschi tutti uguali, gli sguardi seri ma al contempo beffardi disegnati dalle mascelle ormai nude, con i denti in bella vista, è una delle pratiche di contemplazione della morte più intense a cui ci si può sottoporre. Similmente, la famosa "Scala dei Morti" della Sacra di San Michele di Torino prende il suo nome dai corpi morti, seduti in cima alla gradinata, che accoglievano i pellegrini al loro arrivo, mettendoli subito di fronte alla fragilità della loro esistenza.
La medesima "trasfigurazione spirituale" della morte e della sua immagine è stata sviluppata, in maniera parallela e autonoma, anche in Oriente, soprattutto nel Buddhismo Tibetano. E' estremamente interessante notare come pratiche del tutto affini a quelle sorte in Occidente si siano sviluppate anche tra i monasteri del Tibet, ben prima che le due culture entrassero in contatto - un'ulteriore dimostrazione di come le strade spirituali siano molteplici, ma a fronte del differente simbolismo vi siano sempre delle tecniche di manipolazione del corpo, dei pensieri e della psiche costanti, che inducono nel praticante il medesimo "sviluppo spirituale".
Nelle pratiche tantriche del Tibet, il rapporto diretto con il cadavere è una costante - come lo era stata in Occidente prima che il forte simbolismo spirituale venisse via via "annacquato" da una civiltà sempre più attaccata alla materialità della vita e intollerante nei confronti di tutto ciò che rimanda alla mortalità, in primis, appunto, la visione della morte.
Come i corpi morti dei Santi cristiani, attorno ai quali si sviluppa una vera e propria venerazione del cadavere e delle reliquie, circondati da un'aurea a metà tra il sacro e il magico, anche i corpi degli alti dignitari religiosi vengono imbalsamati ed "esposti" alla venerazione. "Queste mummie sono chiamate mardong" scrive Alexandra David-Nell nel suo Mistici e maghi del Tibet, "fasciate di stoffa, la faccia dipinta con oro, esse sono poste in mausolei di argento massiccio, ornati di pietre preziose. Spesso un pannello di vetro delimita un quadrato della bara attraverso il quale si può vedere la faccia dorata della mummia" (A. David-Neel, Mistici e maghi del Tibet, Astrolabio, p. 35), un'immagine pressoché identica ai reliquiari presenti in molte Chiese e Cattedrali occidentali, in cui il cadavere, esposto allo sguardo del fedele, diviene un vero e proprio oggetto di contemplazione, una connessione tra mondo mortale/materiale e mondo divino/spirituale.
Ma le pratiche più interessanti sono le tecniche yogiche segrete, praticate dagli iniziati al tantrismo - quello originario e non la macchietta occidentale che ha trasformato il Tantra in una banale pratica di "sesso spirituale".
Il tantrismo tibetano è una via spirituale legata alla manipolazione delle forze primordiali che attraversano l'uomo. Queste forze sono legate soprattutto ai due impulsi più potenti e tabù: l'energia sessuale e la morte. Si badi bene, però, a prendere la consapevolezza che il Tantra originario, benché coinvolga, a volte, anche pratiche sessuali, non si esaurisce esclusivamente nella consumazione dell'atto sessuale: esso è soltanto una contingenza. Ciò che il Tantra persegue è la manipolazione dell'energia sessuale e questa forza, per essere controllata, non necessità che l'atto sessuale debba essere consumato ma, anzi, prevede che tale energia venga risvegliata e controllata anche, e soprattutto, quando non è collegata alla sessualità. Similmente la visione della morte suscita uno scuotimento profondo, paragonabile allo stesso impeto mosso dalle energie sessuali e anche in questo caso il fine dell'iniziato alla via tantrica è quello di controllare queste forze primordiali per incanalarle nel proprio sviluppo spirituale.
