sabato 30 aprile 2016

Daniele Palmieri: Recensioni filosofiche, dal blog Nero d'inchiostro




"Un teologo mi ha detto che tutto per me andrà bene e che tutto mi sarà permesso se soltanto mi sottometterò al concilio e ha aggiunto: Se il concilio dichiarasse che hai soltanto un occhio, anche se ne hai due, sarebbe tuo dovere convenire con il concilio che è proprio così. Io gli ho risposto: Anche se fosse il mondo intero a sostenerlo io, essendo dotato di ragione come sono, non potrei ammetterlo senza obiezione della coscienza."


Queste parole di Jan Hus inaugurano uno dei primi saggi di "Recensioni filosofiche", una raccolta di recensioni di testi filosofici apparsi sul blog Nero d'inchiostro, che vanno da Kosik a Patocka, da Thoreau a Nietzsche, da Junger a Girard, da Hadot a Cormac McCarthy e che potete scaricare gratuitamente da Amazon.Un insieme di articoli per imparare a pensare criticamente la realtà, senza lasciarsi influenzare né dal luogo comune né dal potere; un inno al pensiero libero.


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Julius Evola: Cavalcare la tigre

Il rapporto tra potere e filosofia è sempre stato complesso ed è padre di uno degli eterni dilemmi della storia della filosofia: è possibile separare il pensiero di un filosofo dalla sua vita e dal suo "schieramento politico"?
Per i filosofi del passato, come Seneca, strettamente compromessi con il potere, il dilemma è ormai affievolito, materia di "semplici" dispute storiche che non compromettono il pensiero del filosofo stoico che è (ed è sempre stato) pubblicato, diffuso, insegnato nelle scuole e letto senza particolari dilemmi morali.
La questione è diversa, invece, per i filosofi a noi più vicini, soprattutto per quelli di un'epoca tanto drammatica quanto travagliata: il XX secolo. Non furono pochi i filosofi e letterati che compromisero la loro vita con i "poteri neri", chi per opportunismo e chi, invece, per sincero credo politico.
Il dilemma, in questo caso, si fa molto più forte. E' possibile separare la vita di pensatori che supportarono il nazifascismo dal loro pensiero filosofico?
Che sia possibile farlo o meno, la questione è molto complessa e io propendo per il no; se la filosofia dev'essere maestra di vita, ciò che si pensa è una diretta emanazione di ciò che si fa e viceversa.
Tuttavia, non credo che le pagine debbano finire nel dimenticatoio della filosofia, tutt'altro, soprattutto se il loro contenuto può essere rilevante per lo sviluppo del pensiero. Esso può essere criticato e smontato, oppure può essere terreno fertile per ulteriori riflessioni - come ogni pensiero filosofico profondo, indipendentemente dal periodo storico o dalla persona da cui è stato scritto. In ogni caso, la "censura del silenzio" contribuisce alla stagnazione del pensiero, che al contrario diventa tanto più dinamico quanto più sono le voci contrapposte.
Il più illustre filosofo in camicia nera è stato senz'altro Heidegger e, benché i suoi rapporti con il nazismo siano sempre stati ambigui, il mondo accademico non ha mai tentato di nascondere il suo pensiero - tutt'altro.
Al contrario, alla censura del silenzio sono stati destinati i filosofi di destra nostrani, come Giovanni Gentile, sui quali regna un vergognoso silenzio (e lo dico da estremo avversario del fascismo). E, se almeno di Gentile si trova qualche traccia sui manuali accademici, il più importante esponente della destra tradizionalista viene ignorato e, ai più, risulta sconosciuto: sto parlando di Julius Evola, filosofo, alpinista, pittore ed esoterista italiano, vissuto tra il 1898 e il 1974.
Spesso si tende a identificare una persona tramite le sue letture, ed è per questo che ho scritto questa lunga premessa; benché aborra qualsiasi forma di fascismo, reputo fondamentali per il pensiero filosofico alcuni pensatori che lo supportarono (come, appunto, Gentile e Evola) e, soprattutto, trovo intellettualmente stimolante confrontarmi con testi così distanti dalla mia visione filosofica della vita.
Il testo in questione di cui voglio parlare è Cavalcare la tigre, uno degli ultimi scritti filosofici pubblicati da Evola, in cui delinea un ritratto di vita filosofica con diversi spunti interessanti.
Il tema centrale di Cavalcare la tigre è la sopravvivenza del singolo individuo in un mondo che si sta sgretolando sotto i colpi del positivismo e dello scientismo imperante, che stanno quantificando ogni aspetto del reale facendo perdere il vero significato all'uomo e al mondo, ossia alla loro essenza metafisica.
Punto culminante di tale processo, iniziato nel 1700, è il nichilismo (tema preponderante in tutto il '900) inaugurato dal noto verdetto di Nietzsche: Dio è morto.
La morte di Dio è la morte dei valori trascendentali che hanno perennemente dato un senso alla vita del singolo; con la morte di Dio l'uomo prende sulle spalle un peso abnorme, quello della ricerca di un senso e della ricerca di un fondamento della morale. L'uomo è costretto ad andare "oltre Dio" a "varcare la linea" (utilizzando un'espressione jungeriana) e questo "andare oltre" può sgretolare ogni realtà. In mezzo alle rovine, però, può sorgere un uomo superiore, l'oltreuomo nietzschiano, che prende sulle proprie spalle il peso della morale, come un Atlante che sorregge il mondo, per costruire un universo nuovo.
