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giovedì 29 giugno 2017

Il lato oscuro dell'Illuminismo. La nascita del razzismo


Come ogni epoca storica, l'Illuminismo fu un periodo molto complesso e il problema principale è che, quando lo si studia, si tende a stereotiparlo nell'immagine stessa che i pensatori illuministi avevano di sé e della loro epoca, senza considerare le molteplici contraddizioni in cui ricaddero.

Da un lato, i suoi esponenti principali diffusero gli ideali di uguaglianza, democrazia, diritti umani etc. ma, dall'altro, bisogna specificare nei confronti di chi era diretto questo ampliamento delle libertà personali. Tendenzialmente, quando pensatori come Voltaire parlavano di dignità dell'uomo, libertà di pensiero, diritti umani, ragione e uguaglianza universali avevano come termine medio di paragone l'intellettuale borghese che discuteva nei caffè e nei salotti parigini; al massimo, la massa di poveri oppressi dall'ancient regime, che non potevano sviluppare le proprie facoltà a causa del regime opprimente; massa nella quale, in parte, riuscivano a rispecchiarsi. Ma di fronte alla diversità che non riuscivano a comprendere, e in cui non riuscivano a immedesimarsi, le cose cambiavano molto.
La scoperta dell'America dei secoli precedenti portò l'Europa a un duplice processo: da un lato, la scoperta di un'alterità radicalmente diversa rispetto a quella a cui era sempre stata abituata. I pensatori europei non riuscivano a comprendere a fondo le usanze dei popoli tribali che via via andavano scoprendo, e questo portò presto alla giustificazione della loro schiavitù e del loro sfruttamento. Dall'altro, vi fu una grande spinta a scoprire nuovi territori che proprio tra il 1700 e il 1800 ebbe il suo culmine, con i numerosi viaggi di scoperta verso l'america del sud e l'oceano pacifico. Questi viaggi di esplorazione portarono alla scoperta di altre etnie umane, che vivevano per lo più in agglomerati tribali. Queste scoperte, naturalmente, influenzarono molto i dibattiti degli intellettuali in Europa, in ogni campo del sapere. E qui arriviamo al punto focale della discussione, ossia il lato oscuro dell'Illuminismo. La tendenza al sapere enciclopedico e alla classificazione scientifica di ogni aspetto dell'esistenza portò quanto gli scienziati quanto i filosofi a studiare nel medesimo modo le popolazioni umane, spinti anche dal tentativo di comprendere come mai l'Europa aveva raggiunto quel livello di "civiltà" mentre nel resto del mondo "nuovo" (a eccezione della Cina) tali popolazioni sembravano vivere ancora come bestie. Fu così che nacque, ufficialmente, il razzismo scientifico. Buffon fu il primo a utilizzare il termine "razza" per classificare le diverse etnie umane; termine utilizzato non solo in senso morfologico, ma anche per connotare le diverse facoltà morali e intellettuali delle popolazioni. Questa prima classificazione aprì la strada a tutte le teorie razziste dei secoli successivi; difatti, non appena l'uomo classifica qualcosa, tende a ordinarla secondo una scala di "valore" che va da ciò che è meno perfetto a ciò che è meno perfetto. Casualmente, la razza bianca fu individuata, già a partire dal 1700, quella più perfetta, per il proprio sviluppo morale, intellettuale e tecnologico e le altre vennero poste a un gradino inferiore, con la conseguente giustificazione dello schiavismo e del colonialismo. Scrive ad esempio Voltaire nel Saggio sui costumi: "I negri sono, per natura, gli schiavi degli altri uomini. Essi vengono dunque acquistati come bestie sulle coste dell'Africa; sempre secondo Voltaire, gli uomini bianchi sono : "superiori a questi negri, come i neri alle scimmie, e le scimmie alle ostriche"; o, ancora, sui Brasiliani nei Dialoghi e aneddoti filosofici: "Il brasiliano è un animale che non ha ancora raggiunto la maturazione della propria specie". Sulla stessa scia, scrisse Kant: "i negri d'Africa non possiedono per natura alcun sentimento più elevato della stupidità", e ancora: "il negro si colloca infatti al livello più basso tra quelli individuati in termini di diversità razziali". Su questa scia, dunque, continuò anche la mentalità ottocentesca e novecentesca, sia in ambito scientifico (fino, appunto, ad arrivare a Lombroso che tenterà definirà alcune razze più propense al crimine di altre, proprio a partire dalle distinzioni nate in seno all'illuminismo; per non parlare del razzismo tedesco), sia in ambito politico, sia con ideologie razziste sia con la giustificazione del colonialismo sia in Cina, sia in India, sia (ma quello andava avanti già da secoli) in Africa.


Per approfondire la questione, consiglio la lettura degli appunti del corso di Storia delle civiltà tenuto dalla professoressa Pizzetti presso la Statale di Milano sui viaggi di scoperta in America, Oceania e Cina e la ricezione degli europei della diversità: Storia delle civiltà e dei sistemi internazionali, Pizzetti, Appunti