Anche in questo caso, è sorprendente constatare come nel Buddhismo Tibetano, similmente alle pratiche di contemplazione cristiane, la morte e il cadavere divengano dei "portali di risveglio", la cui visione è in grado di elevare l'anima dell'iniziato, mobilitando nella sua interiorità delle forze ctonie.
Ne Il sentiero del mistico sacrificio, un antico testo tibetano tradotto in Occidente per la prima volta da Evans Wentz nel suo Lo Yoga Tibetano e le dottrine segrete (Ubaldini), viene descritta una pratica di visualizzazione della morte, la cosiddetta "visualizzazione del cadavere e della dea adirata", in cui l'iniziato deve figurarsi come un corpo morto smembrato e dilaniato dalla Dea Adirata. Come si legge nel testo:
"Immagina che questo corpo, che è la risultante delle tue propensioni kamiche, sia un cadavere grasso e succulento d'aspetto, immenso tanto da abbracciare l'Universo. Allora dicendo Phat! visualizza l'Intelletto radioso che è dentro di te, come fosse la Dea Adirata in piedi accanto al tuo corpo, con un volto e due mani e che impugna un coltello e un teschio. Pensa che ella recida la testa del cadavere e la ponga, come un teschio simile a un enorme calderone, sopra tre teschi sistemati come piedi di un tripode che abbraccia le Tre Regioni. E che tagli il corpo a pezzetti e li getti nel teschio come offerte alla deità. Poi pensa che dal mistico potere dei raggi dei mantra trisillabici Aum, Ah, Hum e Ha, Ho, Hri, le offerte vengano interamente trasmutate in amrita, scintillante e radioso" (Il sentiero del mistico sacrificio, in E. Wentz, Lo Yoga Tibetano e le dottrine segrete, Ubaldini, p. 313). Come nelle meditazioni di Marco Aurelio, il corpo viene suddiviso e ridotto alla mera materialità, a tal punto che ogni parte viene "reificata", trasformandosi in un oggetto sciamanico: "Questo dono è offerto con gioia grandissima" recita l'iniziato durante la visualizzazione "[...] il tamburo fatto col teschio, che è il migliore e più raro dei tamburi, possiede un suono chiaro; la coperta di pelle umana su cui viene imbandito il banchetto è meravigliosa a guardare. La tromba di femore umano emette una melodiosa nota. le campane, adornate di campanellini, e la tiara, esercitano grande fascino(Il sentiero del mistico sacrificio, in E. Wentz, Lo Yoga Tibetano e le dottrine segrete, Ubaldini, p. 314-315).
Queste descrizioni non sono soltanto visualizzazioni legate alla sfera dell'immaginario. Esse riflettono usanze tipiche delle cerimonie funebri tibetane. Sempre come racconta Alexandra David-Neel nel suo Mistici e maghi del Tibet, durante le cerimonie funebri di alcune regioni del Tibet, il cadavere del morto può andare incontro a quattro destini differenti, tutti simili allo smembramento rituale citato in precedenza: "Il corpo è trasportato sulla cima della montagna. E' smembrato in quattro parti con un coltello ben affilato. Le interiora, il cuore, i polmoni vengono lasciati sul terreno, perché se ne nutrano gli uccelli, i lupi e le volpi. Il corpo è buttato in un fiume sacro. Il sangue e gli umori si dissolvono nelle acque azzurre. I pesci e le lontre ne mangeranno la carne e il grasso. Il corpo è bruciato. Carne e ossa e pelle sono ridotte a un mucchio di cenere. I Tisa troveranno nutrimento nell'odore. Il corpo è sotterrato. Carne, ossa e pelle saranno succhiate dai vermi" (A. David-Neel, Mistici e maghi del Tibet, Astrolabio, pp. 35-36).
Similmente, tanto nel Buddhismo Tibetano quanto nelle antiche pratiche sciamaniche del Bon, è usanze riutilizzare calotte craniche e ossa per creare oggetti rituali come coppe, flauti, trombe e "ornamenti sacri" utilizzati, come nei putridari occidentali, per avere sempre la morte di fronte ai propri occhi come monito, ricordo della vanità e dell'impermanenza delle cose materiali.
