lunedì 22 novembre 2021

Svela l'io sono e poi uccidilo. L'insegnamento di Nisargadatta Maharaj

Maruti Kampli nacque a Bombay nell'ormai lontano 1897 e passò gran parte della sua vita a vendere "bidi", delle sottili sigarette indiane, in una piccola bottega situata in un quartiere periferico, immerso nel caos della vita cittadina. All'età di trentacinque anni, tuttavia, la sua vita normale ebbe una svolta; egli incontrò Sri Siddharameshwar Maharaj. Il maestro spirituale non si dilungò in lunghi discorsi, ma glie rivelò una breve, lapidaria, massima su cui riflettere: "Tu sei l'Ultima realtà, l'Assoluto". Maruti Kampli passò tre anni a meditare su questa frase, abbandonando tutto, finché, un giorno, non penetrò nel mistero del suo significato e, da qui, nel segreto ultimo della realtà. Fu così che si realizzò, che abbandonò le vesti mortali del semplice venditore di tabacco per diventare l'immortale Nisargadatta Maharaj. 
La sua vita "di superficie", in realtà, non cambiò molto e, anzi, sembrò fare un passo indietro. Dopo le lunghe pratiche di ascesi, meditazione e silenzio comprese, di fronte alla rivelazione ultima, che tutti quegli sforzi non avevano mai avuto alcun significato. Tornò così alla sua esistenza precedente, ricongiungendosi con i familiari e con l'attività che aveva momentaneamente abbandonato. 
Eppure, sotto la superficie, qualcosa in lui era trasmutato. Il corpo - o corpo-cibo, come lo definisce lui - ormai agiva in automatico, come l'automa che era sempre stato. Ma dietro questa maschera, a questo burattino degno dei racconti di Thomas Ligotti, non vi era più imprigionata alcuna coscienza. Quella si era liberata; o, meglio, Nisargadatta si era liberato sia delle sbarre del corpo sia del secondino più crudele, la coscienza stessa. 
L'unica differenza esteriore fu la nuova clientela che Nisargadatta aveva attirato nel suo negozio. Non solo i soliti tabagisti, ma una numerosa sequela di pellegrini giunti ad ascoltare i suoi discorsi, molti dei quali furono trascritti per essere tramandati ai posteri.
Nisargadatta fu trasformato, involontariamente, in un Guru, anche se lui un Guru non volle mai essere e, di certo, non fu una maschera che indossò, come molti volti noti della spiritualità indiana "di massa" confezionata a uso e consumo dell'Occidentale. Nelle sue tasche non entrò un soldo in più, se non quello derivante da qualche confezione di "bidi" venduta ai nuovi arrivati.
L'insegnamento di Nisargadatta, tramandato dalle numerose conversazione trascritte dai discepoli, è quanto di più "spiritualmente antimoderno" si possa concepire - se, con "modernità" vogliamo intendere l'idea che il fine dell'uomo sia quello di produrre, lavorare e consumare, e di dar vita ad altre coscienze che continuino a fare ruotare questa perenne ruota karmica. E all'interno di questa cornice ritagliarsi una pseudo-spiritualità che possa essere funzionale alla catena produttiva. Una spiritualità, cioè, che funga da "valvola di sfogo dello stress" o che lo convinca ad accettare il principale dogma dell'età moderna: l'ego, e tutto ciò che all'ego appartiene, interiormente ed esteriormente.
Scherzando, in uno dei dialoghi contenuto in Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium edizioni, Nisargadatta dice che gran parte dei pellegrini, soprattutto occidentali, che lo raggiungono vanno via contrariati quando l'unica risposta ricevuta consiste nella rivelazione della loro non-esistenza. La negazione dell'ego, dell'io, non vi è forse tabù più grande per l'uomo occidentale, soprattutto in questi secoli.
