La tradizione filosofica occidentale ha sempre dato molta importanza al concetto di "cura di sé". A partire dall'antichità classica, passando per il medio evo fino ai giorni nostri, è ricorrente il tema della presa di coscienza del proprio io e del compito, da parte del filosofo, di perfezionarlo.
Tuttavia, nel corso dei secoli le tecniche di cura del sé hanno assunto forme differenti, sia con il variare del contesto sociale, sia con l'introduzione di nuove ideologie e con diverse concezioni di ciò che può chiamarsi "Io".
Nelle due conferenze raccolte in Sull'origine dell'ermeneutica del sé, edito dalla casa editrice Cronopio, Michel Focault tenta di ricostruire una breve genealogia di tali pratiche, per comprendere come siano nate, come e perché si siano evolute e quale sia la loro importanza per l'uomo contemporaneo.
Come ogni grande concetto filosofico, anche l'idea della cura di sé nasce nella Grecia Antica, in particolare con le pratiche introdotte dalle scuole di vita ellenistiche. Riprendendo la concezione della filosofia antica delineata da Hadot, anche Focault sostiene che per i pensatori antichi la filosofia era anzitutto una materia pratica, il cui compito era quello di consentire al filosofo di raggiungere la felicità, tramite il perfezionamento di sé. Questo perfezionamento poteva avvenire attraverso l'esercizio di determinate pratiche psico-fisiche, che ponevano al centro del lavoro l'io del filosofo, tra cui la pratica della confessione, il filo conduttore dell'analisi focaultiana.
Come sottolinea Focault, però, occorre fare molta attenzione e non confondere questo "io" con la concezione moderna che abbiamo del soggetto. L'io del filosofo non coincideva con la sua personalità né doveva essere sviluppato secondo caratteristiche "soggettive". Il vero "Io" veniva realizzato e perfezionato quando esso si avvicinava all'ideal-tipo filosofico proposto dalla scuola a cui l'aspirante sophos aveva deciso di aderire. Questo concetto è ben esplicitato in alcuni passaggi del De Ira di Seneca e nella pratica, da lui descritta, della confessione dei propri difetti che il filosofo compiva, a se stesso, ogni sera.
I vizi che il filosofo latino si attribuisce vengono delineati non come aspetti intrinsechi della sua personalità, bensì come malattie da estirpare per raggiungere l'ideale del saggio stoico. Per fare un esempio pratico, Seneca si definiva "goloso" o "pigro" non perché si considerava la golosità e la pigrizia tratti distintivi del suo carattere, bensì come se fosse affetto da vere e proprie malattie, le quali non fanno parte dell'io ma sono, piuttosto, dei corpi estranei.
"L'io" di cui parla Seneca è un "io" astratto, quasi impersonale, non certo l'io "individuo", giacché il concetto moderno di "individuo" era alieno alla mentalità greco-latina. Compito di questo Io è di acquisire determinate virtù ed estirpare i vizi, dove vizio e virtù, come già accennato, non sono aspetti intrinsechi del proprio carattere ma delle qualità impersonali che si possono acquisire mediante l'esercizio (nel caso delle virtù) o dai quali si può venire infettati (nel caso del vizio).
Proprio questa forma di confessione dei propri difetti verrà ripresa dal cristianesimo, che ne muterà però il significato sulla base della diversa concezione dell'io.
Con il cristianesimo, il vizio e il peccato diventano delle qualità intrinseche dell'anima umana, e non delle "semplici" infezioni che essa può contrarre. L'uomo è marcio dentro fin dal peccato originario e questa macchia nera è tramandata generazione dopo generazione. I sette vizi capitali diventano dei tratti distintivi del singolo carattere e comincia così a farsi strada una nuova concezione dell'individuo e dell'Io. L'Io non è più qualcosa di oggettivo e impersonale, bensì un "Io" individuale, con determinati tratti caratteriali, viziosi o virtuosi, che distinguono un uomo dall'altro e che non sono più espressione di qualità impersonali che il soggetto acquisisce.
La confessione, da questa prospettiva, non è più un colloquio che l'Io del soggetto intraprende con se stesso per capire come migliorarsi, ma diviene uno strumento di potere nel momento in cui essa diviene espressione di un senso di colpa che deve essere confessato necessariamente a un'autorità, in questo caso l'autorità religiosa. Senso di colpa che verrà sfruttato dalle cariche religiose per ottenere il dominio delle anime e sottrargli la possibilità di migliorarsi e dominarsi da sole poiché, secondo la dottrina cattolica, vi è necessariamente bisogno di un intermediario per potersi lavare dai propri peccati ed è chiaro che, nel momento in cui la persona non può trarre da se stessa la forza per migliorarsi, perde gran parte della propria autonomia e, soprattutto, della propria libertà.