In scritti tibetani, anche più recenti, come Appunti su Il libro delle tre ispirazioni di Je Sherab Gyatso (contenuto in Praticare i 6 yoga di Naropa, a cura di G. Mullin, Amrita Edizioni), risalente al XIX secolo, è ancora presente un rapporto diretto, nelle pratiche yogiche del tantra, con il cadavere. Parlando della "pratica della proiezione della coscienza", una tecnica yogica legata alla liberazione della propria anima dal ciclo Samsarico all'insorgere della morte, Je Sherab Gyatso suggerisce di addestrarsi a proiettare la propria coscienza prima su una carcassa di maiale e poi su un cadavere recuperato da una fossa comune, finché non si diviene in grado di scaldare i corpi morti mediante la propria energia vitale. 
Un'ultima pratica, meno tabù ed eseguibile anche ai giorni nostri senza il rischio di incorrere nel reato penale di villipendio di cadavere, è contenuta ne La Beatitudine del Fuoco Interiore, testo scritto da Lama Yesce (Chiara Luce edizioni) e rivolto proprio agli Occidentali desiderosi di avvicinarsi alle pratiche tantriche originarie dei Sei Yoga di Naropa.
Come nei testi tradotti da Wentz, anche il libro di Lama Yesce contiene una tecnica di meditazione del cadavere, riadattata però alla sensibilità occidentale, che prevede la visualizzazione delle differenti fasi del morire e della decomposizione del proprio corpo:
1) Nel primo stadio occorre visualizzare la decomposizione dell'elemento terra: il corpo, lentamente, si dissolve man mano che diminuisce l'energia vitale esso diventa sempre più magro e debole, e la coscienza progressivamente perde chiarezza. Le immagini e i pensieri si fanno tremolanti.
2) Nel secondo stadio avviene la decomposizione dell'elemento acqua. Il corpo si rinsecchisce, ogni liquido corporeo si asciuga, le sensazioni sonore si fanno sempre più ovattate fino a sparire. La coscienza, ora, è circondata da una cortina di fumo.
3) Nel terzo stadio si dissolve l'elemento fuoco. Il corpo si fa sempre più freddo man mano che il calore delle membra si ritira, come una candela in cui la cera è quasi giunta al termine, fino a soffocare la fiamma sullo stoppino. In questo stadio non vengono più percepiti gli odori, l'inspirazione si fa sempre più breve, debole, e l'espirazione sempre più lunga - fuoriesce dal corpo più energia di quella che, invece, viene assorbita. Il "deficit" si fa sempre più vicino. Come un ceppo giunto ai suoi ultimi singhiozzi, la coscienza emette le scintille finali.
4) Nel quarto stadio viene meno l'elemento aria. La respirazione è completamente interrotta, la lingua si fa gonfia e turgida, incapace di muoversi. La fiamma si sta spegnendo.
5) Quando tutte le porte della percezione si sono ormai spente, tutto svanisce ed ecco che sorge una nuova coscienza, non più imbrigliata ai sensi esterni. Appare un bagliore biancastro, come se si stesse contemplando un cielo completamente avvolto dalla pallida luce della luna. 
6) La luce bianca si trasforma in luce rossa: la luce lunare si trasforma in luce solare, quella che tinge il del tramonto in un rosso fiammeggiante.
7) Anche il rosso svanisce e si tinge di nero, come la volta celeste quando il sole è ormai svanito. La coscienza è ora totalmente immersa nel vuoto. Ma questo è soltanto il preludio a un nuovo giorno.