Eppure, l'insegnamento di Nisargadatta spinge inevitabilmente verso questa direzione. Sempre con una certa ironia, dice in uno dei suoi dialoghi: "Molte persone erudite, che conoscono profondamente le scritture, vengono qui a parlare con me. Io non discuto con loro, non mi metto a discutere le loro idee, non voglio contrariarle. Ma dopo che hanno finito di parlare, dico: "Tutto quello che avete detto è vero; ma ricordatevi una cosa: quello che siete ora, questo stato di coscienza, è il più grande inganno che ci sia, non durerà" (Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium, p. 85).
La cornice teorica in cui si inserisce questa prospettiva può essere definita come una forma di "pessimismo cosmico", o di "realismo cosmico", a seconda dei punti di vista. Usando una metafora di uno dei suoi dialoghi, l'essere umano, con l'intero universo a lui manifesto, vive all'interno di un lungo film, dove tutto è già deciso, fotogramma dopo fotogramma. Soltanto lo scorrere della pellicola, il suo movimento, suggerisce l'illusione di una progressione. Ma il Tempo altro non è che una macchina che divora il nastro, che lacera e sminuzza i fotogrammi e con essi le immagine impermanenti in essi contenute. Dice Nisargadatta:
"Nessuno decide come sarà il film. Nove mesi prima della nascita, nel momento in cui il bambino viene concepito, viene presa una fotografia delle condizioni in cui si trovano i cinque elementi. E tutto poi si svolge automaticamente. Nessuno interviene o decide. Tutto avviene automaticamente perché in quel momento manca il senso dell'"io sono"; esso appare molto più tardi.  [...] All'istante del concepimento la situazione di questo mondo e del cosmo viene registrata nel seme. In questo elemento primario, in questa coscienza biologica, tutto accade istantaneamente. Una persona può essere concepita in India e andare a vivere all'altro capo del mondo... questo fa già parte di quanto è stato registrato. Che tu lo creda o no!" (Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium, pp. 49-50).
Il mondo, come direbbe Schopenhauer, è una rappresentazione dietro alla quale si nasconde una volontà; nella visione di Nisargadatta una volontà soggettiva, che dà vita al mondo, rimanendone schiavo. 
Tuttavia, in questa concezione apparentemente pessimistica vi è una via di fuga che, gradino dopo gradino, può condurre l'essere umano alla liberazione. Nell'uomo, infatti, così come in tutti gli esseri viventi, vi è qualcosa che va al di là della vita, che trascende l'esistenza stessa. "Tu non sei la coscienza" dice Nisargadatta "E non sei nemmeno lo stato in cui c'è il senso di essere. Sullo schermo del cinematografo le figure si muovono in continuazione; esse non possono fare altrimenti, sono nel film. Non decidono nulla; è la pellicola che si muove. Ma cos'è che rende possibile l'apparire delle figure sullo schermo? Soltanto il movimento della pellicola? No: è la luce che la attraversa, la luce che sta dietro. Anche per te è la stessa cosa. La tua realtà consiste unicamente nell'essere luce, nell'osservare il film che si svolge, producendo gli eventi del mondo. Sii questa sorgente di luce dietro la coscienza" (Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium, p. 52).
Il principio che si nasconde dietro all'essere e alla vita è la luce, l'Assoluto. Essa è senza forma, sempre identica; la molteplicità delle forme e dei colori è data da una illusione, quando essa attraversa le immagini. Ma il soffio è sempre lo stesso, anche quando, suonando un flauto, si producono delle note. Allo stesso modo, vi è un principio nascosto in tutti gli esseri che produce la molteplicità dei mondi e che, in un circolo vizioso, è soffocato dall'illusione prodotta e dal conseguente attaccamento verso questo mondo fatto di immagini. 
Il corpo, le sensazioni, le emozioni, i pensieri, la fame, la sete, tutto contribuisce a invischiare, appesantire, incatenare la luce nascosta, convincendola di non essere altro che questa illusione. Ma: "Il corpo è una cosa in cui il cibo ha preso forma. E' soltanto cibo. Voi siete il serbatoio in cui si raccoglie il prodotto della digestione degli alimenti che prendete e nell'essenza di questo corpo-cibo si trova la conoscenza "io sono". In questo bastoncino d'incenso c'è un profumo. Quando l'accendete, il profumo si libera. Allo stesso modo, il profumo "io sono" si trova nel corpo e quando percepite questo "io sono", voi sapete che si tratta dell'essenza del corpo-cibo che si libera. Ma chi percepisce questa qualità non è "l'io sono". Chi percepisce è al di là dell'"io sono", è prima dell'"io sono", è puro Assoluto" (Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium, p. 97).