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Daniele Palmieri

martedì 13 giugno 2017

Come il fascismo ha distorto il concetto di autarchia

Autarchia deriva dalla parola greca autarkheia, che letteralmente significa “bastare a se stessi”. Questa parola non indica un concetto filosofico astratto, bensì quello che potremmo definire un determinato approccio spirituale all’esistenza, dove con “spirituale” non bisogna intendere qualcosa di misterioso o spiritistico, ma in maniera molto concreta tutti i fenomeni della nostra interiorità (come le emozioni e gli stati d’animo). In particolare, l’autarchia è una condizione dell’animo del filosofo di assoluta imperturbabilità, che nulla o nessuno può strappargli, poiché egli sente che non ha bisogno d’altro al di là di se stesso.
Come tento di mostrare nel mio libro, Autarchia spirituale, edito da Anima edizioni, è un concetto di libertà in grado di trascendere sia la libertà contemporanea, intesa come mero appagamento delle proprie passioni, sia il concetto di libertà totalizzante e totalitario dell'individuo in balìa dei valori del proprio gruppo sociale.
Tuttavia, fu proprio uno dei grandi totalitarismi del XX secolo a riprendere il concetto di autarchia, addirittura per utilizzarlo nei propri poster di propaganda: il fascismo. Cosa c'entra il fascismo con l'autarchia se, come detto in precedenza, tale concetto filosofico va al di là di qualsiasi opprimente sistema politico e, anzi, tenta di liberare il soggetto da qualsiasi condizionamento, tanto interiore quanto esteriore?
Vi è stato quello che potremmo definire un “errore di percorso” a cui è stato soggetto il passaggio di testimone della parola “autarchia”, che ha portato tale concetto in maniera così distorta fino al fascismo da permettere alla propaganda di utilizzare questa parola per i propri poster. Ma cosa c’entra, dunque, il fascismo con l’autarchia e qual è stato questo errore di percorso?
Il “colpevole” di tale travisamento filosofico è stato un pensatore tedesco del XIX secolo, Fichte. Nel suo Lo stato commerciale chiuso, il filosofo applica infatti quello che è un concetto prettamente individuale, e che può darsi nella sua autenticità soltanto al singolo individuo, al mondo della collettività, ossia lo Stato. Secondo Fichte, lo Stato ideale è lo Stato autarchico, in grado di raggiungere l’assoluta indipendenza economica dagli stati circostanti e che, dunque, come sottolinea anche in Machiavelli scrittore, è in grado così di raggiungere una potenza tale non solo da non rischiare di essere invaso dagli stati circostanti, ma che può permettergi di dettar loro legge o attraverso l’esportazione dei propri prodotti o attraverso la guerra (con la consapevolezza che ogni Stato confinante sarà sempre una minaccia). Ma non solo; lo stesso concetto di “dominio di sé”, che nella filosofia antica è fondamentale al filosofo per raggiungere la libertà ma, al tempo stesso, è una scelta unicamente personale che non viene mai imposta al prossimo, in Fichte diventa prerogativa dello Stato. Lo Stato ha il diritto, l’obbligo e il dovere di educare i propri cittadini; è una grande potenza etica che, inevitabilmente, cade nel totalitarismo e nel governo forzato del prossimo, appiattendo ogni differenza ed eliminando chi non vuole allinearsi come un membro incancrenito, giacché lo Stato dev’essere un unico corpo sano.
Il fascismo, così come il nazismo, attinsero a piene mani da tale concezione e tentarono di raggiungere l’autarchia statale e il dominio etico del popolo, con risultati disastrosi. Difatti i concetti di autarchia e di dominio di sé sono, se scelti in autonomia e con consapevolezza, una via verso la liberazione, ma se imposti dallo Stato sono invece una costrizione; soffocano ogni forma di autentica libertà, forzando la vita privata delle persone e impedendo loro di scegliere consapevolmente la propria condotta di vita.

Come si è visto in precedenza, nessun filosofo antico avrebbe mai costretto un’altra persona ad assumere la sua condotta di vita; questo perché, pur possedendo una grande tensione verso il prossimo e una profonda sensibilità etica, era consapevole che soltanto l’autentica vocazione filosofica personale potesse condurre ai risultati ricercati, e che al contrario la costrizione avrebbe portato alla nascita di pessimi filosofi, poco convinti della propria condotta di vita e che, dunque, messi alla prova avrebbero tradito gli insegnamenti appresi.

Per approfondire il concetto di Autarchia, è possibile leggere Autarchia spirituale, edito da Anima edizioni