8) Giunge finalmente l'ultima alba: la coscienza risorge nella "chiara luce" del mattino, paragonato da Lama Yesce alla luce dell'alba del cielo autunnale. Come scrive Lama Yesce: "Come il sole che sorge in un cielo chiaro e privo di nuvole, la luce gradualmente aumenta sempre di più, sino a quando l'intero spazio diventa chiara luce. Questa è l'esperienza del dharmakaya, lo stato di coscienza più sottile. Ogni esistenza è non duale, e tutti i problemi dualistici sono scomparsi. Entrate così nella natura simile allo spazio della chiara luce. La vostra coscienza di saggezza si fonde con lo spazio universale" (Lama Yesce, La beatitudine del fuoco interiore, Chiara Luce Edizioni, p. 81).

Daniele Palmieri

domenica 5 dicembre 2021

James Nestor: L'arte di respirare

Respirare è un gesto naturale, dato per scontato e apparentemente semplice. A un primo sguardo superficiale, non sembrano esservi molti modi per farlo. Basta inspirare ed espirare, con il naso o con la bocca; in ogni caso, si tratta di immettere ossigeno ed espellere anidride carbonica - e in una concezione prettamente meccanicistica del corpo umano, sembrerebbe non esservi alcuna importanza su come avvenga questo scambio. L'importante è che, in un modo o nell'altro, l'ossigeno entri nei polmoni e che l'anidride carbonica ne venga espulsa.
Eppure, la questione è molto più complessa. Vi sono innumerevoli modi per respirare e ogni tecnica influisce in maniera differente sul nostro stato fisico e mentale. Il gesto automatico, naturale, dato per scontato, è molto più importante di quello che pensiamo e lungi dall'essere un'azione automatica, il respiro necessita di essere educato, per trarne i massimi benefici nella propria vita quotidiana.
Questo è il nucleo principale attorno al quale si evolve L'arte di respirare di James Nestor, edito in Italia da Aboca, una delle letture più sorprendenti e rivelatorie che ho avuto la fortuna di incontrare.
James Nestor è un giornalista scientifico che ha collaborato The New York Time, The Atlantic e Scientific America, la cui ricerca si focalizza sui limiti del corpo e della mente umana, con un approccio decisamente "esperienziale", come avremo modo di raccontare. Nestor ha pubblicato due testi incentrati sul respiro: il già citato L'arte di respirare e Il respiro degli abissi. Il suo interesse nei confronti del respiro, come lui stesso racconta, nacque quasi per caso, per gli eventi che lo portarono a scrivere Il respiro degli abissi. Era il lontano 2011 quando Nestor fu inviato in Grecia per compiere un reportage dei campionati mondiali di nuoto in apnea per la rivista Outside. Prima di allora non aveva mai nutrito alcun interesse nei confronti dell'apnea ma, come racconta nel testo, la scelta del Direttore era caduta su di lui semplicemente perché aveva sempre vissuto vicino all'oceano e vi aveva dedicato parecchi articoli. 
A un primo impatto "esterno" con la materia, Nestor non ne rimase molto colpito. Scorrendo foto, dati e informazioni, gli parve soltanto "un bizzarro passatempo [...] a cui la gente si dedica per poterne parlare alle feste o usarne il nome come indirizzo di posta elettronica" (James Nestor, Il respiro degli abissi, EDT, p. 2).
Ma, una volta arrivato in Grecia, sulla barca dalla quale osserva la gara, le cose cambiano radicalmente. "Ciò a cui assisto da quel momento in poi mi sconcerta e mi atterrisce" scrive nel libro. Nestor assiste ad atleti in grado di scendere sotto i 90 metri di profondità, trattenendo il respiro per tre, quattro, cinque minuti, per poi risalire in superficie in assoluta tranquillità. Da quel momento cominciò a prendere l'apnea molto più seriamente, a tal punto da dar vita a un reportage che dalla Grecia lo porterà tra Porto Rico, Giappone, Honduras e Sri Lanka per entrare in contatto con diversi "maestri degli abissi", accomunati dalla passione per le profondità marine, gli esseri viventi che le popolano e la ritenzione del respiro come strumento per divenire un tutt'uno con il mare o l'oceano.