L'"io sono" è il punto di partenza, il ponte di decollo, dal quale comincia l'ascesa verso la liberazione. Bisogna compiere, sostiene Nisargadatta, un progressivo lavoro di sgrossatura per giungere all'essenza del proprio essere. Eliminare tutte le cose transitorie. Io non sono i miei pensieri, essi mutano di continuo, così come le mie emozioni, le mie sensazioni, i miei bisogni fisiologici. Tutte queste cose contribuiscono a mantenermi imbrigliato nel flusso del divenire. E anche la coscienza, che spesso viene ritenuta il baluardo dell'uomo contro il mondo, non è altro che un prodotto illusorio. Essa muta di continuo, con il passare degli anni e delle esperienze. Ma in questo perpetuo flusso del divenire, cosa rimane stabile? La percezione di esistere, di essere un "io sono" separato dal resto del mondo, di essere sempre un soggetto esistente a cui capitano una miriade di eventi. L'"io sono", l'atto stesso di essere, di esistere, è l'unica cosa che sopravvie a questa sgrossatura. Come dice Nisargadatta:
"Da principio bisogna mantenere il senso dell'"io sono". Bisogna adorare questa presenza dell'"io sono", bisogna gioirne, farsela amica. Devi diventare una cosa sola con lei e allora spontaneamente finisce per apparire in te il senso: "Io non sono questo "io sono"". "Io sono" significa unicamente l'insieme della manifestazione e non l'apparato psicosomatico "corpo-mente" che porta il tuo nome. Rifiuta di identificarti al "corpo-mente" e semplicemente prendi stabilmente coscienza nell"io sono", senza bisogno di specificare altro. Questa è la prima tappa. "Io sono questa coscienza dinamica di ciò che si manifesta" (Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium, p. 58).
Eppure, anche l'"io sono" deve essere trasceso, superato. Esso è l'ultimo guardiano della soglia che ci separa dalla luce, dall'Assoluto. Anche se sgrossato da tutti gli elementi transitori, l'"io sono" ci imprigiona. "Esistere" vuol dire continuare a essere nel film, perpetrare la separazione tra me e il resto del mondo. Se esiste "l'io sono", esiste anche qualcosa che vi si oppone, un "altro" che non fa parte dell'"io". 
L'io sono, con la coscienza, è un cappio intorno al collo che si stringe sempre di più fino a soffocare l'uomo e a privargli la vista dell'Assoluto: "Un uomo lascia cadere in mare un biglietto da mille dollari. Si tuffa per riprenderlo, perché tra li e quel biglietto c'è un rapporto stretto; c'è un'intima relazione tra lui e quei mille dollari. Si tuffa, e annega. Questa intimità, questa familiarità con quella che chiamate vita, è la corda che vi strangola" (Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium).
Al di là dell'"io sono" si estende una realtà che tutto compenetra; questo è la vera meta a cui bisogna approdare, superando anche l"'io sono": "Realtà significa il primo e l'ultimo stato. E' lo stato più antico, lo stato primordiale, eterno, assoluto. Sopra questo stato è apparso come un rivestimento, come una nuova, come una macchia, lo stato illusorio. A questa comparsa è legata la constatazione "io sono", che porta con sé tutta una serie di eventi e il suo bisogno costante di andare e venire. Questo stato illusorio è apparso e quindi dovrà necessariamente scomparire, perché è legato al tempo. Ma noi siamo emotivamente attaccati a questo stato. Emotivamente significa che siamo convinti di essere questo "io sono". Quindi, affinché questo stato illusorio, legato al tempo, possa dissolversi, bisogna trascendere il nostro attaccamento emozionale a questa conoscenza "io sono". Finché la nuvola non se ne andrà, lo stato primordiale non potrà apparire. Lo stato primordiale non è qualcosa da conquistare; è già lì. Bisogna semplicemente eliminare lo schermo che lo nasconde [...]. Il principio che è nato comprende soltanto tre stati: lo stato di veglia, lo stato di sonno profondo e la conoscenza "io sono". Finché ci saranno questi tre stati, ti identificherai con l'"io sono". Finché non avrai raggiunto l'Assoluto, liberandoti da questa illusione, rimarrai intrappolato in questo stato che è legato al tempo e che deve essere trasceso" (Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium, p. 59). 
