Per molti anni, dal XVII alla fine del XVIII secolo, i Tarocchi furono considerati soltanto un semplice gioco di carte.
Dopo una lunga tradizione nelle famiglie nobiliari italiane, era ormai divenuto appannaggio di un'ampia fascia della popolazione e spopolava in tutta Europa, gareggiando in popolarità con gli scacchi. Eccetto rare testimonianze, la cartomanzia era pressoché sconosciuta e nelle città non era ancora possibile trovare, ai bordi delle strade, banchetti più o meno improvvisati per farsi leggere il futuro nelle carte.
La situazione cambiò radicalmente quando nel 1781 Antoine Court de Gébelin pubblicò un'immensa opera dal titolo Il mondo primitivo; uno dei primi tentativi di "antropologia comparata" in cui l'esoterista francese tentò di rintracciare i fili conduttori religiosi e culturali tra i diversi popoli. L'opera, pur nella sua idea innovativa, scarseggiava però di fonti, e divenne nota nei secoli a seguire soprattutto per un capitolo, l'VIII, intitolato: Il gioco dei tarocchi.
Nelle prime righe di questo capitolo, le più famose dell'intero testo e citate pressoché in ogni testo sulla materia, Gébelin scrisse:
"Se si venisse a sapere che ai nostri giorni esiste ancora un'opera degli antichi Egizi, sfuggita alle fiamme che divorano le loro superbe biblioteche, che racchiude la più pura dottrina su argomenti interessanti, saremmo tutti ansiosi di conoscere un libro così prezioso, così straordinario. La sorpresa sarebbe ancora più grande se si aggiungesse che questo testo è molto diffuso in gran parte dell'Europa e che da molti secoli è alla portata di tutti. E la sorpresa toccherebbe il culmine se si scoprisse che quest'opera è di origine egizia e che la si possiede come se non la si possedesse, visto che nessuno ha mai cercato di decifrarne neanche un foglio. Inoltre il frutto di una saggezza così squisita è considerato generalmente un ammasso di figure stravaganti che di per se stesse non significano nulla. [...] Questo libro egizio, unico superstite di quelle superbe biblioteche, esiste tutt'ora ed è persino così comune che nessuno studioso lo ha ritenuto degno di attenzione; nessuno prima di noi ha infatti mai supposto la sua illustre origine. [...] Questo libro è, in una parola, il Gioco dei Tarocchi" (Gébelin, Il gioco dei tarocchi, pp. 7-8).
Gébelin, per la prima volta, focalizzò l'attenzione su due aspetti dei Tarocchi: la loro origine e la loro simbologia. Questa fu la sua più grande intuizione che, come vedremo in seguito, darà via a una lunga tradizione di studi. Tuttavia, insieme a questa grande intuizione fece due grandi errori, rispondendo in maniera completamente fuorviante alle domande da lui sollevate sia sulla storia sia sul simbolismo dei tarocchi. Risposte che, per almeno un secolo e mezzo, svieranno anche i ricercatori successivi e che porteranno in auge la cartomanzia.
Ma procediamo con ordine e tentiamo di analizzare quali sono le argomentazioni che Gébelin porta in sostegno all'interpretazione egizia dei Tarocchi.
Benché Gébelin tratti l'aspetto storico nella seconda parte del testo, partiremo da questo e dalla (presunta) etimologia individuata dall'esoterista francese.
Tra gli indizi egiziani nascosti nel gioco ci sarebbe, appunto, il nome stesso; Tarocco deriverebbe dalla parola egizia tar, che significa via, e dalla parola rog, che significa regale, e il valore sapienziale del testo sarebbe appunto il suo essere una porta d'accesso simbolica a una "via regale", poiché in esso sarebbe contenuto tutto lo scibile esoterico di questo popolo. Sempre dal punto di vista etnografico, i quattro colori e i quattro semi rappresenterebbero le quattro caste sacerdotali: Spada per designare sovrano e nobiltà, Coppa per designare clero e sacerdoti, Bastone per indicare gli agricoltori e Oro per indicare i mercanti. Anche il numero sette, ricorrente nel numero dei Trionfi (21 + 1) e nel numero complessivo delle carte (77), entrambi multipli di sette, indicherebbe un'origine sacrale egizia, essendo il 7 un numero sacro a cui questo popolo riconduceva tutti gli elementi e tutte le scienze.