L'andare al di là di Dio conduce l'uomo a una coscienza superiore, che si trova al di là del bene e del male, lo stesso territorio metafisico a cui approdano i mistici orientali del taoismo e dell'induismo. E' un'esperienza che dà all'oltreuomo una visione diversa delle cose, paragonabile - a mio avviso - alla visione di Arjuna nel culmine del dialogo con Krsna prima della battaglia, quando assiste - nella bocca del Dio - all'immensità dell'Universo che risucchia e vanifica ogni cosa.
Esso è un piano di realtà superiore in cui tutte le faccende umane, per quanto turpi e abominevoli, si mostrano come un nonnulla di fronte all'immensità dell'Universo, di fronte a questo piano di realtà in bilico tra la trascendenza e l'immanenza. Una posizione dalla quale l'oltreuomo può ammirare l'Essere messo a nudo, ed è dinnanzi a tale visione che egli deve dare prova della propria forza e della propria resistenza in un mondo in rovina, destinato a essere inghiottito nell'abisso della bocca di Krsna, riutilizzando la metafora precedente.
L'avversità è il crogiuolo dove temprare il proprio animo.
Occorre percepire in sé questa dimensione mistica della trascendenza e ancorarvisi; una condizione che porta al di là del nichilismo nietzschiano, poiché, dopo la morte di Dio, il suo seggio è rimasto vacante e l'oltreuomo, nel culmine della visione, può conquistare il suo posto divenendo egli stesso Dio. In questa condizione si coincide con la divinità e i concetti di "fede" o "ateismo" non hanno più alcun senso, poiché si coincide con la divinità stessa e negarla sarebbe come negare se stessi.
Allo stesso tempo, la potenza della divinità è la nostra potenza, l'unica che permette all'oltreuomo di poter erigere la propria realtà sopra le rovine.
Questo procedimento maieutico permette di estrapolare il proprio "essere-sé-stessi" e permette all'anima individuale di recuperare la propria condizione, di farla emergere dalla massa informe di spiriti erranti accecati dal bieco consumismo e da un ideale di "uguaglianza" che appiattisce ogni uomo alla stessa condizione.
Altra esperienza fondamentale è quella del "provare se stessi", far coincidere il proprio volere con il proprio essere, a costo di correre il rischio di essere distrutti. La vita, in tale prospettiva, deve essere intesa come opera, attività, realizzazione, "la cui iniziativa sia presa deliberatamente dal singolo", utilizzando le parole di Evola. Essa non deve essere una semplice esperienza vissuta passivamente, bensì un insieme di processi iniziati e orientati a un fine.
Il tipo umano qui presupposto deve, a tal riguardo, tenere ben presenti le massime orientali: agire senza badare ai frutti, l'agire senza pensare al successo, l'agire senza desiderio, e agire senza agire, agire mettendo in moto la legge superiore interiore guidata dal flusso naturale degli eventi che è, allo stesso tempo, libertà e necessità (la libera necessità di cui parlavano anche gli stoici).
Rispetto al principio dionisiaco di Nietzsche, l'agire di Evola non riguarda il lato ricettivo-passivo dell'esperienza, travolto da un'ebbrezza estatica, bensì un agire attivo. E' un approccio eroico alla vita, che affonda le sue radici nell'essere stesso, nei piani superiori della vita. E' un agire puro che conduce a una diversa concezione di "piacere" e "felicità" rispetto alla mera concezione edonistica e naturalistica, che può essere un punto di partenza ma non certo quello di arrivo - semmai un aspetto complementare che, insieme alla vita attiva, concorre alla felicità autentica.
Questo agire "puro" si è svincolato da qualsiasi concetto di "peccato morale". L'unico aspetto che può ammettere è quello dell'errore, insito nell'azione stessa, ma svincolato da qualsiasi accezione morale, esattamente come concepito dal karma indù che assegna premi senza alcuna sfumatura moraleggiante. Ogni azione paga il prezzo di se stessa in maniera assolutamente deterministica.
Agire consapevoli dei rischi insiti nell'azione significa essere disposti a pagare il prezzo del fallimento - e, soprattutto, avere coraggio e fermezza nell'affrontarlo.
In definitiva, Cavalcare la tigre di Julius Evola è un testo fondamentale per ampliare le proprie vedute sulla vita e per prospettarsi una concezione dell'esistenza diversa da quella quotidiana; una vita che oltrepassa la linea della morale comune - una morale della consuetudine, una morale da schiavi - per impugnare le redini della propria biga e indirizzare, in maniera libera e consapevole, il cavallo nero e il cavallo bianco della propria anima verso fini più elevati, conquistando un'imprigionabile autarchia interiore in mezzo a un mondo che si sgretola, sempre di più, con il passare del tempo.
Una decomposizione che può essere considerata non soltanto quella sociale, a cui tende l'occhio Evola, ma soprattutto quella naturale. Siamo immersi in un mondo che si rinnova in ogni momento sulle ceneri del mondo passato; tutto scorre, ogni nascita è già una "rovina" e ogni "rovina" è destinata a crollare sotto il peso del tempo, a diventare cenere da cui nasce altra vita. In questo circolo apparentemente insensato, l'uomo libero, l'oltreuomo, non può accontentarsi delle risposte preconfezionate; egli deve trovare un senso alla propria vita. Il suo senso, che nessun altro potrà mai sottrargli; e nell'appagamento della ricerca, nell'ebbrezza della libertà interiore, egli sfiora l'eternità.