Daniele Palmieri

venerdì 18 marzo 2016

Hadot e il recupero della filosofia come esercizio spirituale

Molte persone associano la parola "filosofia" a quella materia strana, dal linguaggio astruso e poco comprensibile, che si occupa di problemi inestricabili e che si pone domande che non potrà mai risolvere. Di conseguenza il "filosofo" viene visto come quel personaggio alienato dal mondo, intento a riflettere sui massimi sistemi, la cui massima aspirazione è quella di figurare nei talk show televisivi come un pezzo d'arredo dalla sorprendente capacità di starnazzare come tutti gli altri partecipanti, ma con un linguaggio un po' più forbito.
Purtroppo è la filosofia stessa che, più o meno volontariamente, è andata a cacciarsi in questa situazione, a causa di alcuni atteggiamenti predominanti degli "addetti ai lavori" (perlomeno, di quelli più noti al grande pubblico) che in parte giustificano tutti questi pregiudizi.
L'opera filosofica (e filologica) di Pierre Hadot è volta proprio a "purificare" la filosofia da queste "deviazioni dialettiche", che rendono quello che dovrebbe essere il più importante esercizio di vita un mero esercizio eristico e sofistico.
E lo fa ripartendo dall'epoca d'oro della filosofia, che coincide proprio con il suo fiorire: il pensiero antico. Nelle sue opere principali, Esercizi spirituali e filosofia antica, Che cos'è la filosofia antica? e La filosofia come modo di vivere, lo storico della filosofia rilegge in un'ottica completamente diversa i filosofi greci e latini, allontanandosi dalla fossilizzata visione dei manuali accademici e restituendo ai pensatori classici la vitalità che era loro propria. La nuova prospettiva di Hadot è tanto semplice quanto geniale: la filosofia, per i filosofi antichi, non era un'astratta costruzione di sistemi teorici, ma un modo di vivere. Mentre Platone scriveva i suoi Dialoghi, Aristotele le sue lezioni per il Liceo, Epicuro le lettere a Meneceo e ai suoi amici, Marco Aurelio i propri Ricordi, la loro finalità non era quella di formulare un sistema filosofico astratto, che fossilizzasse in un testo scritto la loro visione generale del mondo. Essa esisteva, senz'altro, nelle menti di Platone, Aristotele, Epicuro o Marco Aurelio, ma rimaneva soltanto presupposta alle loro opere che erano scritti contingenti, legati all'esigenza pratica di trasmettere i propri insegnamenti a un gruppo di allievi, di alleviare i dolori di un amico, di riportare le discussioni avvenute durante le lezioni, di meditare costantemente sui principi fondanti della propria vita. In tutti questi casi la scrittura filosofica ha un unico fine: quello di trovare uno stile di vita consapevole che permetta al filosofo di vivere in maniera autentica, senza lasciarsi condizionare né dai luoghi comuni né dalla massa né dal potere.
Una maniera di vivere che non poteva certo coincidere con il semplice discorso filosofico astratto. Quest'ultimo è, appunto, soltanto un "discorso" e in quanto tale è destinato a rimanere una vacua parola se ad esso non segue una pratica costante che permetta al filosofo di diventare tutt'uno con il proprio pensiero, ossia di vivere seguendo principi filosofici ben precisi, senza mai abbandonarli.
Secondo Hadot, iniziatore di questo genere di "vita filosofica" è stato Socrate, un pensatore che, pur non avendo scritto nulla, ha avuto un impatto rivoluzionario sulla storia della filosofia occidentale, proprio perché nella sua figura vita e filosofia sono un tutt'uno. Come scrive il filosofo francese in Che cos'è la filosofia
antica?: "Socrate è un pensatore esistente prima ancora di essere un filosofo che medita sull'esistenza", un pensatore che rese la sua stessa vita un insegnamento filosofico, tramite l'esempio della propria integrità morale.
La sua fu una vera e propria rivoluzione filosofica. Nessun pensatore, prima di lui, aveva avuto lo stesso impatto sulla vita di una città né era stato in grado di metterne in discussione in maniera così profonda le consuetudini.
Una saldezza d'animo che, secondo Hadot, derivava da un continuo esercizio spirituale volto a temprare la propria psyché per prepararla a ogni avversità.
E' Platone stesso a rappresentare Socrate immerso in profonde sessioni di meditazione, durante le quali si ritirava in se stesso senza essere minimamente scalfito dal mondo esterno; oppure mentre esorta i discepoli ad esercitarsi a morire, poiché soltanto chi ha superato la paura della morte può godere davvero di ogni momento della vita; infine, a conoscere e a prendersi cura della propria psyché, la vera essenza di ciascun uomo che nasconde l'unica chiave per la felicità personale.
Come anticipato in precedenza, pur non aver teorizzato nulla di preciso Socrate fu il più grande dei maestri, e lo dimostrano le innumerevoli ed eterogenee scuole filosofiche che i suoi discepoli fondarono in seguito alla condanna a morte.
Platone e il platonismo (da cui deriveranno Aristotele e l'aristotelismo), Diogene e il cinismo, Aristippo e la scuola cirenaica (che porranno le basi per lo stoicismo e l'epicureismo). In ciascuna di esse v'è una stretta correlazione tra pensiero e vita. Le stesse "scuole" non erano semplici luoghi di studio, ma vere e proprio fucine spirituali. Il filosofo non vi entrava per imparare aride nozioni, ma lo faceva per cambiare radicalmente condotta di vita. Era una vera e propria conversione laica, poiché scegliere la scuola stoica piuttosto che quella platonica, cinica, pitagorica o aristotelica significava iniziare a vivere secondo principi ben determinati e plasmare la propria psyché tramite assidui esercizi spirituali (di cui ho parlato nell'articolo La filosofia come esercizio di vita).
Secondo Hadot, il declino di tale concezione avvenne con l'avvento del cristianesimo che, se nelle fasi iniziali della sua diffusione assimilò la visione classica ponendosi come la condotta di vita filosofica perfetta, quando si affermò come religione predominante surclassò e represse le diverse scuole, non potendo tollerare modi di vivere diversi da quello cristiano.
Inoltre, fu sempre il cristianesimo ad allontanare la filosofia dalla vita quotidiana, rendendola succube delle istanze teologiche e facendo vertere la discussione teorica su problemi sempre più astratti e lontani dal mondo "terreno" quali l'esistenza di Dio, la trinità, gli universali, la natura di Cristo e simili.
Uno iato tra discorso filosofico e vita che si inasprì con un altro passaggio importante per l'evolversi della filosofia, ossia la nascita delle università. Benché importanti centri di cultura, in esse la filosofia divenne una materia tra le altre e il "filosofo" non più la persona che viveva seguendo determinati principi, bensì un professionista il cui compito era quello di formare altri professionisti, una concezione che si propagò nel tempo anche quando la filosofia recuperò la propria indipendenza dalla teologia e quando le università si affrancarono dal dominio religioso, laicizzandosi.
Tale visione è quella che, ancora al giorno d'oggi, va per la maggiore. Dall'ottocento in poi i principali filosofi furono soprattutto professori universitari e i più noti, come Hegel, Heidegger, Husserl (per citare alcuni nomi), contraddistinti da un linguaggio spesso verboso e incomprensibile, molto diverso da quello semplice, chiaro e diretto dei filosofi antichi che permetteva a chiunque di avvicinarsi alla materia (e non è semplice retorica, giacché molte scuole filosofiche del passato, come quella stoica ed epicurea, erano aperte a uomini e donne, liberi e schiavi). Una triste "usanza" ancora viva nel XXI secolo, soprattutto in Italia dove i "filosofi" più conosciuti sono popolatori di talk show, fabbricatori di supercazzole, scribacchini di libri vuoti con lo stesso concetto ripetuto all'infinito, e individui dalla dubbia condotta morale che si permettono di copiare testi altrui (per lo più di dottorandi) spacciandoli per propri.
Con ciò non si vuole certo mettere in discussione l'importanza dell'insegnamento filosofico (il che sarebbe paradossale, visto che Hadot stesso era un professore di filosofia e io stesso ho studiato filosofia in università), tuttavia si vuole fare una netta e importante distinzione tra discorso filosofico fine a se stesso e discorso filosofico preparatorio alla vita. Il primo è materia da setta esoterica chiusa su se stessa e, riformulando un esempio di Wittgenstein, ha senso soltanto finché ci si trova seduti in un salotto a discutere, ma sembra perdere ogni attinenza con il reale quando si abbandona la poltrona e si esce all'aria aperta. Questo tipo di discorso relega la filosofia all'ambiente universitario, la rende materia da élite, un affronto alla stessa pratica filosofica che è nata, appunto, come un richiamo all'azione atto a rivoluzionare gli schemi tradizionali tramandati dalla consuetudine, dal potere, dalle convenzioni.
Al contrario, il discorso filosofico preparatorio alla vita è un'estensione della vita stessa. Esso è profondamente radicato nell'esistenza, il suo compito è quello di fornire all'uomo gli strumenti spirituali per affrontare le asperità della vita mediante la conoscenza, rendendo così il suo animo inossidabile come l'acciaio.
Ma nel momento in cui i filosofi (o presunti tali) rimangono trincerati nei corridoi accademici, la filosofia (e, di conseguenza, il filosofo) appassisce, come un fiore lasciato senz'acqua. E' questo, in sostanza, il messaggio più importante dell'opera di Hadot.