Come sarebbe finito, dunque, questo fantomatico libro egiziano in occidente, è possibile che sia mutato a tal punto da essere reso irriconoscibile?
Secondo Gébelin, nei primi secoli della Chiesa, tra II e III secolo d.C., gli egiziani erano molto numerosi a Roma, città in cui da tempo avevano importato il culto di Iside, insieme alla loro sapienza tramandata in lamine geroglifiche.
Rimasto sempre relegato al mondo delle élite culturali, esso si sarebbe poi diffuso tra il popolo in tutta Italia, soprattutto nel XIV secolo, epoca a cui risalgono le testimonianze dirette più antiche. Tuttavia, rimaneggiate nel tempo, le antiche figure geroglifiche sarebbero state fraintese dagli stampatori ignoranti e riadattate dalla censura cristiana, che non poteva accettare il simbolismo pagano. Da qui sarebbe poi giunto in Francia, a Marsiglia, ma mutato a tal punto dalla cultura e dai secoli da essere reso irriconoscibile.
Passando ora al simbolismo, come scrive Gébelin:
"I Trionfi sono in numero di ventidue e rappresentano in generale i Capi temporali e spirituali della società e quelli fisici dell'agricoltura, le Virtù cardinali, il matrimonio, la morte e la resurrezione o la creazione, i diversi giochi della Fortuna, il Saggio e il Folle, il Tempo che tutto consuma. Si afferra al volo che tutte queste carte sono altrettante tavole allegoriche che riguardano l'insieme della vita e sono suscettibili di infinite combinazioni" (Gébelin Il gioco dei tarocchi, Castelvecchi, p. 13).
Ogni carta conterrebbe dunque un'allegoria e un enigma, testimonianze della sapienza egizia, che Gébelin nella sua analisi simbolica tenta di recuperare.
Il primo gruppo è quello che va dal Matto (0) fino all'Innamorato (VI) che rappresenterebbero la società egizia: le caste e le relazioni sociali.
Il Matto, in quanto Trionfo 0, è una sorta di Intoccabile che si trova al di fuori del mazzo e che, per questo, ha senso di esistere solo in presenza del mazzo. Come scrive Gébelin "Ha solo il valore che dà agli altri, proprio come lo zero, mostrando così che nulla esiste senza la sua follia" (p. 15).
Il Bagatto (I), o giocatore di dadi, "indica che la vita intera non è che un sogno, un gioco di prestigio; un gioco perpetuo del caso o dell'incontro di mille circostanze che non dipendono mai da noi e sul quale influisce necessariamente, in larga misura, la condotta complessiva" (p. 17).
Imperatrice (III) e Imperatore (IV), che Gébelin chiama Re e Regina, rappresenterebbero la casta regale, il cui compito è quello di governare la società e occuparsi del potere temporale.
Il Papa (V) e la Papessa (VI), che Gébelin chiama Gran Sacerdote e Gran Sacerdotessa, sarebbero gli antichi ierofanti, custodi sacri della religione egizia, che gli antichi stampatori avrebbero trasmutato poi in Papa e Papessa per coprire il culto pagano, ma senza preoccuparsi di spiegare l'incoerenza della seconda figura femminile, assente nel sacerdozio cattolico, e che invece si spiegherebbe secondo l'antico culto egizio dove i due sacerdoti potevano e, anzi, dovevano sposarsi, riflessi sacri di Iside e Osiride.
Il Carro (VII) è rinominato da Gébelin Osiride trionfatore, e rappresenterebbe il Dio Osiride all'apice della sua gloria, che accede nel mondo trionfante sul suo carro da guerra.