Lo studio dell'apnea divenne, per Nestor, l'anticamera di una ricerca più ampia sulla respirazione. Dopo aver visto le imprese degli apneisti, rimase, all'autore, il dubbio su quante potenzialità nascoste vi fossero nel controllo coscienze della respirazione. Fu così che si rimise in viaggio per dar vita al secondo libro: L'arte di respirare.
L'aspetto più interessante che ritorna sia ne Il respiro degli abissi sia ne L'arte di respirare è l'approccio esperienziale di Nestor. L'autore non si limita a rintracciare dati, statistiche o personalità da intervistare. Vi è, senz'altro, questo importante lavoro di ricerca, che viene però completato dalla curiosità di Nestor che lo porta a voler sperimentare sulla propria pelle - e sui propri polmoni, in questo caso - le ricerche da lui condotte. Così, mentre ne Il respiro degli abissi racconta di come sfidò i suoi limiti di ritenzione del respiro per immergersi con le creature marine e trovarsi faccia a faccia con i capodogli, fin dalle prime pagine de L'arte di respirare lo troviamo coinvolto in un faticoso esperimento per dimostrare che non tutte le forme di respirazione sono analoghe e che, per respirare correttamente, non basta far raggiungere l'ossigeno ai propri polmoni.
"Nell'ultimo secolo" scrive Nestor "l'opinione prevalente della medicina occidentale era che il naso fosse più o meno un organo ancillare. Dovremmo usarlo per espirare, se possibile, ma in caso contrario non c'è problema: è per questo che esiste la bocca. Molti medici, ricercatori e scienziati continuano a sostenere questa opinione. Nei National Institues of Health ci sono ventisette dipartimenti dedicati a polmoni, occhi, malattie della pelle, orecchie eccetera. Il naso e i seni paranasali non sono mai rappresentati. Nayak lo trova assurdo. E' il responsabile delle ricerche di rinologia a Stanford. Dirige un laboratorio di fama internazionale che si concentra esclusivamente sulla comprensione del potere occulto del naso. [...] Per questo è interessato a scoprire che cosa succede a un corpo che funzioni senza di esso. Ed è per questo che [...] a partire da oggi, passerò il quarto milione di respiri con dei tappi di silicone che mi bloccano le narici e un nastro chirurgico per impedire che anche la più piccola quantità d'aria entri o esca dal mio naso. Respirerò soltanto con la bocca" (James Nestor, L'arte di respirare, Aboca, pp. 27-28).
L'esperimento si rivela, fin dai primi giorni, una tortura. Non basta, infatti, che i polmoni ricevano la loro dose d'aria per respirare in maniera sana ed efficiente. A soli cinque giorni dall'inizio dell'esperimento "Respirare con la bocca ci sta distruggendo la salute. La mia pressione sanguigna si è impennata di 13 punti in media rispetto ai valori precedenti dell'esperimento [...]. Se non monitorato, questo stato di alta pressione cronica [...] può causare attacchi di cuore, ictus e altri disturbi gravi. Nel frattempo, la variabilità della frequenza cardiaca, una misura dell'equilibrio del sistema nervoso, è crollata, suggerendo che il mio corpo si trova in uno stato di stress. Poi c'è il battito, che è aumentato, e la temperatura corporea, che è calata, e la mia lucidità mentale, che si può considerare ai minimi storici [...]. Ma la cosa peggiore è la sensazione: stiamo malissimo. Ogni giorno sembra andare peggio" (James Nestor, L'arte di respirare, Aboca, pp. 47-48).
La respirazione orale prolungata, oltre a essere dannosa per l'intero organismo, causa una serie di effetti collaterali a catena all'intero apparato respiratorio e orale, come testimoniano gli esperimenti di Harvold citati da Nestor: "Inspirare aria dalla bocca diminuisce la pressione e questo fa sì che i tessuti molli in fondo alla bocca si rilassino e si curvino verso l'interno, creando un minore spazio complessivo e rendendo la respirazione più difficile" (James Nestor, L'arte di respirare, Aboca, p. 59).