Vi è però un aspetto positivo nell'evoluzione della concezione dell'Io; difatti, è proprio la scoperta medievale di un'individualità concreta, che distingue un'anima dall'altra e gli conferisce una propria personalità, ad aprire la strada alla concezione più moderna di "individuo". Un passaggio necessario per arrivare all'ultima fase dell'evoluzione dell'ermeneutica del sé, quella della psicoanalisi novecentesca.
Lo psicologo prende il posto del confessore, ma la sua ermeneutica dell'anima dell'individuo non ha più il medesimo tono "inquisitorio"; il male da curare che colpisce la persona proviene ancora dall'interno della sua psiche, ma problemi psicologici come la nevrosi prendono il posto dei vizi e del peccato; la confessione si trasforma nella seduta psicologica, in cui non vi è l'ammissione di una colpa da purificare ma la descrizione del problema da risolvere.
Tuttavia, anche in questo caso il soggetto perde parte della propria libertà, poiché lo psicologo prende in carica il compito di curare il sé dell'individuo.
A questo punto, ciò che Focault propone è il recupero dello spirito della filosofia antica, per restituire all'individuo la possibilità di poter scoprire, scandagliare e curare il proprio "Io" senza bisogno di intermediari. Nel momento in cui affidiamo al prossimo tale compito, infatti, stiamo rinunciando a una parte fondamentale della nostra libertà.
Focault, Sull'origine dell'ermeneutica del sé, Cronopio edizioni
Se questo articolo ti è piaciuto, dai un occhio alle mie pubblicazioni.
Daniele Palmieri
Con il cristianesimo, il vizio e il peccato diventano delle qualità intrinseche dell'anima umana, e non delle "semplici" infezioni che essa può contrarre. L'uomo è marcio dentro fin dal peccato originario e questa macchia nera è tramandata generazione dopo generazione. I sette vizi capitali diventano dei tratti distintivi del singolo carattere e comincia così a farsi strada una nuova concezione dell'individuo e dell'Io. L'Io non è più qualcosa di oggettivo e impersonale, bensì un "Io" individuale, con determinati tratti caratteriali, viziosi o virtuosi, che distinguono un uomo dall'altro e che non sono più espressione di qualità impersonali che il soggetto acquisisce.
La confessione, da questa prospettiva, non è più un colloquio che l'Io del soggetto intraprende con se stesso per capire come migliorarsi, ma diviene uno strumento di potere nel momento in cui essa diviene espressione di un senso di colpa che deve essere confessato necessariamente a un'autorità, in questo caso l'autorità religiosa. Senso di colpa che verrà sfruttato dalle cariche religiose per ottenere il dominio delle anime e sottrargli la possibilità di migliorarsi e dominarsi da sole poiché, secondo la dottrina cattolica, vi è necessariamente bisogno di un intermediario per potersi lavare dai propri peccati ed è chiaro che, nel momento in cui la persona non può trarre da se stessa la forza per migliorarsi, perde gran parte della propria autonomia e, soprattutto, della propria libertà.
Vi è però un aspetto positivo nell'evoluzione della concezione dell'Io; difatti, è proprio la scoperta medievale di un'individualità concreta, che distingue un'anima dall'altra e gli conferisce una propria personalità, ad aprire la strada alla concezione più moderna di "individuo". Un passaggio necessario per arrivare all'ultima fase dell'evoluzione dell'ermeneutica del sé, quella della psicoanalisi novecentesca.
Lo psicologo prende il posto del confessore, ma la sua ermeneutica dell'anima dell'individuo non ha più il medesimo tono "inquisitorio"; il male da curare che colpisce la persona proviene ancora dall'interno della sua psiche, ma problemi psicologici come la nevrosi prendono il posto dei vizi e del peccato; la confessione si trasforma nella seduta psicologica, in cui non vi è l'ammissione di una colpa da purificare ma la descrizione del problema da risolvere.
Tuttavia, anche in questo caso il soggetto perde parte della propria libertà, poiché lo psicologo prende in carica il compito di curare il sé dell'individuo.
A questo punto, ciò che Focault propone è il recupero dello spirito della filosofia antica, per restituire all'individuo la possibilità di poter scoprire, scandagliare e curare il proprio "Io" senza bisogno di intermediari. Nel momento in cui affidiamo al prossimo tale compito, infatti, stiamo rinunciando a una parte fondamentale della nostra libertà.
Focault, Sull'origine dell'ermeneutica del sé, Cronopio edizioni
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