giovedì 3 marzo 2016

Piccola filosofia dello zombie: riflettere attraverso l'orrore

Cosa ha  a che fare la filosofia con dei corpi in putrefazione che camminano senza meta in cerca di qualche umano da divorare vivo?
Lo spiega questo trattatello di Maxime Coulombe, Piccola filosofia dello zombie, edito in Italia dalla Mimesis Edizioni.
Come recita il sottotitolo, il libro vuole far riflettere il lettore attraverso l'orrore messo in scena da una figura pop molto presente, dalla seconda metà del secolo ai giorni nostri, sul piccolo e grande schermo e sulla carta stampata: lo zombie.
Un mostro importato nella cultura di massa in tempi molto recenti, che ha ben presto conquistato l'immaginario collettivo evolvendosi in maniera dinamica con il passare degli anni e incarnando le paure dei diversi periodi storici.
La figura del "morto che cammina" con le caratteristiche proprie dello zombi è stata importata in occidente dai culti voodoo haitiani. Gli altri "morti viventi" appartenenti alla cultura occidentale come il vampiro o i fantasmi hanno infatti tratti completamente diversi da quest'ultimo.
Stando ai racconti popolari ma anche alle testimonianze di alcuni antropologi, gli sciamani haitiani possedevano la ricetta di una droga in grado di indurre nell'uomo uno stato di morte apparente. Quest'ultimo veniva dunque seppellito, salvo poi risvegliarsi qualche tempo dopo e essere recuperato dallo sciamano che, grazie all'effetto della droga - in grado di annichilire la coscienza e rendere le persone, letteralmente, dei cadaveri ambulanti - è in grado di sfruttarlo come schiavo.
In questa fase embrionale, l'archetipo dello zombie presenta alcune delle caratteristiche principali del morto vivente dell'età contemporanea: il ritorno dalla morte e l'assenza di una mente cosciente. Tuttavia, non è ancora il famelico mostro affamato di carne umana, anzi è una vittima più che un carnefice, e così come rappresentato dai culti voodoo incarna paure tipiche delle popolazioni "primitive": il timore verso il potere religioso, la paura nei confronti paranormale e della magia.
In questa veste entrerà in occidente a partire dai primi anni trenta con The magic Island di William Seabrook e L'isola degli zombie di Victor Alperin, anche se Maxime Coloumbe dimentica una prima, fondamentale, trasformazione che questa figura subirà, pochi anni dopo, con i racconti del ciclo del Rianimatore di H. P. Lovecraft, dove il morto vivente, riportato in vita non da un incantesimo ma da un esperimento scientifico, inizierà ad assumere comportamenti violenti e feroci.
E' soltanto a partire dagli anni '60, grazie alla rivoluzione cinematografica di Oscar Romero, che lo zombie assume le caratteristiche che tutti conosciamo. Creatura sperduta che vaga senza più possedere una propria coscienza come lo zombie haitiano, ma non più schiavo di uno sciamano, bensì "anarchico" portatore di morte, mostro affamato di carne umana riportato in vita non più da un incantesimo ma da un non meglio precisato virus (modificato dall'uomo) che si diffonde irrefrenabile. Lo zombie di Romero incarna un altro tipo di paura, diretta conseguente delle catastrofi delle guerre mondiali e del progresso scientifico sfociato nella bomba atomica: la paura dell'apocalisse tecnica. L'uomo, tramite il progresso scientifico, è diventata l'unica specie in grado, potenzialmente, di poter distruggere se stessa. E questa forza autodistruttiva che nella triste realtà si incarna nella bomba atomica, nel mondo cinematografico prende la forma del morto che cammina, figura dai tratti biblici (i morti che camminano sulla terra nel giorno della fine dei tempi) evocata dalla smania dell'essere umano di modificare la vita per trarne un'arma.