Una situazione che, tuttavia, può diventare reversibile. Nel respiro vi è la malattia ma anche la cura, nel momento in cui si recupera il corretto modo di respirare. Dal decimo giorno dell'esperimento, in cui Nestor può finalmente togliersi i tappi e ricominciare a respirare con il naso, ecco che ricomincia la rinascita, attraverso la sperimentazione di diverse pratiche atte a sviluppare una maggiore consapevolezza del respiro.
C'è un motivo, insomma, se ci siamo evoluti dotati di naso. "Il naso è importantissimo perché purifica l'aria, la riscalda e la inumidisce in modo da facilitarne l'assorbimento. Molti di noi questo lo sanno. Ma quello che tanti non considerano è il ruolo imprevisto del naso in disturbi come la disfunzione erettile. O la sua capacità di innescare una pioggia di ormoni e sostanze chimiche che abbassano la pressione del sangue e agevolano la digestione. Come risponda alle fasi del ciclo mestruale della donna. Come regoli il battito cardiaco, apra i vasi nelle dita dei piedi e immagazzini i ricordi" (James Nestor, L'arte di respirare, Aboca, pp. 77-78). La riscoperta del respiro, da parte di Nestor, comincia proprio dal naso e dalle innumerevoli testimonianze antiche che legavano l'energia umana a una corretta respirazione. Ben prima della scienza, la sapienza mistica e religiosa tradizionale aveva riconosciuto l'importanza del respiro. Nestor sottolinea come, tanto nei testi taoisti quanto in quelli induisti, e perfino tra le tribù autoctone degli Indiani d'America, la respirazione orale veniva ritenuta una delle principali cause delle malattie del corpo e, al contrario, la padronanza della respirazione nasale veniva considerata la via maestra per il contatto con il divino. Nelle pratiche yogiche, nella meditazione taoista, nell'esicasmo cristiano, nei mantra buddhisti, solo per citare alcune tecniche spirituali, la respirazione gioca un ruolo fondamentale, non solo per il rilassamento del corpo e per acquietare i pensieri, ma soprattutto per indurre nell'uomo una sensazione di "espansione della coscienza" in grado di avvicinarlo al divino. 
Esperienze che non sono soltanto illusioni create dalla fede, ma precisi stati psicofisici indotti dalla respirazione, come dimostra uno studio sorprendente effettuato dall'Università di Pavia volto a studiare il respiro nelle principali pratiche di preghiera e meditazione delle diverse religioni, riportato da Nestor all'interno del libro:
"Quando i monaci buddhisti cantano il loro mantra più conosciuto, Om Mani Padme Hum, ogni frase pronunciata dura sei secondi, con sei secondi per inalare prima che il canto ricominci. Il canto tradizionale dell'Om, il suono sacro dell'universo, usato nel giainismo e in altre tradizioni, richiede sei secondi per cantare, con una pausa di circa sei per inalare. Anche il canto sa ta na ma, una delle tecniche più note del Kundalini Yoga, comporta sei secondi per vocalizzare, seguiti da sei secondi per inalare. Poi c'erano le antiche posizioni induiste di mano e lingua chiamate mudra. [...] I respiri profondi e lenti che si eseguono [nella tecnica chiamata khechari] durano sei secondi ciascuno. [...] Nel 2001 i ricercatori dell'università di Pavia hanno radunato una ventina di soggetti, li hanno ricoperti di sensori per misurare il flusso sanguigno, la frequenza cardiaca e il feedback del sistema nervoso, poi hanno chiesto loro di recitare un mantra buddhista, oltre alla versione originale latina del rosario [...]. Con loro stupore, hanno scoperto che il numero medio di respiri per ogni ciclo era quasi esattamente identico [...]: 5,5 respiri al minuto. Ma ancora più sorprendente era l'effetto che aveva questa respirazione sui soggetti. Ogni volta che seguivano lo schema della respirazione lenta, l'afflusso di sangue al cervello aumentava e i sistemi del corpo entravano in uno stato di coerenza, in cui le funzioni di cuore, circolazione e sistema nervoso sono coordinate al massimo dell'efficienza. Nel momento in cui i soggetti tornavano a respirare in modo spontaneo o a parlare, i loro cuori battevano a un ritmo un po' più irregolare, e l'integrazione di questi piani si perdeva" (James Nestor, L'arte di respirare, Aboca, pp. 136-137).