Per approdare all'Assoluto, l'"io sono" deve essere ucciso, distrutto. Questa trasmutazione alchemica è un atto necessario, poiché soltanto la distruzione della pellicola che filtra la luce può svelare la luce nel suo stato originario e indifferenziato: "Quando guardi qualcosa trasformarsi, prendere una nuova forma, la sua forma precedente non va forse distrutta? Prendi per esempio l'acqua che evapora; diventa una nuova, poi pioggia e quindi il ciclo ricomincia. [...] Tu hai la certezza di essere. Poi questa conoscenza diventa non-conoscenza, che è l'ultima propaggine della conoscenza. Facciamo ancora questo paragone con l'acqua. Tu hai un recipiente d'acqua. La vedi, la tocchi. Poi l'acqua evapora e non rimane più niente. Tu pensi probabilmente che sia andata distrutta, mentre non c'è stata distruzione, non c'è stata morte. L'acqua non è stata distrutta, ma è diventata nuvola, abbondanza, fertilità. Così, quando la conoscenza di esistere diventa non-conoscenza, essa si fonde nell'Assoluto. L'essere diviene non-essere; non è più qualcosa di tangibile, ma questo non significa che sia andato distrutto o che sia stato ucciso. Quando l"io sono" si dissolve nell'infinito, quello che era percepibile, manifesto, diventa impercepibile, intangibile. Quando comincia ad apparire una traccia dell'"io sono", improvvisamente tutto l'universo appare, mentre quando l"'io sono" scompare, tutto si dissolve, e si spegne" (Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium, pp. 64-65).
Da questa prospettiva elevata, nel momento in cui si abbandona l'"io sono", ci si accorge, per un fugace istante, che tutto è sempre stato un'illusione. Che il Tempo è un'immensa macchinazione che tutto distrugge, ma che per esistere necessita che nascano altre coscienze, altre forme, altre immagini da divorare, rendendole schiave del suo ciclo perenne solo in apparenza; perenne solo nella misura in cui nascono altre anime e altre coscienze che lo percepiscono.  Ma, dice Nisargadatta: "La nostra esistenza è solo uno stato temporaneo; diciamo, come una giornata che va dalle cinque del mattino a mezzanotte. Anche se vivi cent'anni, questo non significa altro che cento volte trecentosessantacinque giorni, in ciascuno dei quali sei sveglio diciannove ore. La cognizione "io sono" non è eterna. Quella che vivi non sarà mai l'esperienza dell'eterno. Se il tuo stato di essere presente continuasse eternamente, non ti sarebbe mai venuto in mente di andare a chiedere qualcosa a qualcuno. Quindi, attualmente, quello che tu conosci è qualcosa di temporaneo; ma chi osserva, il testimone di questo stato, è inevitabilmente l'eterno [...]. Anche se prendi Allah, Gesù o Krishna, tutte queste entità o personalità sono vissute soltanto nel tempo. Il principio che osserva quello che è temporaneo, che lo percepisce senza bisogno di andare a chiedere niente a nessuno, questo principio è l'eterno" (Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium, pp. 73-74).