Allo stesso tempo vi è l'aspetto della critica sociale. Lo zombie romeriano, soprattutto ne L'alba dei morti viventi, è uno specchio opaco che riflette l'immagine della massa anonima, ridotta in schiavitù da una vita grigia, che la mattina affolla le metropolitane e le strade della città vagando con sguardo smarrito e coscienza spenta. A Maxime Coulombe sfugge, ma è una condizione ripresa dal fumetto e dalla serie tv di The Walking Dead dove "i morti che camminano" non sono gli zombie (o, meglio, i "vaganti", come li chiama Kirkman) ma gli umani, i sopravvissuti.
Un aspetto apocalittico che è stato quello più approfondito dai successori di Romero e che maggiormente colpisce l'immaginario collettivo. Da La notte dei morti viventi che mette in scena l'assedio di una piccola casa sperduta in campagna, lo stesso Romero ha allargato lo sguardo a L'alba dei morti viventi e poi al Giorno dei morti viventi, in cui, lentamente, è la Terra stessa ad essere assediata.
Questo ambiente post-umano è, come sottolinea Coulombe, una tematica ricorrente nella letteratura e nella cinematografia horror e fantascientifica degli ultimi tempi. Film come 28 giorni dopo, La terra dei morti viventi, Zombieland o il già citato The Walking Dead ci mostrano scenari urbani non "devastatati" ma, come ben nota l'autore, abbandonati. Lo zombie non distrugge le metropoli, vi passa attraverso causando una fuga generale dalla città. Le strade si svuotano, gli edifici vengono lasciati a loro stessi così come le automobili e ogni altro avere. L'ambiente urbano svuotato da ciò che lo rende vivo risulta straniante e incarna una delle paure contemporanee più nascoste: la paura dell'abbandono della civiltà. In fondo siamo consapevoli che basterebbe un nonnulla per mandare a rotoli il fragile castello di carte della società. Un blackout generale, il blocco dei trasporti, la carenza di cibo o di acqua, sono tutti elementi che sgretolerebbero le norme e le leggi e che, tutti insieme, vengono incarnati dall'invasione zombi, che costringe gli uomini a tornare a uno stato di natura hobbesiano, in cui homo homini lupus.
Ma lo zombie non è solo questo. E' anche la personificazione del tabù della morte, un evento della vita che la civiltà occidentale tende a nascondere. Ribaltando la consuetudine di nascondere i cadaveri o, comunque, di "trasformarli" per i riti funebri, truccandoli e vestendoli come se fossero ancora vivi, lo zombi, tramite il suo stesso corpo martoriato, lacerato e decomposto, costringe l'osservatore a sbattere la faccia sulla cruda realtà, a trovarsi a confronto con la morte stessa che, letteralmente, lo insegue per braccarlo e sbranarlo, per poi trasformarlo a sua volta in un cadavere ambulante. Lo zombie diventa così un doppio; i parenti, ormai defunti, tornano in vita preservando lo stesso aspetto e gli stessi vestiti, ma non possiedono più la scintilla della coscienza che li animava. Ritornano al mondo soltanto per perseguitare i vivi e trasmettergli il "morbo della morte", come nelle credenze primitive che vedevano negli spiriti dei defunti esseri maligni infuriati per il loro decesso.
In definitiva, Piccola filosofia dello zombi è una buona introduzione a una tematica che, però, potrebbe essere sviluppata in maniera più approfondita. Maxime Coloumbe si sofferma soprattutto sui film principali che hanno messo in scena i morti viventi ma ne tralascia molti altri e, soprattutto, sembra ignorare completamente la letteratura a riguardo. Inoltre, non so se per un errore di traduzione o per una svista dell'autore, ma nelle ultime pagine del libro si parla di The Road (film tratto dall'omonimo libro di Cormac McCarthy) come uno dei più famosi film zombie (?!), quando di morti viventi, sia nel film sia nel libro, non ve ne è proprio traccia, e la cosa mi ha lasciato piuttosto perplesso.
Svista a parte, ne consiglio comunque la lettura per farsi un'idea generale del fenomeno zombie; pur essendo incompleta mi ha offerto fecondi spunti di riflessione ed è utile per spianare la strada a ulteriori sviluppi sul tema.
Daniele Palmieri

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