Julius Evola, Cavalcare la tigre, Edizioni Mediterranee

Daniele Palmieri

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martedì 26 aprile 2016

Ortega y Gasset: Vitalità, Anima e Spirito

Ho una certa predilezione per i testi filosofici brevi e incisivi, che vanno dritti al punto della questione presa in esame, senza perdersi in rocamboleschi giri di parole e senza sfoggiare vanitoso eruditismo. Trovo che questi brevi pamphlet, ricchi più di idee che di parole, abbiano lo stesso effetto della lama di un rasoio la quale è sottile, certo, ma proprio per questo riesce a compiere con precisione il proprio dovere, ossia penetrare in profondità.
Vitalità, Anima e Spirito di Ortega y Gasset è proprio uno di quei testi affilati, che in poche parole riescono a dissezionare un problema, riuscendo così a trattarlo con lucidità e a fornire risposte illuminanti.
Tema del testo (di una ventina di pagine nell'edizione de Il Cerchio) è proprio la dissezione dell'esperienza interiore umana. La domanda da cui la discussione scaturisce è "Quali sono la figura e l'anatomia di ciò che vagamente siamo soliti chiamare 'anima'?".
Per rispondere a tale quesito, Ortega y Gasset utilizza una metodologia fenomenologica/descrittiva. Punto di partenza non può che essere l'esperienza stessa dell'interiorità così come ogni uomo la vive, esperienza che egli definisce "dell'intracorporeo".
Nucleo fondante di tale esperienza è l'avere un corpo; o, meglio, l'avere un'energia sottile, intangibile, "che vive infusa nel corpo, conficcata e infusa con esso". E' l'esperienza più primordiale, condivisa da tutti gli esseri viventi, che crea una prima, netta, distinzione tra mondo organico e inorganico: l'esperienza della Vitalità. In essa si fondono il somatico e lo psichico; "ciascuno di noi è in primo luogo una forza vitale: maggiore o minore, traboccante o deficiente, sana o interna. Il resto del nostro carattere dipenderà da ciò che è la nostra vitalità".
Potremmo paragonare la Vitalità alla linfa di un albero; è l'energia che nutre la vita, che ci rende sprizzanti di forza quando essa scorre in noi in abbondanza oppure fiacchi e deboli quando siamo in deficit.
A un piano superiore si trova l'Anima, da non fraintendere con l'accezione metafisica che si dà al termine e che la identifica come una sostanza separata dal corpo. Per Ortega y Gasset l'Anima è l'esperienza degli atti di pensiero immediati, ossia di quegli impulsi come la volizione e le emozioni che derivano da una spinta istintiva, arazionale, sui quali non abbiamo alcun potere se non quello di assecondarli o di reprimerli. Si tratta di un'esperienza primordiale, nutrita nella sua intensità dalla Vitalità ma che, rispetto ad essa, aggiunge anche un contenuto verso cui il soggetto tende. 
A contraddistinguere l'Anima è il carattere prettamente soggettivo di tale esperienza; un'emozione non può che essere per me e per me soltanto. Nessun altro può provare la mia paura, la mia gioia, la mia tristezza. L'Anima è una "dimora privata", come la definisce Ortega y Gasset, una cittadella che nessuno potrà mai espugnare, un'esperienza che nessuno potrà mai vivere al nostro posto.
Infine, vi è l'aspetto più elevato dell'interiorità umana: lo Spirito. Quest'ultimo, molto simile all'Intelletto aristotelico, è il pensiero puro che, al contrario dell'atto animico, si protrae nel tempo e, soprattutto, rappresenta la facoltà di cogliere la Verità logiche e filosofiche . L'oggetto della sua riflessione sono le entità astratte, i concetti universali che, a differenza delle emozioni e degli atti volitivi, sono oggettivi poiché validi indipendentemente dalla persona che li esperisce. Nessuno può provare il mio dolore, tuttavia chiunque può cogliere la Verità matematica che 2+2 fa 4. In questo senso lo Spirito può essere considerato "dominio pubblico", la cui esperienza non è soltanto un fatto nostro, privato, ma coinvolge anche gli altri e costituisce un elemento di condivisione, che ci lega indissolubilmente al prossimo. 
Da sottolineare che, per l'autore, Vitalità, Anima e Spirito non rappresentano essenze metafisiche che esistono separate dal corpo, come accennato in precedenza, ma esperienze interiori che egli descrivere e rinomina come fanno gli zoologi nel classificare le specie. Queste tre facoltà, assieme, costituiscono l'io nella sua interezza e ne formano quella che lui definisce "l'eccentricità", ossia la facoltà di avere un punto di vista in prima persona sul mondo.
In ultima istanza si sottolinea come, paradossalmente, la conoscenza più profonda, primordiale e essenziale si verifica quando l'uomo riesca a estraniarsi da tale eccentricità che, seppur peculiare dell'essere vivi, rappresenta una limitazione, giacché l'unica conoscenza che essa permette è quella "prospettica". In altre parole, se ci immaginiamo di fronte a un palazzo di cui vediamo solo una facciata blu, veniamo a conoscenza del colore di tale facciata ma non potremo mai conoscere quella opposta finché non la osserviamo, ossia finché non cambiamo prospettiva; e la limitatezza dell'essere umano gli impedisce di osservare il Cosmo da tutte le prospettive possibili.
Unica soluzione è, come accennato in precedenza, l'abbandono della prospettiva tramite il dissolversi dell'io; una conoscenza primordiale già posseduta dai fanciulli, grazie alla prevalenza, nei primi anni di vita, della componente animica, che funge da "cordone ombelicale" che lega direttamente il bambino alla volontà cosmica - giacché in lui tutto è espressione di un impulso e la prospettiva soggettiva non si è ancora formata; componente che si può recuperare, una volta reciso tale cordone, tramite l'esperienza dello Spirito, che con la conoscenza oggettiva sul cosmo permette di assumere una prospettiva indipendente dalla soggettività, spostando il centro spirituale all'esterno dei confini del proprio corpo. Ciò è possibile elevando la facoltà spirituale alle conoscenze universali, fino alla "regione delle nevi eterne", azione che permette di recuperare l'originale innocenza del fanciullo ma con un livello superiore di consapevolezza che potremmo definire "saggezza".
Ultimo ma non meno importante, vi è una terza via, connessa alla facoltà animica, che è quella dell'amore. Quando amiamo un'altra persona la nostra eccentricità si sbilancia ed esce al di fuori di noi; la nostra vita comincia a ruotare attorno a questa persona e, dimentichi della soggettività, fondiamo la nostra prospettiva con quella della persona amata, divenendo un tutt'uno con ella.

In conclusione, Vitalità, Anima e Spirito è un testo corto ma intenso, che andrebbe riletto più di una volta per coglierne ogni sfumatura giacché, data la brevità, ogni parola è soppesata e anche la frase più concisa nasconde molto altro alle spalle.

Daniele Palmieri

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lunedì 18 aprile 2016

Hume e l'inconsistenza concettuale dei miracoli



I miracoli sono uno degli aspetti volgari della religione che fanno sfociare quest'ultima in mera superstizione. 
Spesso i miracoli vengono sfruttati per fare cassa, facendo leva sulla credulità del popolo e sulla sua facile propensione nel credere al meraviglioso, unica via d'evasione da una vita grigia, monotona, sempre uguale.
Tuttavia, rifugiarsi nei miracoli è soltanto un modo, appunto, per evadere dalla realtà, non certo per renderla come noi vorremmo. Essi contaminano la vera religione, il cui unico scopo dovrebbe essere quello di dirigere ed educare le anime per permettere all'uomo di intraprendere un percorso di perfezionamento spirituale - l'unica vera via per migliorare, concretamente, la propria vita.
Benché le moderne tecniche scientifiche d'indagine permettano di smascherare i presunti miracoli che vengono propinati dal santone di turno o dalle manifestazioni religiose volgari (come quella del sangue di San Gennaro), fu un filosofo del diciottesimo secolo a confutare, a priori, l'esistenza stessa di qualsiasi miracolo, mostrando l'inconsistenza concettuale dell'evento miracoloso così come ci viene presentato.
Nella trattazione sui miracoli in Ricerche sull'intelletto umano, Hume si rifà alla concezione del reverendo Tillotson, per il quale la verità degli eventi narrati nei vangeli si basa sui miracoli praticati da Gesù e osservati e tramandati dagli apostoli.