L'Eterno, l'Assoluto è l'unica Realtà. E una volta che, da questa dimensione illusoria, l'uomo riesce a ricollegarsi con questo principio immutabile, ecco che trascende il corpo, la coscienza, l'"io sono" e perfino il Tempo, e se anche il suo corpo resta ancora vivo, attivo e apparentemente inserito nella società, il suo principio immortale si è ormai risvegliato e, dall'Eternità, contempla il Tutto come un lontano testimone. Usando le parole che Nisargadatta ha rivolto a una persona che gli ha domandato come mai, dopo l'illuminazione, sia tornato alla sua precedente attività: "La coscienza c'è, ma essa per me non ha più alcun interesse. Io sono indifferente a tutto; sono semplicemente una specie di testimone. Un'osservazione è in atto; e questo è tutto. Di fronte agli avvenimenti che accadono, io non sento alcun particolare interesse; non faccio progetti, non ho particolari intenzioni. [...] A poco a poco ho smesso di essere convinto di quello che facevo. Dopo che mi sono realizzato, provavo ancora interesse; radunavo persone. Esse mi interessavano; desideravo comunicare loro quello che avevo scoperto. Ma ora, tutto questo è finito. In futuro, quando verranno a trovarmi persone straniere, non sono affatto sicuro che parlerò con loro" (Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium, pp. 174-175).
La sua vita e la sua morte dimostrano la veridicità delle sue parole. Nonostante il "successo" ottenuto e il grande numero di pellegrini giunti ad ascoltarne le parole, non si trasformò mai in uno di quei guru creati ad arte a uso e consumo dei bisogni pseudo spirituali degli occidentali e morì, sempre a Bombay, di cancro alla gola. Ma questo non fu un problema, poiché al suo corpo e alla sua coscienza era già morto da tempo.


Nisargadatta Maharaj, Alla sorgente dell'essere, Aequilibrium

Daniele Palmieri

giovedì 18 novembre 2021

Gurdjieff e la creazione dei corpi sottili

Vi è un filo conduttore che unisce tutte le ricerche filosofiche, religiose, magiche, esoteriche e sciamaniche: l'idea che esista, nell'uomo, un principio vitale invisibile e che esso possa ottenere l'immortalità. 
Questo principio invisibile è stato chiamato in molti modi, ma uno dei nomi più diffusi è senz'altro quello di: anima, il soffio vitale senza il quale un organismo è soltanto un corpo morto. 
Un'altra idea costante è che l'anima non sia un fenomeno semplice: non esiste un solo tipo di anima, essa è molteplice così come molteplici sono le sue manifestazioni, e se anche viene concepita, nell'essere vivente, come un "tutto unitario", essa è tuttavia suscettibile a un'analisi anatomica, che ne suddivide le tipologie e le facoltà. Una delle più chiare rappresentazioni di questo concetto è, ad esempio, suddivisione dell'anima di Aristotele, che pur ritenendo l'indivisibilità dell'anima umana, ritiene tuttavia che a livello concettuale essa possa essere suddivisa in anima vegetativa, anima sensitiva, anima razionale e anima intellettiva.
Come accennato in precedenza, all'anima viene sempre riservato un trattamento di favore rispetto al corpo. Ad essa sembrano appartenere caratteristiche invisibili e impercettibili, come il pensiero, che ne suggeriscono un natura differente. E, come sostenne Cartesio, un altro dei grandi "anatomisti" dell'anima, dato che tutte le qualità dell'anima sembrano non appartenere al corpo, ma essere anzi affini a tutto ciò che vi è di eterno e invisibile, anche l'anima, separata dal corpo, deve essere ritenuta immortale.
Senza poter entrare nel dettaglio della molteplicità di visioni circa le parti dell'anima, la sua composizione, il suo destino e la sua immortalità, è tuttavia un fatto innegabile che gran parte di queste tradizioni diano per scontato, o arrivino alla conclusione, che esista un'anima e che quest'anima sia immortale.
L'uomo nasce con l'anima e con l'immortalità. Può perdere, senz'altro, o l'una o l'altra, ma questo avviene per una colpa, un errore, un peccato; per una azione che dipende dalla sua volontà e che, in ogni caso, implica il fatto che prima possedesse sia l'anima sia l'immortalità, esattamente come, per perdere un mazzo di chiavi, bisogna prima averlo avuto in tasca.