L'ultima carta di questa prima serie, L'innamorato (VI) è rinominata da Gébelin Il Matrimonio, attribuendo ai fabbricanti di carte la prima errata denominazione e anche l'aggiunta di cupido, e che nell'iconografia egizia rappresenterebbe l'unione e la fede coniugale.
Il secondo gruppo è composto dalle quattro virtù cardinali.
La Forza (XI), la Temperanza (XIV), la Giustizia (VIII) e la Prudenza (XII); in generale, queste quattro virtù rappresenterebbero le virtù più elevate che un uomo può acquisire nella sua vita, per ascendere al pari degli déi. Un inciso merita la carta che Gébelin individua come "Prudenza", la XII, ma che in realtà in tutti i mazzi è indicata come "L'appeso. In questo trionfo vi è rappresentato un uomo appeso a testa in giù per una gamba, e con l'altra invece piegata. Secondo Gébelin, gli stampatori avrebbero erroneamente capovolto in fase di stampa questo trionfo che, invece, non rappresenterebbe un "appeso" ma un "uomo dal piede sospeso", pede sospenso in latino, che sarebbe stato erroneamente interpretato come "piede appeso". Questa nuova interpretazione viene data da Gébelin proprio per spiegare l'assenza della quarta virtù cardinale, che sarebbe rappresentata dall'uomo dal pede sospenso proprio perché esso darebbe l'idea di un uomo prudente che, prima di compiere qualsiasi passo, tasta il terreno.
Dopo questo gruppo, comincia una nuova tavola dedicata alla luce, metafora della sapienza sacra e ultraterrena.
Prima carta è L'Eremita (IX), chiamata da Gébelin Il Saggio o cercatore della verità e del giusto, è interpretato come il simbolo universale del sapiente che, ritiratosi dal mondo, si dedica esclusivamente alla saggezza eterna, rappresentata dalla sua lanterna.
La seconda è Il Sole (XIX), "padre fisico degli umani e della natura intera. Egli rischiara gli uomini nella società, presiede alle loro città, dai suoi raggi stillano lacrime d'oro e perle che simboleggiano le benefiche influenze di quest'astro" (p. 35)
Similmente la Luna (XVIII) è emblema della luce, la luce notturna che non solo rischiara ma che in Egitto, aveva una stretta connessione con le acque, le acque del Nilo che gonfiava con il suo ciclo, Nilo che nella carta sarebbe rappresentato proprio ai piedi della Luna.
La Stella (XVII), rinominata da Gébelin La Canicola, sarebbe Sirio, la stella per eccellenza, detta appunto Canicola dagli antichi egizi, poiché essa appare quando il sole esce dal segno del cancro, segno presente nell'aragosta della carta precedente. La donna che nella carta versa l'acqua dalla brocca sarebbe un ritratto della dea Iside, "alla cui benevolenza si attribuivano le inondazioni del Nilo, che iniziano al sorgere della Canicola, cosicché il suo apparire era il segnale dell'inondazione. E' per questa ragione che Canicola era consacrata a Iside e ne era il simbolo per eccellenza" (p. 41).
La settima tavola conterrebbe gli eventi funesti. Anzitutto La morte (XIII), tredicesimo Trionfo perché notoriamente il tredici è un numero nefasto e, inoltre, rappresentando i Tarocchi un gioco di guerra come gli scacchi, anche nell'antico Egitto questo gioco sacro doveva concludersi con l'estrema capitolazione.
Altra carta funesta è Il Diavolo (XV), che secondo Gébelin sarebbe la metamorfosi cristiana del demone Tifone, eterno nemico di Iside e Osiride.
La Torre (XVI) è chiamata dall'esoterista francese Casa di Dio o Castello di Plutone, e richiamerebbe un antico mito narrato da Erodoto che narra di un principe Egizio, Rampsinito, che commissionò a due architetti la costruzione di una torre per custodire le sue ricchezze, salvo poi scoprire che questi avevano inserito un mattone removibile per rubargli, di nascosto, parte dei suoi tesori. La loro punizione fu proprio la caduta dal punto più alto della torre, e il Trionfo sarebbe dunque un racconto allegorico sulla truffa e l'avarizia.