Daniele Palmieri

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domenica 6 marzo 2016

La filosofia come esercizio di vita

Lo stretto legame tra filosofia e vita delle scuole ellenistiche e romane

Marco Aurelio, imperatore e filosofo stoico
Per le scuole Ellenistiche e Romane accostarsi alla Filosofia significava sconvolgere il proprio stile di vita; era una vera e propria conversione laica che permetteva di passare da una vita inautentica a una vita autentica. Passaggio possibile solamente acquisendo la consapevolezza delle proprie azioni e dei propri desideri; si poteva così cominciare a vivere, ossia comprendere per cosa vale la pena farlo e agire di conseguenza.[1] Un agire che diventa essenzialmente agire etico, poiché l’azione etica è l’unica che possa dipendere dalla nostra volontà. Con l’acuirsi della consapevolezza dell’altro e di un Mondo dai confini indefiniti, si passa da una prospettiva egocentrica e antropocentrica a una cosmopolitica e universale, che spianerà la strada all’ideale di humanitas importato dalla Grecia nell’Impero Romano dal circolo degli Scipioni.[2]
Tuttavia, questa variazione di prospettiva non è per nulla semplice, poiché essa rivoluziona la concezione che si ha non solo del Cosmo, ma anche della realtà interiore e della realtà sociale, in particolar modo dei nostri doveri verso gli altri e delle nostre esigenze.
Il cambiamento non può essere conquistato da un giorno all’altro, ma richiede inevitabilmente un esercizio costante volto a plasmare lo spirito del singolo e a fargli acquisire il pieno controllo delle proprie facoltà razionali.
Ciò è possibile tramite l’acquisizione di principi etici che non devono mai abbandonare il filosofo per l’intero decorso della sua esistenza; perciò essi devono essere semplici e immediati e devono rifarsi a un principio comune, fondamento e allo stesso tempo fine della propria vita. Tali principi devono permettere al filosofo di possedere in ogni momento il pieno controllo delle proprie facoltà, dimodoché le sue azioni siano sempre dettate non dall’impulso ma dalla libera volontà.[3] È lo stesso concetto che si trova già espresso ne l’Etica Nicomachea di Aristotele, in cui il Filosofo sostiene che l’uomo virtuoso è colui il quale agisce liberamente scegliendo la virtù, non perché costretto dalla legge, ma poiché comprende che essa è la migliore tra le scelte possibili; l’uomo virtuoso, di conseguenza, è felice poiché il suo fine è la virtù in sé e non il proseguimento della virtù per scopi egoistici.
Una vigilanza del genere implica un controllo assiduo sul momento presente, poiché la pratica della virtù è tale soltanto se esercitata con costanza e non a intervalli irregolari.[4]
Ed è qui che entrano in gioco gli esercizi spirituali prescritti dallo Stoicismo. Purtroppo, non sono stati tramandati trattati sistematici che descrivano con precisione questo tipo di esercizi; tuttavia, è possibile rifarsi alla testimonianza di Filone di Alessandria, che ne L’erede delle cose divine elenca le diverse fasi da percorrere.[5]
Le prime fasi, che possiamo riunire in un unico gruppo, sono composte dalla ricerca, dall’esame approfondito, dalla lettura, dall’ascolto e dall’attenzione. Come è possibile notare, i primi esercizi sono prettamente “passivi”, dedicati all’apprendimento dello stile di vita della Stoà mediante uno studio approfondito, sia tramite la lettura e una comprensione profonda dei libri della scuola sia ascoltando e prestando attenzione alle parole dei maestri. È il primo gradino dell’iniziato alla Filosofia, apparentemente il più semplice ma in realtà molto importante; la Sophia tramandata dalla scuola deve penetrare nella propria vita e legarsi indissolubilmente a essa. Ogni branca del sapere trasmesso è tesa al perfezionamento interiore, la cui immagine più esplicativa è quella, sempre dello Stoicismo, che vede la Filosofia come un organismo in cui la Logica sono le ossa, la Fisica il corpo e l’Etica la mente. Assumendo tale prospettiva, il novizio che studia gli insegnamenti della Stoà comincia a irrobustire le ossa e il corpo, requisito essenziale per riuscire a sviluppare una mente in grado di dirigere in maniera compiuta le sue azioni.
Il secondo gruppo comprende invece il dominio di sé, l’indifferenza verso le cose indifferenti, la meditazione, la terapia delle passioni, il ricordo di ciò che è bene e il compimento dei doveri. Si entra nella parte più importante dell’esercizio spirituale dello Stoicismo; l’allievo è tenuto a mettere in atto ciò che ha appreso mediante una pratica continua che lo porti ad avere il perfetto controllo sulle proprie azioni.
Il dominio di sé si rivela, dunque, l’aspetto essenziale dell’insegnamento, e ogni sforzo è teso in tale direzione. Dominio che si deve attuare innanzitutto prendendo le redini della parte della nostra anima più incontrollabile: le passioni.
Sia nello Stoicismo sia nell’Epicureismo la Filosofia è un pharmakos volto a lenire il dolore provocato dalle passioni, un male spirituale molto più grave del male fisico, poiché se quest’ultimo ci è assegnato dalla sorte, il primo siamo noi a volerlo e, allo stesso tempo, è nostro dovere estirparlo. Se prima non si guarisce da questa malattia è impossibile poter agire moralmente all’interno della comunità, per poter migliorare non solo se stessi ma anche il mondo sociale che ci circonda.
Tale guarigione vuole stimolare un senso di felicità più profondo, indipendente dai beni esterni e da tutto ciò che è fugace, una semplice ma autentica gioia di esistere, che aiuta l’uomo a liberarsi delle proprie paure infondate e dalle preoccupazioni che gli sottraggono non soltanto il tempo, ma soprattutto la forza vitale.[6]
In questa direzione, diventa di primaria importanza un esercizio citato in precedenza: la meditazione, da non confondere con la meditazione propugnata da un certo orientalismo semplificatore che ne ha ormai stereotipato la pratica.
La meditazione all’interno dello Stoicismo e, in generale, delle scuole di vita, si attua in modalità completamente diverse dal concetto comune di meditazione.
Essa si pratica in due modi: con un perpetuo soliloquio con se stessi e con la contemplazione consapevole della natura.
Per quanto riguarda il primo esercizio, una delle descrizioni migliori è quella che dà Seneca nel De ira:
«Io mi avvalgo di questa possibilità, e mi metto sotto processo ogni giorno. Quando hanno portato via la lucerna e mia moglie, che conosce la mia abitudine, tace, io scruto l’intera mia giornata e controllo tutte le mie parole e azioni, senza nascondermi nulla. […] Diamo pace al nostro animo, quella pace che deriva dalla continua meditazione dei dettami salutari, dalle azioni buone e da una mente intenta a desiderare solo la virtù. Pensiamo a soddisfare la nostra coscienza, senza preoccuparci della fama.»[7]