Una diretta conseguenza di questa affermazione è che le verità di fede non si basano sulla percezione del fedele, bensì su una ipotetica percezione di miracoli avvenuta in epoca antica e così tramandata dagli apostoli.
Hume rileva un nesso tra questa concezione sensistica dei miracoli e quella delle leggi di natura. Entrambe si basano sulla testimonianza di una percezione empirica di un certo evento.
Nel caso della testimonianza di un miracolo, il fatto osservato è un evento che viola le leggi di natura. 
Nel caso della testimonianza di una legge di natura, il fatto osservato è una presunta concatenazione di eventi riscontrabile con una certa probabilità.
Tuttavia, le due testimonianze sono ugualmente credibili?
È possibile riscontrare la credibilità di una testimonianza in due modi.
Il primo è il modo diretto, che consiste nell’esperienza diretta che facciamo della realtà, indipendente dal contenuto della testimonianza.
Il secondo è il modo indiretto, che consiste nel considerare il contenuto della testimonianza stessa e verificando se esso risulta in conformità o meno con la nostra esperienza.
Se la testimonianza non è conforme alle nostre esperienze empiriche, allora dispone di un basso livello di credibilità.
Che differenza intercorre dunque tra la testimonianza di una legge di natura e la testimonianza di un miracolo?
Per rispondere a tale quesito, occorre esporre le argomentazioni con le quali Hume confuta la possibilità dell’esistenza di miracoli.
Innanzitutto, Hume definisce il miracolo come un evento che viola le leggi di natura; le leggi di natura sono regolarità riscontrate empiricamente che non ammettono eccezioni.
Esse sono stabilite dall’uomo secondo un dato livello di probabilità, dettato da un numero di esperimenti empirici con i quali si è osservata la ricorrenza di certi avvenimenti.
Inizialmente, Hume non critica l’esistenza del miracolo stesso ma la credibilità del testimone di una esperienza miracolosa.
La testimonianza può essere considerata come prova solo se il testimone racconta una verità e non una bugia, dunque se non è né un mentitore né un pazzo.
Infatti, le leggi di natura sono considerate valide solamente in virtù della continuità con la realtà, ossia con il fatto che in ogni momento sono osservabili empiricamente.
Le testimonianze di questo tipo tramandano l’esistenza di fenomeni che con una certa probabilità si verificano in successione. Ma il miracolo è definito come un evento che viola le leggi di natura; dunque, per definizione, manca di questo aspetto empirico, perché se fosse osservabile in qualsiasi momento cesserebbe di essere un miracolo e diverrebbe una semplice legge di natura.
Perciò, solo la testimonianza può verificare l’esistenza del miracolo stesso, a patto che la credibilità del testimone sia inattaccabile, tale da verificare il miracolo.
Il testimone deve perciò essere “affidabile”; deve dunque possedere una buona educazione, un’integrità morale e una buona reputazione.
Un testimone di questo genere può essere ritenuto “credibile”.
Tuttavia, per il semplice fatto di descrivere un miracolo, il testimone perde di credibilità.
Innanzitutto, poiché gli uomini sono portati a descrivere fatti inaspettati con eccessiva meraviglia, che li porta a cadere in valutazioni errate.
In tal caso, la narrazione di un miracolo assume la stessa valenza conoscitiva di un pettegolezzo.
In secondo luogo, poiché è più ragionevole credere a osservazioni maggiormente comprovate da un numero superiore di constatazioni empiriche piuttosto che a fatti osservati una sola volta.
In terzo luogo, poiché racconti miracolosi di questo genere si trovano soprattutto in popoli barbari, non civilizzati e senza alcuna cultura, e di certo non si addicono a un uomo che si ritenga dotato di una buona educazione culturale.
Infine, poiché le religioni utilizzano i miracoli tramandati dalla propria tradizione per smentire le religioni altrui, ma così facendo si smentiscono a vicenda.
Si crea dunque un circolo vizioso per il quale la validità del miracolo sarebbe comprovata soltanto dalla credibilità del testimone, ma il testimone perde di credibilità nel momento stesso in cui afferma di aver assistito a un miracolo.
Per cui, nessuna testimonianza riguardante un qualsiasi tipo di miracolo può mai essere assunta né come probabilità, data l’esclusività del fenomeno, né come prova. Pur supponendo per assurdo che possa essere assunta come prova, i semplici fatti empirici la smentirebbero.
Solo l’esperienza può dare credibilità ad una testimonianza e alle leggi di natura, facendo perdere di credibilità il miracolo, poiché evento in contrasto con le leggi di natura osservate.
È più facile credere alla malafede di un testimone che riporta eventi miracolosi piuttosto che a una violazione delle leggi di natura.
Dunque, che differenza intercorre tra la testimonianza miracolosa e quella delle leggi di natura?
Innanzitutto, la testimonianza di eventi miracolosi è tramandata non per esperienza diretta, ma da testimonianza di eventi avvenuti in epoche remote; non può essere verificata empiricamente, non ha alcuna probabilità che possa supportarla e può essere creduta soltanto per fede.
Al contrario, la testimonianza delle leggi di natura può essere verificata in qualsiasi momento tramite osservazione empirica.
Essa è verificata, quindi, per evidenza ed è più probabile in base alla ricorrenza riscontrabile in esperienze pregresse.
Dunque, per i motivi sopra sottolineati, la testimonianza dell’esperienza miracolosa dispone di un livello di credibilità pressoché nullo, sia per la scarsa credibilità del testimone sia per il contenuto non conforme all’evidenza empirica.
Invece, la testimonianza di leggi naturali risulta maggiormente credibile, in base alla probabilità superiori e a evidenze empiriche e razionali.
In ultima istanza, Hume non esclude l’esistenza di eventi che possano violare le leggi naturali fino ad ora riscontrate; tuttavia, ritiene che essi non possano essere definiti “miracoli”, poiché sarebbero ugualmente eventi naturali, osservati semplicemente per la prima volta, e riconducibili a prerogative razionali.

Daniele Palmieri

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venerdì 15 aprile 2016

René Girard e il capro espiatorio


René Girard è uno di quei pensatori che tutti dovrebbero conoscere, affinché siano chiari i meccanismi psicologici che vengono a galla durante le profonde crisi storiche, come quelle che stiamo vivendo negli ultimi anni: la crisi economica e la crisi umanitaria delle grandi migrazioni.