La Fortuna (X) mette in scena il continuo circolo del fato, che prima innalza e poi riporta a terra gli uomini, in un eterno e mutevole divenire.
L'ottava e ultima tavola conterrebbe gli insegnamenti mistici.
Anzitutto Il Giudizio (XX), il cui nome e l'iconografia, secondo Gébelin, furono modificati. A suo dire, la carta originale non avrebbe avuto la tomba né sarebbe stato un richiamo al risorgere dei corpi nel giorno del giudizio, ma avrebbe contenuto solo l'angelo con la tromba, espressione della Creazione del tutto e il suo nome sarebbe, appunto, La Creazione, tant'è che la carta successiva è Il Mondo (XXI) o, più precisamente, Il Tempo, primo elemento creato secondo la cosmogonia egizia, a cui rimanda ogni elemento della carta: la corona circolare che ruota, la donna che fugge, i quattro emblemi simbolo delle quattro stagioni.
In queste 22 lamine, sarebbe dunque rinchiuso il fiore dell'esoterismo Egizio.
Scrigno di tutta la saggezza degli antichi Egizi, la sua potenza divinatoria deriverebbe proprio dal contenere ogni informazione possibile, comprese le informazioni sul futuro che ci aspetta.
Per concludere questa analisi del testo di Gébelin, come si è anticipato in precedenza le sue intuizioni furono tanto originali quanto fantasiose. Anzitutto, l'autore non porta alcun dato storico e filosofico concreto sulla presenza di un testo tramandato in lamine geroglifiche e risalente ai primi secoli dopo cristo, e nemmeno la ricostruzione successiva di Etteilla, che identificherà gli Egizi superstiti in occidente con gli zingari che avrebbero poi diffuso, viaggiando, la loro conoscenza sotto forma di carte ha alcun fondamento storico. Tuttavia è vero, come sostiene Gébelin, che l'Italia fu la patria del Tarocco così come oggi lo conosciamo, ed è anche parzialmente giusta l'intuizione orientale della sua origine. Stando ai più recenti studi storici, i semi sarebbero di importazione Araba e i Trionfi sarebbero invece una produzione autoctona, commissionata da famiglie nobiliari come quella dei Visconti, che non attinse all'iconografia egizia ma che, anzi, condensò il sapere artistico e culturale del medioevo occidentale.
Se labili sono le prove storiche, ancora più incerta è la ricostruzione e la lettura iconografica sopra illustrata. Gébelin, come molti esoteristi del suo tempo, eccelle in fantasia e nella lettura allegorica dei simboli, ma oltre a eccellere spesso eccede, come quando, per adattare le immagini alle proprie intuizioni, giunge a storpiare completamente il significato e l'iconografia della carta, ad esempio quando trasforma, senza alcun rigore filologico, "L'Appeso" ne "La Prudenza". Per spezzare una lancia a suo favore, bisogna però dire che sul territorio del simbolo il rigore non può certo essere il medesimo della ricerca storica e filosofica, e Gébelin ha il merito di aver portato alla luce, per primo, alcuni significati simbolici delle carte e ad aver dato vita agli studi in materia. Se si pensa, inoltre, che alcuni simboli sono senza tempo e trascendono le culture, poco importa se Gébelin fraintende il Papa con uno Ierofante egizio, poiché sia Papa sia Ierofante sono simboli di un archetipo, quello del Sacerdote, ben più remoto, e se dal piano storico non è possibile accostare le due figure, è invece legittimo farlo sul piano simbolico, anche a tal punto di incrociarle e confonderle l'una nell'altra.
Antone Court de Gébelin, Il gioco dei tarocchi, Castelvecchi Edizioni.
Daniele Palmieri
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