Esso consiste in un continuo dialogo interiore, per riportare alla mente i principi della scuola e vagliare la propria psyché per assicurarsi dei risultati raggiunti. In questa prospettiva la scrittura stessa diviene una forma di meditazione, un diario personale espressione di un continuo ruminare (utilizzando un termine nietzschiano), con lo scopo di assorbire gli insegnamenti filosofici e vagliare i propri progressi. Emblema di tale forma di esercizio sono le Lettere a Lucilio, sempre dello stesso Seneca, che prima ancora di essere lettere indirizzate all’amico erano meditazioni che il filosofo romano riservava a se stesso.
La funzione propedeutica della scrittura si rivela in forma ancora più accentuata nei Ricordi di Marco Aurelio, che rappresentano un prezioso esempio di come la meditazione filosofica scritta fosse un esercizio precisamente strutturato.[8]
Scrive infatti Hadot:

«I pensieri di Marco Aurelio […] ci conservano un notevole esempio di un genere letterario che doveva essere molto frequente nell’antichità, ma che il suo stesso carattere destinava a scomparire facilmente: gli esercizi di meditazione affidati a un testo scritto. Come vedremo ora, le formule pessimistiche di Marco Aurelio non sono l’espressione delle opinioni personali di un imperatore deluso, sono esercizi spirituali praticati secondo metodi rigorosi.»[9]

Difatti, oltre al vaglio dei propri progressi, un secondo esercizio di scrittura meditativa, ricorrente nei Ricordi, consiste nell’isolare col pensiero un momento di continuità temporale, anche un semplice avvenimento di vita quotidiana, per poi passare dalla parte al tutto. Lo scopo è inquadrare tale avvenimento in una visione complessiva del cosmo, prendendo così coscienza sia della vanità delle cose sia dell’importanza di cogliere al meglio il momento presente:


«Nulla può accadere a nessun uomo che non sia vicenda pertinente all’ordine umano. Del resto a un bove nulla può accadere che non sia bovino; a una vigna nulla che non appartenga all’ordine delle viti; né a una pietra cosa estranea all’ordine petrigno.

Conseguenza: se a ciascuna cosa accade sempre quello che rientra nell’ordine suo normale e nell’ordine naturale, per quale motivo dovresti tu fare il difficile?