La sua teoria del capro espiatorio svela i meccanismi primordiali che si innescano quando l'uomo tenta di risolvere in maniera irrazionale tali crisi, sfociando inevitabilmente nella violenza.
Alla base della teoria girardiana vi è un'intuizione contenuta in una delle sue prime opere, Menzogna romantica e verità romanzesca, dove l'antropologo francese analizza i principali romanzieri dell’europa, ossia Dostoevskij, Proust, Stendhal e Cervantes.
Secondo Girard, gli autori in questione svelano un processo mentale comune a tutti gli uomini di ogni epoca e ogni paese, ossia il desiderio mimetico.
L’uomo è essenzialmente un animale mimetico; noi pensiamo che i nostri desideri nascano da dentro di noi, ma in realtà non ci accorgiamo di come essi nascano dall’imitazione delle azioni altrui.
L’uomo si fissa dei modelli di vita, che possono essere ideali piuttosto che realmente esistenti, e agisce imitando questi modelli.
In particolare, egli desidera ciò che anche il suo modello desidera, sia in positivo – tendendo verso le stesse cose – sia in negativo – facendo il contrario di ciò che fa il modello.
Facendo un esempio pragmatico, Girard non fa né più né meno che descrivere il meccanismo psicologico alla base della moda.
Noi vediamo che gli altri indossano un certo capo di abbigliamento e, per quanto assurdo possa essere, iniziamo a desiderarlo non perché ci piace ma perché anche l’altra persona lo sta indossando.
Applicato alla moda il desiderio mimetico è relativamente un problema; se a uno interessa spere soldi soltanto per imitare gli altri sono affari suoi.
Il problema sorge quando l’oggetto del desiderio è qualcosa di limitato, che non può bastare per tutti. E’ ciò che succede ne Il rosso e il nero di Stendhal, dove il sindaco Renal vuole assumere il precettore Julien per la figlia convinto che il suo Valenod voglia fare lo stesso. In realtà Valenod non aveva la minima intenzione di farlo ma poco tempo dopo si crea in lui il desiderio di assumere Julien, come ha fatto il suo rivale. Nasce, dunque, una situazione di conflitto dove ciò che conta non è l’oggetto del desiderio in sé ma il predominare sull’altro.
Il desiderio mimetico è poi ripreso e ampliato e analizzato secondo un’altra prospettiva ne il capro espiatorio.
Come accennato in precedenza, questo testo analizza come l’uomo reagisce alle situazioni di crisi e lo fa partendo analizzando da un lato i testi di persecuzione contro gli ebrei nel XII secolo e nell’altro i processi alle streghe del 1600.
In entrambi i casi c’è una situazione di crisi; nel primo la peste che sta investendo l’europa e nel secondo una situazione conflittuale dovuta ai movimenti protestanti e alla reazione della chiesa.
In entrambi i casi si tenta di risolvere la crisi trovando quello che Girard definisce un capro espiatorio e si sfocia, inevitabilmente, nella violenza.
Il capro espiatorio è l’agnello sacrificale che viene ritenuto la causa di tutta la crisi e le persecuzioni che subisce sono sempre le stesse, in ogni epoca, al di là del tipo di crisi o dell’identità dei persecutori, e Girard le elenca in un capito illuminante de il capro espiatorio chiamato, appunto, gli stereotipi dellla persecuzione.
Il primo, già accennato, è una situazione di crisi, che può essere la peste piuttosto che la crisi economica; il gruppo etnico dominante non dà la colpa a se stesso per quanto sta accadendo ma individua una singola persona o un gruppo debole ed emarginato addossandogli tutte le colpe.
Il secondo è quello delle accuse stereotipate; si tenta in ogni modo di disumanizzare il gruppo etnico prescelto addossandogli crimini efferati, che spesso hanno a che fare con i tabù che più ci disgustano. Ad esempio, gli ebrei così come le streghe nei testi citati di Girard sono accusati di stupri, incesti, rapimento e uccisione di bambini, cannibalismo e tutti quei crimini che consideriamo ancora più gravi dei crimini comuni.
In questo modo, il gruppo prescelto viene percepito come qualcosa d’altro, come un gruppo completamente diverso da noi che, necessariamente, deve essere la causa scatenante di ogni male.
E i crimini che vengono loro affibbiati non sono mai comprovati; sono dicerie, voci di corridoio, nulla di certo ma che basta a soddisfare la pancia della gente e a scatenare l’odio represso.
Infine, la parte più drammatica: la violenza. Il gruppo etnico prescelto come capro espiatorio viene condannato, perseguitato e eliminato, di solito durante processi di piazza e linciato dalla folla.
Passando alla situazione attuale, è possibile notare come le condizioni descritte da Girard siano presenti anche nel nostro periodo storico.
Siamo in un momento di profonda crisi economica, quasi ai livelli di quella antecedente la seconda guerra mondiale.
Allo stesso tempo, stiamo vivendo una profonda crisi umanitaria; centinaia di persone stanno approdando sulle coste dell’europa nella speranza di trovare un futuro migliore.
Di fronte a queste due crisi che appartengono a cause geopolitiche differenti, l’uomo crea delle connessioni inesistenti nella speranza di risolvere la crisi economica e pensa: le cose stanno andando male, la nostra terra sta venendo assaltata da migliaia di migranti, la causa della crisi economica deve essere dei migranti – o dei rom, di solito chi fa questi discorsi mette tutto assieme.
Piuttosto che ricercare la colpa in se stessi, si comincia a perseguitare il diverso, sperando di risolvere, in questo modo, i problemi che ci attanagliano.
E, come è possibile notare, in questi anni stanno venendo a galla tutti gli stereotipi della persecuzione con i quali venivano descritti gli ebrei o le streghe; si accusa i migranti di stupri, rapine, a volte di uccisioni di animali domestici, girano voci secondo le quali i migranti alloggerebbero in hotel a cinque stelle e tutto ciò non fa che alimentare l’odio represso che inevitabilmente non può che sfociare in violenze incontrollabili.
Per ora non siamo ancora giunti al terzo stereotipo: la violenza, il genocidio. Ma dal secondo al terzo il passo è molto breve.