Gli studi citati da Nestor sono la dimostrazione di come le pratiche di preghiera, meditazione e ripetizione dei mantra non siano dei semplici retaggi superstiziosi, ma, come le definirebbero Pauwels e Bergier, delle "tecniche di manipolazione dell'invisibile", il cui effetto si estende in egual modo sulla corpo e sulla psiche. E proprio il respiro funge da collante tra visibile e invisibile, spirito e materia, scienza e religione. Non a caso, secondo la concezione yogica, il Prana, l'energia vitale, viene assimilata dal corpo proprio attraverso il respiro. 
Esercitate in maniera costante e portate all'estremo, queste tecniche sono in grado di condurre l'uomo al di là del propri limiti, permettendogli di attingere a una riserva di energia latente pressoché infinita. Ne sono un esempio due casi moderni riportati sempre da Nestor all'interno della sua ricerca: quello di Wim Hof e quello di Stanislav Grof. Wim Hof, dopo un dramma personale, ha cominciato ad approfondire le tecniche yoga di respirazione fino a incontrare la "tummo", la respirazione tibetana del calore interiore, praticata da yogin e fachiri in grado di aumentare fino a otto gradi la propria temperatura corporea. Praticando in maniera costante questa forma di respirazione, inizia a cimentarsi in una serie di imprese di resistenza, portando il suo corpo a tollerare temperature glaciali che, dal punto di vista prettamente scientifico, avrebbero dovuto costargli diversi ipotermie, ma che lo porteranno invece a infrangere diversi Guinnes World Record.
Stanislav Grof, invece, è uno psichiatra che negli anni '70, studiando gli effetti della LSD sulla coscienza, si focalizzò su uno dei suoi "effetti collaterali" apparentemente secondari: l'accelerazione del respiro. Tutti i pazienti a cui era stata somministrata l'LSD mostravano una respirazione accelerata. Di fronte a questa rilevazione, Grof si chiese se fosse possibile ottenere i medesimi effetti dell'LSD inducendo la medesima accelerazione. Nacque così la sua tecnica respiratoria, che nominerà "Respirazione olotropica", una pratica di espansione della coscienza che, attraverso l'iperventilazione, la deprivazione visiva e la stimolazione della coscienza attraverso musiche psichedeliche, è in grado di indurre nella mente umana degli stati alterati di coscienza assimilabili a quelli dell'LSD.
Respirare, insomma, è un atto estremamente serio; un vero e proprio portale verso il mondo interiore, tanto del corpo quanto della mente. In apparenza potrebbe sembrare un'affermazione banale, ma dovrebbe far riflettere il fatto che possiamo trascorrere circa tre giorni senza bere, quaranta senza mangiare ma soltanto pochi minuti senza respirare. In media respiriamo circa otto litri d'aria al minuto. Il che significa che in una intera giornata respiriamo 11mila litri d'aria. Uno scambio di energia costante tra l'uomo e il cosmo, che permette di concepire in maniera più concreta il concetto di "Prana" e di capire come, già per Anassimene, l'essenza della vita andasse rintracciata nel Pneuma. Una volta assimilata questa consapevolezza, viene spontaneo porre attenzione alla respirazione. E dopo aver letto L'arte di respirare di James Nestor, verrà spontaneo focalizzare l'attenzione si ogni singolo respiro.


James Nestor, L'arte di respirare, Aboca Edizioni

Daniele Palmieri