Vedi bene che la comune natura non intende recarti nulla che tu non possa sopportare.»[10]
 Ed è proprio l’esercitarsi alla sopportazione la terza finalità del continuo soliloquio con se stessi; paventarsi possibili disgrazie future, avere ben chiara in mente la loro realizzazione come se si stessero svolgendo in questo momento per essere spiritualmente preparati una volta che diverranno realtà e abituarsi così alla fugacità.
Citando le parole di Epitteto riportate nel Manuale:

«Non dire mai di nessuna cosa: “l’ho persa”, ma “l’ho restituita”. È morto tuo figlio? È stato solo restituito. È morta tua moglie? È stata solo restituita. “Mi è stato tolto il podere”: no, anche questo è stato solo restituito. “Ma chi me l’ha portato via è un malvagio”: che cosa ti importa attraverso chi, colui che te lo aveva dato, ne ha chiesto la restituzione. Finché te lo concede, abbine cura come di una cosa altrui, come fanno i viaggiatori in una locanda.»[11]

Al di là del soliloquio con se stessi vi è la contemplazione della natura, che nella visione filosofica antica consisteva nello studio della fisica e degli eventi naturali.
Lungi dall’essere un semplice interesse di eruditismo o, come nei giorni nostri, un mero strumento in mano allo scientismo, lo studio della fisica era un gradino di elevazione spirituale, che proprio nella sua componente contemplativa permetteva all’animo di nobilitarsi, di astrarsi dalle questioni volgari quotidiane per innalzarsi a un livello di coscienza superiore. Come scrive Seneca in una lettera a Lucilio:

«Perché mai, tu dici, ti piace consumare il tempo in codesti problemi che non ti tolgono alcun tormento dell’animo, che non annullano alcun desiderio importuno? Quanto a e, affronto e porto avanti preferibilmente quei temi con cui l’animo si placa, e analizzo dapprima me stesso, poi l’universo. Nemmeno ora perdo tempo, come tu credi: di fatti, tutti questi argomenti, purché non vengano sminuzzati e distorti da varie sottigliezze, elevano e confortano l’animo, che, oppresso da un greve fardello, desidera liberarsene e tornare a quegli elementi di cui era stato parte integrante.»[12]

La contemplazione consapevole della natura e la dissoluzione razionale della propria psyché in essa (e non più estatica come nei culti misterici) libera l’uomo dalle sue catene e allo stesso tempo infonde in lui il piacere della conoscenza, nonché il piacere estetico delle bellezze naturali, dell’ordine intrinseco del cosmo espressione del Lògos divino che regola ogni cosa. In quest’ottica, gli esempi principali sono il De rerum naturae di Lucrezio e le Naturales quaestiones di Seneca.
Dalla meditazione e dalla contemplazione si passa poi all’esercizio della vita attiva, nel già citato controllo di sé, nell’indifferenza verso ciò che è caduco e soprattutto nel compimento dei propri doveri.[13]
Quest’ultimo passo è fondamentale; senza l’applicazione concreta nelle azioni la filosofia resta un vano esercizio. Sarà proprio la capacità dello Stoicismo nel dettare ben precise condotte di vita a far diventare tale filosofia la scuola dove si formerà l’intera classe dirigente dell’Impero Romano. Difatti, il proprio dovere consiste essenzialmente nell’agire morale ne confronti del prossimo e, di conseguenza, in una vita impegnata al perfezionamento degli altri e di sé, con la partecipazione alla vita pubblica. In tale prospettiva il dovere viene prima del diritto e, anzi, il diritto è una diretta conseguenza del dovere.
Soltanto l’uomo che agisce seguendo la libera ma necessaria volontà morale adempie al proprio dovere e, di conseguenza, comprende qual è il suo ruolo nella società e cosa ha il diritto di fare e di volere.
Una volta indirizzato su questa strada, il compito del filosofo è appena cominciato; gli anni dinnanzi a lui sono lunghi e il suo compito è praticare gli insegnamenti con costanza, senza mai sviare dalla strada né perdere di vista i propri punti fermi, soprattutto senza perdere la capacità di meravigliarsi poiché:

«a un uomo saggio rimarrà sempre qualcosa da scoprire, da portare alla luce, qualche verità in cui l’animo possa spaziare.»[14]


Daniele Palmieri
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[1] P. Hadot, La filosofia come esercizio spirituale, Giulio Einaudi Edizioni,  pp. 32.

[2] Cfr. ibidem, pp. 33.

[3] Cfr. ibidem, pp. 34.

[4] Cfr. ibidem, pp. 35.

[5] Cfr. ibidem, pp. 34.

[6] Cfr. ibidem, pp. 39.

[7] Seneca, De ira, III 36, 3; 41, 1, trad. di A. Marastoni in Tutte le opere, a cura di G. Reale, Bompiani (2000), pp. 115, 117.

[8] P. Hadot, La fisica come esercizio spirituale, in Esercizi spirituali di filosofia antica, Einaudi, pp. 119-133.

[9] Cfr. ibidem, pp. 123.

[10] Marco Aurelio, Ricordi VIII, 46, trad. di Enrico Turolla, Biblioteca Universare Rizzoli (1997), Milano 2004, pp. 329.

[11] Epitteto, Manuale 12, trad. di Martino Menghi, RCS MediaGroup S.p.A., Lavis (TN) 2012, pp. 14.

[12] Seneca, Lettere a Lucilio VII 65, a cura di Fernando Solinas, Mondadori (1994), Torino 2011, pp. 180.

[13] P. Hadot, Esercizi spirituali, in Esercizi spirituali di filosofia antica, Einaudi, pp. 39.

[14] Seneca, Lettere a Lucilio XVII 109, a cura di Fernando Solinas, Mondadori (1994), Torino 2011, pp. 464.