Daniele Palmieri

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mercoledì 13 aprile 2016

Nietzsche: l'utilità e il danno della storia per la vita

Sull'utilità e il danno della storia, un titolo che non dà certo nell'occhio, che non possiede la medesima potenza evocativa di Così parlò Zarathustra ma che, ciò non di meno, nasconde grandi insegnamenti, come tutti gli scritti di Nietzsche (compresi quelli giovanili).
Il breve libello si presenta come una critica allo storicismo, la corrente dominante della filosofia tedesca otto-novecentesca, e ruota attorno alla domanda: in che misura abbiamo bisogno della storia?
Abbiamo bisogno della storia per la vita e per l’azione, non per ritirarci a studiarla come materia fine a se stessa, che non ha nulla da insegnarci.
L’animale vive in un momento non-storico, perché si dimentica subito del momento appena passato, al contrario dell’uomo. L’uomo si porta dietro ed è oppresso dal pesante carico del passato. A un certo punto però il passato deve essere dimenticato se non si vuole che esso diventi il nostro becchino, per vivere per un momento felici come l’animale. Se così non fosse, sanguineremmo ad ogni istante, oppressi dall'attimo appena passato. E così il non storico e lo storico sono entrambi necessari per la salute di un popolo. E’ vero, solo dallo storico nasce l’uomo, ma in un eccesso di storia l’uomo trova anche la sua fine.
Gli uomini storici credono che il flusso della storia sia un processo omogeneo la cui fase finale è il progresso dell’umanità e che la loro stessa esistenza abbia un senso poiché inserita in questo flusso storico. Si ricerca un flusso omogeneo in base alle esigenze, si manda la storia lì dove noi vogliamo che vada. Gli ultimi dieci anni di storia non possono insegnarci nulla di diverso. Passato e presente sono identici. La storia non potrà mai diventare scienza pura come la matematica.
Tuttavia, la storia serve all’uomo; ciò che non serve è l’eccesso della storia. La storia appartiene al vivente in tre sensi: per colui che agisce e per le sue aspirazioni, per colui che la osserva e la adora, per colui che soffre e ha bisogno di essere liberato.
A questi tre sensi corrispondono tre approcci, il monumentale, l’antiquario e il critico.
I primi sono tesi verso il futuro, sono gli uomini che creano nuova storia; la fama che acquisiscono non è il loro semplice e vanitoso ologramma, ma la fede nell’affinità e la continuità dei grandi di ogni tempo. Tuttavia, questa connessione non è tanto un flusso determinato, quanto un “effetto in sé”, un evento storico che trova la sua compiutezza e la sua grandezza in se stesso. Il problema sorge quanto questa storia monumentale, fatta di grandi azioni, diventa oggetto di venerazione, condizionando il giudizio dei posteri. Questo tipo di storia porta al fanatismo. E’ pericolosa se entra nelle mani degli uomini di potere e ancora di più se entra nelle mani degli uomini mediocri, che distruggeranno ogni senso artistico.
Il secondo tipo di storico è colui che si cura della storia da cui è venuto e che vuole a tutti i costi tramandarla ai posteri; l’anima di questo uomo si trasferisce nelle cose che conserva. La storia che tenta di conservare diventa la sua storia. Percepisce se stesso come spirito della propria città, della propria casa, crea un “noi” fittizio, un surrogato della sua personalità ed è convinto che la vita possa procedere solo permettendo a questo “noi” di continuare a vivere nella stessa immutabile realtà in cui lui è nato. L’antiquario ha l’orizzonte limitato, crede che il suo giardino sia il centro dell’universo, e se all’inizio la tradizione può vivificare la storia, a lungo andare la mummifica. E’ in grado di conservare la vita ma non di produrla. Paralizza la decisione, vanifica ogni sforzo e ogni energia tesa al futuro, concentrata com’è sul passato.
Di fianco a questo tipo di storia, c’è bisogno del terzo tipo di storico, quello critico. Questo deve distruggere il passato per poter vivere. Deve condurre il passato in tribunale, sottoporlo a un’inchiesta meticolosa e poi condannarlo. E’ un processo che nasce quando ci si accorge dell’ingiustizia e che la vita stessa è tutta un’ingiustizia. Tuttavia, questo passo è rischioso perché vuole costruire un nuovo passato da cui venire, e la cosa non è semplice.
La stessa Filosofia, secondo Nietzsche, si è indebolita a causa di questo approccio; non esiste più nessuno che vive filosoficamente, come gli stoici che aderivano alla Stoà, ma essa è diventata un terreno limitato dai paletti delle istituzioni.
Trattano neutralmente la filosofia così come trattano neutralmente la storia; ci si occupa di un filosofo in maniera arbitraria, si sceglie di studiare Democrito piuttosto che Socrate come se fosse del tutto indifferente, basta che se ne rispetti l’oggettività storica. Si snatura ogni tipo di impulso culturale, tolgono la vita alla filosofia vera, facendola diventare una voce dell’enciclopedia insieme alle altre. Questo eruditismo è in realtà un’impotenza della nostra epoca.
Nonostante il progresso, la nostra epoca è davvero più giusta e vera di quelle precedenti?
Ogni epoca ha sempre la superbia di ritenersi migliore di quella precedente, di ritenersi l’unica giusta, l’unica che possiede la verità e che tramite essa può criticare quelle passate.