Ma questa concezione di un possesso "passivo" dell'anima e dell'immortalità potrebbe essere sempre stata un grande inganno. E' quello che pensa George Ivanovic Gurdjieff, per il quale né l'anima né l'immortalità sono un dato di fatto, bensì una conquista evolutiva, che soltanto pochi eletti sono in grado di sviluppare dopo lunghi sacrifici. Come scrive Ouspensky, citando le sue parole, in  Frammenti di un insegnamento sconosciuto"L'immortalità è una di quelle qualità che l'uomo si attribuisce senza avere una sufficiente comprensione del loro significato. Altre qualità di questo genere sono l'individualità, nel senso di unità interiore, l'Io permanente ed immutabile, la coscienza e la volontà. Tutte queste possono appartenere all'uomo, ma ciò non significa certo che esse già gli appartengono di fatto o possano appartenere a chiunque" (Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Astrolabio, p. 48).
L'anima e l'immortalità sono una conquista. Pensare di possederle, senza far nulla, fin dalla nascita, è o una menzogna o un inganno, in ogni caso un abbaglio che spinge l'uomo alla pigrizia spirituale e che lo relega a un'esistenza in balia di forze meccanicistiche, contro le quali non può nulla.
Riflettendo su come si è perpetrato questo inganno, Gurdjieff analizza la suddivisione più diffusa dell'anima umana, secondo la quale l'uomo è composto da quattro corpi: 
1) Corpo fisico (tradizione cristiana e teosofica) o "carrozza/corpo materiale" (tradizione orientale ma anche platonica): il corpo biologico, il cui sviluppo è principalmente meccanico. Esso corrisponde a quella che Aristotele chiamava anima vegetativa ed è preposto a tutte le funzioni fisiologiche di base.
2) Corpo naturale (tradizione cristiana), corpo astrale (tradizione teosofica) o "cavallo/sentimenti" (tradizione orientale e platonica): il "corpo emozionale", che Aristotele chiamava anima sensitiva, dal quale dipendono emozioni e sentimenti, da quelli più bassi a quelli più alti.
3) Corpo spirituale (tradizione cristiana), corpo mentale (tradizione teosofica)  cocchiere/pensiero (tradizione orientale e platonica): il corpo dal quale dipende il pensiero, chiamato da Aristotele anima razionale.
4) Corpo divino (tradizione cristiana), corpo causale (tradizione teosofica), "padrone/volontà" (tradizione orientale e platonica): il corpo divino, dal quale dipende la Volontà più alta; è il più importante tra i quattro, che Aristotele chiamava anima intellettiva, e che riteneva affine alla sostanza eterna delle verità universali.
Come accennato, Gurdjieff ritiene che gran parte delle tradizioni filosofiche, religiose ed esoteriche abbiano formulato una concezione simile, legata a una quadripartizione dell'anima, dando per scontato che l'uomo, nel corso del suo sviluppo, cresca accompagnato da tutti e quattro questi corpi. Ciò che varia è soltanto "l'educazione interiore", che porta alcuni individui a sviluppare un controllo superiore dei corpi più elevati su quelli più bassi. Ma la loro "proprietà" non viene messa in discussione. 
Tuttavia, per Gurdjieff: "L'uomo non nasce con i corpi sottili [...] questi richiedono una cultura artificiale, possibile solo in determinate condizioni, esteriori e interiori, favorevoli. Il corpo astrale non è un complemento indispensabile per l'uomo. E' un gran lusso, che non è alla portata di tutti. L'uomo può vivere benissimo senza corpo astrale. Il suo corpo fisico possiede tutte le funzioni necessarie alla vita" (Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Astrolabio, p. 49-50).
L'idea gurdjieffiana apre nuovi spiragli nella comprensione dell'evoluzione spirituale dell'uomo. Per quasi tutte le tradizioni esoteriche antiche, infatti, l'esistenza dei corpi sottili o di un'anima spirituale separata dal corpo, è pressoché un dato di fatto. Nella concezione ordinaria, l'uomo nasce già con questa scintilla divina e, spesso, il lavoro principale consiste nel liberarla. 