 

giovedì 28 maggio 2015

Storia della filosofia, lezione 4: Eraclito e Lao-tze

Gli opposti di Eraclito e Lao-tze e la fisica moderna



Il premio Nobel per la fisica Eisenberg, nel testo "Fisica e filosofia" (già citato in questo articolo), ritiene che la visione eraclitea di universo come "Fuoco" è la più vicina dell'antichità alla visione che la fisica moderna ha del cosmo.
 "Se sostituiamo la parola fuoco con la parola energia possiamo ripetere le sue affermazioni parola per parola dal nostro moderno punto di vista".
Affermazione molto pregnante che mette in luce, ancora una volta, la straordinaria capacità intuitiva dei greci.
Ma non è su questo testo che voglio soffermarmi, bensì su un altro notissimo capolavoro che tenta di compiere un sincretismo tra filosofia orientale e fisica moderna.
Sto parlando de Il Tao della fisica di Fritjof Capra.
In particolare, intendo analizzare la questione che più accomuna i due filosofi della lezione (Eraclito e Lao-Tze), ossia la questione degli opposti e della loro unificazione.
Sia Lao-tze sia Eraclito riconoscono l'esistenza di forze opposte, ma lungi dal cadere nelle stereotipo comune della loro semplice contrapposizione, elevano la propria coscienza a uno stato superiore per avere una visione d'insieme e riconoscere come gli opposti siano in realtà una cosa sola, due facce della stessa medaglia.
Nel capitolo 11 de Il tao della fisica, Fritjof Capra descrive come nella fisica moderna a livello subatomico si trovino esempi di unificazione di concetti opposti; particelle distruttibili e indistruttibili, materia continua e discontinua, forza e materia che si mostrano come due aspetti differenti della stessa realtà.
In tutto ciò, gioca un ruolo fondamentale la teoria della Relatività, che più di tutte ha messo in crisi la dicotomia più profondamente radicata nella mente dell'uomo, ossia quella dello spazio e del tempo, ormai unificati e inscindibili.
"Come avviene per l'unità degli opposti di cui fanno esperienza i mistici, essa si verifica a un livello superiore, cioè con una ulteriore dimensione, e si presenta come un'unità dinamica, perché lo spazio-tempo relativistico è una realtà intrinsecamente dinamica nella quale gli oggetti sono anche processi e tutte le forme sono configurazioni dinamiche".
Il fisico sottolinea sia l'unità sia la dinamicità degli opposti; il loro apparente conflitto fa parte in realtà di un Tutto strutturato in continuo divenire, il cui principio fondante è il divenire stesso, che può essere colto allargando lo sguardo ed evadendo dalla percezione quotidiana che abbiamo del mondo.
Usando le parole di Eraclito:
"Negli stessi fiumi entriamo e non entriamo, siamo e non siamo"
 A cui Lao-tze risponde dicendo:
"Le diecimila creature che sono sotto il cielo/hanno vita dall'essere/l'essere ha vita dal non essere". 
Ed è proprio quest'ultimo concetto quello più innovativo e sorprendente delle teorie di Eraclito e di Lao-tze.
Difatti, nei secoli successivi prenderà il sopravvento la teoria di Parmenide secondo la quale "l'essere è e il non essere non è" e la concezione di Eraclito verrà abbandonata, in quanto paradossale.
Ma come sottolinea Fritjof Capra, la fisica quantistica sta riscoprendo quella che è, a tutti gli effetti, una realtà paradossale.
A livello subatomico non è mai possibile stabilire se una particella è o non è, poiché ciò che muta non è lo stato della particella nei rigidi termini opposti di "essere e non-essere", bensì la distribuzione di probabilità.
In un certo punto dello spazio la particella non è né presente né assente; ciò che è possibile riscontrare è soltanto la tendenza che essa ha ad esistere in dati luoghi, la probabilità che essa ha di trovarsi in un luogo piuttosto che nell'altro.
Ed è proprio da questo paradosso che prende vita la nostra esistenza, apparentemente semplice ma che nasconde, ad ogni piano di realtà che percorriamo, misteri sempre più oscuri e incomprensibili se si rimane ancorati alle leggi dell'apparenza.

Testi di riferimento:

Il tao della fisica - Fritjof Capra (Download)

Dell'Origine - Eraclito

Tao te ching - Lao Tze (Download)

Daniele Palmieri

mercoledì 20 maggio 2015

Storia della filosofia, lezione 3: Talete, Anassimandro e Anassimene

Eisenberg e l'intuizione fisica dei greci



Con questa terza lezione di Storia della filosofia ci addentriamo nel pensiero filosofico vero e proprio; lo facciamo affrontando le teorie dei primi tre filosofi della storia: Talete, Anassimandro e Anassimene.
Pionieri di una filosofia e una scienza ancora in stato embrionale, le loro intuizioni influenzeranno non solo la filosofia antica, ma tutto il pensiero occidentale.

In questo breve approfondimento voglio focalizzare l'attenzione su un testo di Werner Heisenberg e sul filo ininterrotto che collega le intuizioni dei filosofi naturalisti con la fisica moderna.
Heisenberg è stato uno dei più importanti fisici del Novecento, nonché premio Nobel nel 1932 per la creazione della Meccanica Quantistica.
Nel suo libro, Fisica e filosofia, analizza l'importanza che i concetti filosofici hanno avuto per l'evoluzione della scienza e, allo stesso tempo, come le nuove scoperte fisiche stanno influenzando i concetti filosofici.
Nel capitolo L'interpretazione di Copenaghen della teoria dei quanta, Heisenberg si sofferma sui filosofi naturalisti, esponendo le loro teorie con un veloce e puntuale excursus.
In particolare, rileva come ogni intuizione di questi filosofi sia tesa a risolvere due problemi fondamentali: il rilevamento della sostanzia primaria e se essa sia una sostanza conosciuta o qualcosa di completamente diverso.
La stessa cosa avviene nella fisica atomica moderna.
"I fisici cercano oggi di trovare per la materia una legge fondamentale del movimento da cui possano derivarsi matematicamente tutte le particelle elementari e le loro proprietà." 
E questa ricerca può condurre a due risultati; l'equazione può riferirsi o a onde di tipo noto (di protoni e mesoni), o a onde di carattere completamente diverso, che non hanno nulla a che fare con le particelle elementari.
Stando a quanto riporta Heisenberg, la seconda opzione è quella seguita dai ricercatori, che ha come conseguenza la riduzione di tutte le particelle elementari ad un principio (un arché, utilizzando la terminologia greca) che può essere chiamato "energia" o "materia", ma che non preferirebbe una particella elementare piuttosto di un'altra.
Da questo punto di vista, il primo a intuire un principio di questo genere è proprio Anassimandro, con la teoria dell'apeiron che vi invito ad approfondire nella terza lezione di Storia della filosofia.
Al contrario, Talete e Anassimene si inserirebbero nella prima linea di ricerca.
L'analisi di Heisenberg continua poi con l'esposizione delle dottrine di Eraclito, il filosofo antico che più di tutti si avvicina all'ideale del cosmo così come delineato dalla scienza, ma che sarà argomento della prossima lezione.