Nel corso degli anni, gli uomini si sono sempre fatti ingannare dalla verità e dalla giustizia; spesso, il giudice che predica la verità è in realtà un fanatico.
La storia stessa, quando è scritta con oggettività, non si può dire che sia “vera”, poiché compito dello storico è quello di ricercare un nesso tra i fatti del passato che, per loro stessa essenza, sono impenetrabili.
La storia è un groviglio di causalità dove entrano in gioco migliaia di cause parallele ed è impossibile tracciare un decorso storico unitario, ancor più utopico riconoscere un decorso storico teso verso il futuro.
Il senso della storia non può trovarsi nella sua fine, bensì nel suo perpetuo e ciclico decorso; in questo senso, la storia è una sinfonia artistica, un’opera d’arte, non ha un senso morale intrinseco ma piuttosto un senso estetico.
L’epoca presente non può essere giudice di quella passata perché è arrivata dopo di essa, e un giudice deve sedere più in alto per giudicare un imputato. Soltanto compiendo una grande impresa storica si possono giudicare quelle passate; l’uguale per l’uguale. La storia la scrive chi è esperto e superiore. Chi non ha vissuto qualcosa di grande non potrà comprendere le grandi imprese del passato; il motto del passato è un motto oracolare, come quello dell’oracolo di Delfi, e soltanto interpretandolo correttamente è possibile costruire un futuro che ne sia all’altezza. Bisogna studiare le azioni dei grandi condottieri del passato, come gli eroi di cui narra Plutarco, per creare una cultura degna di questo nome.
Il giudizio storico fine a se stesso, che non sia costruttivo, distrugge le fondamenta e non fa nulla di positivo. Una religione ricostruita tramite la scienza storica viene snaturata, viene distrutta e svuotata di tutta la sua spiritualità, poiché vengono fuori tutte le azioni turpi e violente, mentre l’uomo di fede si nutre di amore e di speranza e con esse edifica il futuro.
La scienza storica così come è impostata accieca l’uomo; il giovane viene messo di fronte a centinaia di fatti storici in chiara luce di cui non può comprenderne lo spirito. Perde sempre di più il senso di stupore e alla fine ha perso ogni curiosità, è inattivo e apatico, non può costruire nulla di nuovo. E’ la morte della cultura.
Lo storico formatosi su questo tipo di nozionismo si sente completo già dalla giovinezza e quando diventa storico a tutti gli effetti è un supponente che si sente ancora più completo per aver criticato un certo capitoletto di un certo manuale, il tutto finché non si scade nella mediocrità più assoluta.
In questo modo si distrugge la scienza, che viene automatizzata. Con questo tipo di cultura storica gli uomini nascono già vecchi e si avvera la profezia di Erodoto secondo la quale l’ultima generazione di uomini nascerà già con i capelli grigi.
Con l’idea di un “ringiovanire” dell’umanità con il procedere del tempo non si fa altro che tramandare la visione teologica cristiana della storia, tesa verso un’apocalisse divina. Si guarda alla storia con la stessa reverenza clericale ed è come se si attendesse che il momento presente passi per trascriverlo su un libro di storia o, al massimo, per limitarne gli effetti.
Lo storicismo hegeliano ha reso la storia qualcosa di sacro e necessario; si vede l’epoca presente come il frutto tardo ma maturo di un processo universale, cadendo in un fanatismo storico e precludendo ogni altra forma d’arte.
Per di più, questo tipo di storicismo rende ciechi gli studiosi che giustificano ogni evento passato, trovando un cavillo come fossero avvocati. Ad esempio, si giustifica la morte dei grandi artisti dicendo che ormai avevano fatto il loro tempo.
Questi uomini sono tronfi d’orgoglio, credono di essere il vertice della storia, credono di aver raggiunto il traguardo della storia, di esserne il suo gioiello, addirittura di portare a compimento la natura.
Questo tipo di uomo non trova ideali per realizzare la propria vita, concentrato com’è su questo presunto processo storico necessario, e non compirà mai nulla di grande, appiattendosi al livello della massa che altro non è se non una lastra venuta male dei grandi uomini, uno strumento dei grandi uomini o un loro ostacolo.
Le cosiddette leggi storiche che rintracciano non sono nient’altro che l’opinione di questa massa di creta di alcun valore.
Purtroppo l’educazione dei giovani tedeschi si basa su questi presupposti e li sta rendendo non degli uomini ma degli eruditi buoni a nulla.
Per spezzare questa superstizione bisogna innanzitutto far cadere l’illusione della necessità di questo tipo di educazione, che indottrina il ragazzo ma non gli insegna a vivere. Meglio mandarli nei laboratori della natura piuttosto che in un museo. Dovrebbe valere l’ideale platonico della tripartizione delle caste. Questa è l’unica verità necessaria; chi è nato filosofo, ha oro nel suo corpo. Il motto della nuova generazione dovrebbe essere non cogito ergo sum, ma sum ergo cogito, vivo, quindi penso.
Il rimedio è l’individuo non storico e quello sovrastorico; il primo dimentica tutto il passato, il secondo sposta il suo interesse soltanto verso l’arte e la religione, che trapassano ogni era. La scienza vede in queste potenze forze avversarie, che vede in ogni cosa un fatto storico.