Ma molti non riescono in questo scopo; e questo perché, nella maggior parte dei casi, si cerca di ravvivare un fuoco che ancora non è stato acceso. Per Gurdjieff, i corpi sottili non sono un dato di fatto, né un'appendice che nasce, cresce e si evolve con l'uomo. L'unico corpo che è dato all'uomo, fin dalla nascita, è il corpo fisico, che si sviluppa in maniera meccanica in tutte le sue componenti, compresa la coscienza ordinaria che, lungi dall'essere l'anima separata dal corpo di cui parlano le tradizioni esoteriche, non è altro che un sottoprodotto della macchina, una sua funzione fisiologica così come il respiro o il battito del cuore, succube di influenze interne ed esterne contro le quali, nel suo stadio ordinario, può fare ben poco. Allo stesso modo, le emozioni e i pensieri che popolano l'uomo, non sono prodotti dai corpi sottili più alti, ma possono benissimo essere ricondotti alle facoltà più basse del corpo fisico e alla sua azione meccanica. Sempre citando le sue parole: "Nel caso delle funzioni di un uomo avente soltanto il corpo fisico, l'automa dipende dalle influenze esteriori, e le altre funzioni dipendono dal corpo fisico e dalle influenze esteriori che esso riceve. Desideri o avversioni [...] dipendono dagli choc e dalle influenze accidentali. Il pensare [...] è un processo interamente automatico. La volontà manca all'uomo meccanico: egli ha soltanto desideri; la maggiore o minore permanenza dei suoi desideri e appetiti è chiamata una forte o debole volontà" (Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Astrolabio, p. 51).
La differenza tra un'emozione meccanica, un pensiero meccanico, una coscienza meccanica e un'emozione spirituale, un pensiero spirituale e una coscienza spirituale risulta evidente in quei pochi individui, dalle facoltà straordinarie, che nel corso degli anni sono riusciti non a educare i propri corpi spirituali, bensì a crearli, a produrli, mediante l'esercizio: "Nel caso di un uomo in possesso dei quattro corpi, l'automatismo del corpo fisico dipende dall'influenza degli altri corpi. In luogo dell'attività discorse e spesso contraddittoria dei differenti desideri, vi è un unico Io, intero, indivisibile e permanente, vi è una individualità che domina il corpo fisico e i suoi desideri, e può superare le sue ripugnanze e le sue resistenze. Invece di un processo meccanico di pensiero, vi è la coscienza. E vi è la volontà, vale a dire un potere non più composto semplicemente da desideri svariati, il più delle volte contraddittori, appartenenti a diversi io, ma derivante dalla coscienza e governato dall'individualità o da un Io unico e permanente. Soltanto questa volontà può essere chiamata libera, perché essa è indipendente dall'accidente e non può essere alterata, né diretta all'esterno" (Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Astrolabio, p. 51).
Tre sono le vie che, nel corso dei millenni, da oriente a occidente, hanno percorso la via dello sviluppo dei corpi sottili dell'uomo:
1) La via del fachiro: la via della lotta costante contro il proprio fisico. In essa, si lavora per assumere il completo controllo sulla macchina del corpo, sottoponendola alle più atroci torture - ad esempio, costringendosi a rimanere immobili, nella stessa posizione, per giorni, mesi o addirittura anni, a privarsi di cibo, acqua, sonno e sottoponendosi a sfide sovraumane. Al termine di questo lungo apprendistato, non vi è nulla che può scalfire il corpo del fachiro e, tuttavia, per raggiungere questo risultato, egli ha dovuto abdicare alle funzioni emotive e intellettuali. 
2) La via del monaco: la via della fede, della sottomissione mistica, del sacrificio individuale. Come il fachiro, anche il monaco trascorre l'intera sua esistenza in una lotta incessante contro se stesso, che nella tradizione religiosa prende il nome di psicomachia, lotta dell'anima. Ma, sebbene come il fachiro egli si trovi a confrontarsi con il suo corpo, il suo nemico principale sono i sentimenti. Egli sottomette la molteplicità di emozioni che popolano la sua interiorità, personificate, nelle visioni mistiche, in demoni dagli aspetti terribili, all'unica emozione degna di essere vissuta: la fede, appunto. Tuttavia, come la via del fachiro, anche la via del monaco lascia deve sacrificare tutti gli altri aspetti della totalità umana e anche il monaco perfetto si trova costretto a lasciare da parte il corpo fisico e le facoltà intellettuali.