Testo di riferimento: Fisica e filosofia - Werner Heisenberg

Daniele Palmieri

giovedì 14 maggio 2015

Storia della filosofia, lezione 2: Misteri Eleusini e Misteri Orfici

Nietzsche, Colli, Reale e la Sapienza dell'Antica Grecia.



La seconda lezione di Storia della Filosofia è dedicata a quello che è stato il terreno fertile per la nascita del pensiero filosofico greco; sto parlando dei Misteri di Eleusi e dei Misteri Orfici.
Culti misterici di certo più vicini alla Religione che alla Filosofia; nonostante ciò, proprio le intuizioni di questi culti religiosi introducono qualcosa di nuovo, introducono idee che faranno la storia della Filosofia ed è impossibile ignorarli se si vuole comprendere lo spirito della Filosofia Antica.

I tre filosofi che più hanno sottolineato l'importanza della Sapienza Greca Arcaica sono stati Nietzsche, Giorgio Colli e Giovanni Reale, anche se in modi diversi.

Nietzsche ne La nascita della tragedia ritiene che questa Sapienza incarni il vertice più alto della cultura greca; in particolare, la fa coincidere con quello che egli chiama lo spirito dionisiaco.
Tale Sapienza è marcata da un profondo pessimismo nei confronti della vita e gli antichi culti orfici, tramite i loro riti orgiastici, lasciando libero sfogo agli istinti irrazionali umani permettono all'uomo di guardare direttamente in questo abisso e innalzare il proprio inno alla vita.
In tale prospettiva, la Filosofia affermatasi da Socrate in poi sarebbe in realtà espressione di una decadenza; una filosofia che intende riportare ordine alle cose, che intende frenare lo spirito dionisiaco e imporre quello che egli chiama lo spirito apollineo.

Giorgio Colli si rifà, in parte, alla tradizione nietzschiana ma nel breve e intenso saggio La nascita della filosofia sottolinea come il dio Apollo non possa essere accostato alla mera razionalità, come fa Nietzsche.
Apollo è espressione, oltre che della Bellezza e dell'Ordine, anche della distruzione, della ferocia, delle potenze telluriche.
La Sapienza greca e i culti misterici nascono dall'ispirazione di entrambi gli déi, Apollo e Dioniso.
La Filosofia sorge in risposta a queste forze primordiali, nel tentativo di disinnescarle, e in questo senso è espressione di una decadenza che tenta di abbandonare quella che è la vera Sapienza greca.

Giovanni Reale fa parte di una tradizione diametralmente opposta a quella di Colli e di Nietzsche, ossia della tradizione Cristiano/cattolica che sottolinea la continuità tra pensiero greco e cristianità.
Per quanto riguarda i misteri orfici, nel primo volume della sua Storia della filosofia Antica edita da Bompiani, Reale rileva un filo conduttore tra Sapienza Arcaica e Filosofia.
In particolare, i concetti di anima personale e di purificazione morale introdotti dall'orfismo avrebbero spianato la strada alla filosofia socratica e platonica, che ne avrebbero sviluppato a pieno le potenzialità.

Per maggiori informazioni sull'importanza dei misteri Eleusini e dei Misteri Orfici, il video della seconda Lezione di Storia della filosofia girato da Nero d'inchiostro.

fonti: 




Daniele Palmieri

martedì 12 maggio 2015

Storia della filosofia, lezione 1: la filosofia è inutile?

Un viaggio attraverso i filosofi e le idee che hanno fatto la storia della materia



Con questo primo video, alquanto impacciato e amatoriale, inauguro una serie di lezioni di Storia della Filosofia Occidentale.
E' una lezione introduttiva in cui cerco di sfatare i luoghi comuni che solitamente vengono attribuiti alla Filosofia e con cui tento di trasmettere lo spirito con il quale vivo la materia.
Nelle successive lezioni comincerò la trattazione storico/filosofica vera e propria, senza la pretesa di fornire una ricostruzione esaustiva ma nella speranza di incoraggiare chi è a digiuno della materia ad approfondire gli argomenti trattati.
L'idea nasce infatti con l'intento di promuovere la cultura filosofica all'infuori del ristretto ambito universitario, poiché ritengo che la Filosofia sia una materia fondamentale per sviluppare il giudizio critico necessario per muoversi nel mondo e diventare soggetti attivi consapevoli.
Questo amore nei confronti della materia nasce grazie a un grande professore di Filosofia che ho avuto alle superiori, il quale a sua volta si era innamorato della materia grazie a un suo professore.
Mi sento dunque parte di questa linea di discendenza filosofica e percepisco dentro di me il dovere morale di tramandare tale lascito, nei limiti delle mie possibilità.

Consigli, pareri, domande, opinioni sono più che ben accette.

Daniele Palmieri