Bisogna seguire l’esempio dei greci che si trovarono in una situazione; colpiti da una serie di influssi di culture straniere, riuscirono a dare ordine a questo caos grazie al motto delfico “conosci te stesso”, tenendo solo il necessario e creando una cultura propria. Un cultura che era una voce unica tra vita, pensiero, apparire e volere.

Daniele Palmieri

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martedì 12 aprile 2016

Che cos'è il fanatismo?

La mente di un fanatico
Il fanatismo è un problema di stringente attualità e, purtroppo, tormenterà sempre l'umanità. Varie forme di fanatismo si sono sempre succedute nel corso dei secoli e quella che salta subito in mente, al giorno d'oggi, è la forma dei terroristi/kamikaze e dei loro attacchi suicidi.
In questo articolo voglio analizzare in maniera teorica le motivazioni a monte di chi compie gesti del genere, al di là dei condizionamenti ideologici che li spingono ad agire. In sostanza, voglia affrontare la questione del fanatismo e capire come nasce e come attecchisce sulle menti delle persone. Prima di cominciare, è bene fare una precisazione. Come potrete notare, parlerò di “fanatismo” e non soltanto di “fanatismo religioso”.
Ho appositamente fatto questa scelta perché ritengo che, soprattutto negli ultimi anni, si tenda ad associare le due cose come se fossero necessariamente correlate e come se l’unico tipo di fanatismo sia il fanatismo religioso.
In realtà, quello del fanatismo è un fenomeno ben più complesso che non si limita assolutamente alla religione. Difatti, potremmo definire il fanatismo come la degenerazione di qualsiasi ideale quando viene portato all’estremo.
E, al di là dell’ideologia che spinge il fanatico ad agire, sotto sotto si ritrovano gli stessi meccanismi psicologici di base e ambienti sociali molto simili che fanno da terreno fertile per il fanatismo.
Questa precisazione mi sembrava necessaria perché parte dell’opinione pubblica crede che l’unico tipo di fanatismo sia quello di matrice islamica, mentre un’altra parte dell’opinione pubblica (quella che, da ateo, chiamo gli "atei integralisti") crede che il fanatismo sia un fenomeno unicamente religioso e che eliminando la religione si risolverebbero tutti i problemi.
Ma di questo parleremo in seguito.
Vediamo, ora, chi è il fanatico?
Solitamente, bolliamo i fanatici come persone fuori di testa, come pazzi senza un briciolo di cervello.
In realtà e purtroppo, aggiungerei, non è così. I fanatici sono persone lucide, persone che sanno perché agiscono, in nome di cosa agiscono e quali saranno le conseguenze delle loro azioni.
Prendiamo ad esempio i fondamentalisti islamici; sono degli invasati, quello di sicuro, ma non sono dei pazzi senza cervello, tutt’altro. Ogni atto terroristico mosso dal fondamentalismo richiede una strategia, un piano d’azione e degli uomini che siano in grado di portarlo a termine con lucidità. Tutto questo non sarebbe possibile se i terroristi fossero semplicemente delle persone fuori di testa e, anzi, è pericoloso considerarle semplicemente come dei pazzi, perché così ci si dimentica della rete politica che si nasconde dietro l’azione dei singoli.
Tralasciando questo aspetto, il fanatico è una persona convinta di possedere la verità con la v maiuscola. Ha tante risposte a tutte le domande ma nessun dubbio e dispensa queste risposte come se fossero le uniche alternative possibili.
Ma questo è solo un lato del fanatico, perché se il fanatico si limitasse a questo sarebbe semplicemente un ignorante dagli orizzonti molto limitati.
Il problema sorge quando il fondamentalista comincia a pensare che in nome di questa verità sia lecito fare ogni cosa; sia quando comincia a pensare che sia lecito uccidere persone innocenti per far prevalere la propria verità sia quando ritiene lecito limitare le libertà altrui per imporre la propria visione del mondo.
Dunque nel fanatismo non rientrano soltanto gli atti terroristici più eclatanti, ma anche fenomeni della vita politica di tutti i giorni che abbondano già nel nostro paese.
Quando una certa parte dell’opinione pubblica manifesta a favore di una fantomatica famiglia naturale composta da uomo, donna e bambini, contro le famiglie che ritengono degenerate come quelle composte da persone dello stesso sesso, ecco queste persone non sono né più né meno che fanatici, perché vogliono imporre la loro visione di famiglia a discapito di quella altrui.
Un altro tipo di fanatismo è quello politico, pensiamo ad esempio agli attentati delle brigate rosse o al caso Moro o, rifacendoci alla storia passata, al Nazismo di Hitler e al Comunismo di Stalin.
La stesso ateismo o la stessa scienza che secondo alcuni filosofi come Richard Dawkins sono la risposta a tutti i problemi in realtà non sono immuni dal fanatismo. Cito un caso che ho incontrato in Liberazione animale di Singer ma che voglio portare come esempio generale e non per affrontare la questione della legittimità o meno della sperimentazione animale.
Nel libro appena citato si legge di uno scienziato chiamato Robert White, in grado di trapiantare teste di scimmia, che intervistato sulla legittimità etica del suo operato liquida la domanda dicendo che certe questioni possono essere affrontate soltanto dalla scienza e che si ritiene un elitario da questo punto di vista.
In sostanza, ritiene che, a nome del progresso scientifico, ogni cosa sia lecita; e lo stesso pensiero era quello degli scienziati che lavoravano nei campi di concentramento utilizzando cavie umane per i loro esperimenti.
Ora, non è questo un tipo di fanatismo “scientifico” che antepone gli interessi della scienza al di sopra di quelli etici?
Questo tipo di fanatismo ha poco a che fare con la religione e dimostra come quello del fanatismo sia un fenomeno molto complesso, radicato nell’uomo stesso e non in una particolare ideologia.
E, analizzate brevemente le due principali caratteristiche del fanatismo, bisogna domandarsi: qual è il terreno fertile per la nascita del fanatismo?
Senz’altro l’ambiente sociale nel quale è assente ogni tipo di spirito critico e dove la cultura è tramandata come qualcosa di immodificabile, come la migliore cultura possibile e di fronte alla quale tutti gli altri modi di pensare sono sbagliati. Processo di indottrinamento che comincia sin dall’infanzia.
Il califfato nero di Al Baghdadi è l’esempio più attuale, dove sin da piccoli i giovani sono indottrinati a forza con idee radicali e, spesso, con la menzogna.
In un bellissimo quanto spaventoso documentario di VICE i militanti del califfato islamico spiegano come convincono i bambini a farsi esplodere.
In pratica, gli dicono che la bomba che hanno addosso esploderà soltanto verso l’esterno e che loro saranno al sicuro, oppure che essa ucciderà soltanto gli infedeli lasciando illesi i veri musulmani.
In questo modo persone senza scrupoli sfruttano l’ignoranza a discapito di vittime indifese (e parlo sia dei bambini sia delle vittime della strage).
Questo tipo di indottrinamento, anche se non sfociava in azioni kamikaze, era quello sotto il fascismo, dove i bambini erano tempestati sin da piccoli dalla propaganda del regime.

Infine, come difendersi dal fanatismo?
La domanda è molto complicata e quella che posso dare è soltanto una risposta parziale, che vale per il singolo individuo ma che non può certo risolvere le situazioni drammatiche che stiamo vivendo.
Innanzitutto, è bene dire che i tentativi passati di sradicare il fanatismo già all’epoca di Bin Laden si sono rivelati, oltre che delle grande menzogne, dei grandi fallimenti.
In primis per una grande utopia dell’occidente moderno, ossia quella di importare la democrazia.
Ritengono la democrazia un sistema politico non certo esente da difetti ma comunque il minore dei mali possibili; tuttavia, essa richiede come requisito essenziale un elettorato istruito e, soprattutto, in quei territori governati da dittatori, una rivoluzione di matrice popolare che permetta l’instaurarsi di una vera democrazia.
Entrambi questi requisiti essenziali non sono stati rispettati nelle azioni militari dell’occidente e, come risultato, abbiamo avuto un ingente numero di morti, feriti e sprechi e dall’altro l’inasprimento dei gruppi radicali che hanno portato alla nascita dell’Isis, visto che la democrazia non si può certo esportare con le bombe.
Anche adesso i bombardamenti non possono che essere una soluzione temporanea; il 29 giugno dell'anno passato il califfato islamico ha fatto esattamente un anno dalla sua nascita e, nonostante i continui bombardamenti, in questo anno i suoi confini sono rimasti stabili e anzi si sono addirittura allargati.
Questo perché ciò che bisogna scardinare è innanzitutto il fanatismo, la rete invisibile che fa da aggregante dell’intero califfato e che non si può distruggere con le bombe perché esso si radica ancora di più nelle menti dei sopravvissuti.
Qual è la soluzione?
Come detto in precedenza, non è certo possibile trovare la soluzione con la s maiuscola perché entrano in gioco migliaia di fattori geopolitici e perché, in fondo in fondo, un briciolo di fanatismo è radicato in tutti noi.
La cosa più importante, di fronte a minacce o atti terroristici, è non farsi infettare, a propria volta, dal germe del fanatismo, che è tanto più efficace lì dove trova dei popoli spaventati.
Potrebbe sembrare uno slogan ma invito tutti a pensare che il fanatismo non può sradicarsi, a lungo termine, con le bombe e con la violenza ma soltanto con lo studio, la cultura e la conoscenza.
Pensate, per un momento: cosa avrebbe fatto quel bambino di cui parlavo in precedenza a cui è stato raccontato che la bomba ucciderà soltanto gli infedeli se qualcuno gli rivelasse che gli hanno mentito e che ucciderà anche lui?

Daniele Palmieri

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