3) La via dello yogi: la via della conoscenza e dell'intelletto. Lo yogi trascorre l'intera sua esistenza a sviluppare l'intelletto, unendosi con l'intelligenza divina e penetrando nei misteri dell'esistenza. La sua coscienza si estende fino a inglobare l'intero cosmo e divenire un tutt'uno con esso, mediante l'atto yogico. Ma anche questa via si lascia indietro due componenti: le emozioni e il corpo.
Ciò che risulta evidente, studiando queste tre vie, è che i loro risultati possono essere conseguiti soltanto dopo anni di sacrifici, martiri, privazioni. Nella concezione filosofica Gurjieffiana, a metà tra realismo e pessimismo, è come se la Natura non avesse previsto che l'uomo potesse accedere a simili facoltà e che anzi essa ne osteggi lo sviluppo e che le nascondi dietro la maschera del corpo fisico: d'altro canto, come sostiene Gurdjieff, non è essenziale sviluppare i corpi sottili per poter sopravvivere; a questo fine è più che funzionale la macchina biologica, che però si arresta quando l'essere umano punta più in alto, scorgendo l'immortalità. Perciò, lo sviluppo delle facoltà sottili sarà sempre un atto titanico e prometeico: un gesto proibito, blasfemo. Come disse Gurdjieff: "La via dello sviluppo delle possibilità nascoste è una via contro la natura, contro Dio. Ciò spiega la difficoltà e il carattere esclusivo delle vie. Esse sono ardue e strette. Ma al tempo stesso nulla potrebbe essere raggiunto senza di esse. Nell'oceano della vita ordinaria, e specialmente della vita moderna, le vie sono un fenomeno piccolo, appena percettibile, che dal punto di vista della vita stessa, non ha la minima ragione d'essere. Ma questo piccolo fenomeno contiene in se stesso tutto ciò di cui l'uomo può disporre per lo sviluppo delle sue possibilità nascoste. Le vie si oppongono alla vita di tutti i giorni, basata su altri principi e assoggettata ad altre leggi. In ciò consiste il loro potere e il loro significato. In una vita ordinaria, per quanto colma di interessi filosofici, scientifici, religiosi o sociali, non vi è nulla e non può esservi nulla che offra le possibilità contenute nelle vie. Esse conducono o potrebbero condurre l'uomo all'immortalità. La vita mondana, anche la più riuscita, conduce alla morte e non potrebbe condurre a nient'altro" (Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Astrolabio, p. 56).
Ma anche in questi poderosi sforzi volti a sviluppare l'immortalità e le facoltà sottili si nasconde un errore, sostiene Gurdjieff. Le tre vie, prese singolarmente, sono monche. Tutte portano all'estremo limite un aspetto dell'umano, raggiungendo l'immortalità sviluppando o il corpo, o le emozioni o l'intelletto. Tutte, inoltre, offrono l'immortalità ma a prezzo del sacrificio più grande: il sacrificio di se stessi.
Da questa mancanza prende forma il suo sentiero spirituale: la quarta via. "La quarta via" dice Gurdjieff "non richiede che ci si ritiri dal mondo, non esige la rinuncia a tutto ciò che formava la nostra vita. [...] Questo sapere rende possibile un lavoro simultaneo nelle tre direzioni. Tutta una serie di esercizi paralleli sui tre piani: fisico, mentale ed emozionale, servono a questo scopo. [...] La quarta via è talvolta chiamata la via dell'uomo astuto" (Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Astrolabio, pp. 58-59). La quarta via di Gurdjieff è uno dei primi tentativi occulti di risvegliare la macchina umana all'interno del contesto automatizzato in cui essa è inserita, senza separarla dalla realtà comune ma, anzi, mettendola di fronte ai meccanismi paradossali in cui essa è inserita.

Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Astrolabio

Daniele Palmieri