Il rapporto tra potere e filosofia è sempre stato complesso ed è padre di uno degli eterni dilemmi della storia della filosofia: è possibile separare il pensiero di un filosofo dalla sua vita e dal suo "schieramento politico"?
Per i filosofi del passato, come Seneca, strettamente compromessi con il potere, il dilemma è ormai affievolito, materia di "semplici" dispute storiche che non compromettono il pensiero del filosofo stoico che è (ed è sempre stato) pubblicato, diffuso, insegnato nelle scuole e letto senza particolari dilemmi morali.
La questione è diversa, invece, per i filosofi a noi più vicini, soprattutto per quelli di un'epoca tanto drammatica quanto travagliata: il XX secolo. Non furono pochi i filosofi e letterati che compromisero la loro vita con i "poteri neri", chi per opportunismo e chi, invece, per sincero credo politico.
Il dilemma, in questo caso, si fa molto più forte. E' possibile separare la vita di pensatori che supportarono il nazifascismo dal loro pensiero filosofico?
Che sia possibile farlo o meno, la questione è molto complessa e io propendo per il no; se la filosofia dev'essere maestra di vita, ciò che si pensa è una diretta emanazione di ciò che si fa e viceversa.
Tuttavia, non credo che le pagine debbano finire nel dimenticatoio della filosofia, tutt'altro, soprattutto se il loro contenuto può essere rilevante per lo sviluppo del pensiero. Esso può essere criticato e smontato, oppure può essere terreno fertile per ulteriori riflessioni - come ogni pensiero filosofico profondo, indipendentemente dal periodo storico o dalla persona da cui è stato scritto. In ogni caso, la "censura del silenzio" contribuisce alla stagnazione del pensiero, che al contrario diventa tanto più dinamico quanto più sono le voci contrapposte.
Il più illustre filosofo in camicia nera è stato senz'altro Heidegger e, benché i suoi rapporti con il nazismo siano sempre stati ambigui, il mondo accademico non ha mai tentato di nascondere il suo pensiero - tutt'altro.
Al contrario, alla censura del silenzio sono stati destinati i filosofi di destra nostrani, come Giovanni Gentile, sui quali regna un vergognoso silenzio (e lo dico da estremo avversario del fascismo). E, se almeno di Gentile si trova qualche traccia sui manuali accademici, il più importante esponente della destra tradizionalista viene ignorato e, ai più, risulta sconosciuto: sto parlando di Julius Evola, filosofo, alpinista, pittore ed esoterista italiano, vissuto tra il 1898 e il 1974.
Spesso si tende a identificare una persona tramite le sue letture, ed è per questo che ho scritto questa lunga premessa; benché aborra qualsiasi forma di fascismo, reputo fondamentali per il pensiero filosofico alcuni pensatori che lo supportarono (come, appunto, Gentile e Evola) e, soprattutto, trovo intellettualmente stimolante confrontarmi con testi così distanti dalla mia visione filosofica della vita.
Il testo in questione di cui voglio parlare è Cavalcare la tigre, uno degli ultimi scritti filosofici pubblicati da Evola, in cui delinea un ritratto di vita filosofica con diversi spunti interessanti.
Il tema centrale di Cavalcare la tigre è la sopravvivenza del singolo individuo in un mondo che si sta sgretolando sotto i colpi del positivismo e dello scientismo imperante, che stanno quantificando ogni aspetto del reale facendo perdere il vero significato all'uomo e al mondo, ossia alla loro essenza metafisica.
Punto culminante di tale processo, iniziato nel 1700, è il nichilismo (tema preponderante in tutto il '900) inaugurato dal noto verdetto di Nietzsche: Dio è morto.
La morte di Dio è la morte dei valori trascendentali che hanno perennemente dato un senso alla vita del singolo; con la morte di Dio l'uomo prende sulle spalle un peso abnorme, quello della ricerca di un senso e della ricerca di un fondamento della morale. L'uomo è costretto ad andare "oltre Dio" a "varcare la linea" (utilizzando un'espressione jungeriana) e questo "andare oltre" può sgretolare ogni realtà. In mezzo alle rovine, però, può sorgere un uomo superiore, l'oltreuomo nietzschiano, che prende sulle proprie spalle il peso della morale, come un Atlante che sorregge il mondo, per costruire un universo nuovo.
L'andare al di là di Dio conduce l'uomo a una coscienza superiore, che si trova al di là del bene e del male, lo stesso territorio metafisico a cui approdano i mistici orientali del taoismo e dell'induismo. E' un'esperienza che dà all'oltreuomo una visione diversa delle cose, paragonabile - a mio avviso - alla visione di Arjuna nel culmine del dialogo con Krsna prima della battaglia, quando assiste - nella bocca del Dio - all'immensità dell'Universo che risucchia e vanifica ogni cosa.
Esso è un piano di realtà superiore in cui tutte le faccende umane, per quanto turpi e abominevoli, si mostrano come un nonnulla di fronte all'immensità dell'Universo, di fronte a questo piano di realtà in bilico tra la trascendenza e l'immanenza. Una posizione dalla quale l'oltreuomo può ammirare l'Essere messo a nudo, ed è dinnanzi a tale visione che egli deve dare prova della propria forza e della propria resistenza in un mondo in rovina, destinato a essere inghiottito nell'abisso della bocca di Krsna, riutilizzando la metafora precedente.
L'avversità è il crogiuolo dove temprare il proprio animo.
Occorre percepire in sé questa dimensione mistica della trascendenza e ancorarvisi; una condizione che porta al di là del nichilismo nietzschiano, poiché, dopo la morte di Dio, il suo seggio è rimasto vacante e l'oltreuomo, nel culmine della visione, può conquistare il suo posto divenendo egli stesso Dio. In questa condizione si coincide con la divinità e i concetti di "fede" o "ateismo" non hanno più alcun senso, poiché si coincide con la divinità stessa e negarla sarebbe come negare se stessi.
Allo stesso tempo, la potenza della divinità è la nostra potenza, l'unica che permette all'oltreuomo di poter erigere la propria realtà sopra le rovine.
Questo procedimento maieutico permette di estrapolare il proprio "essere-sé-stessi" e permette all'anima individuale di recuperare la propria condizione, di farla emergere dalla massa informe di spiriti erranti accecati dal bieco consumismo e da un ideale di "uguaglianza" che appiattisce ogni uomo alla stessa condizione.
Altra esperienza fondamentale è quella del "provare se stessi", far coincidere il proprio volere con il proprio essere, a costo di correre il rischio di essere distrutti. La vita, in tale prospettiva, deve essere intesa come opera, attività, realizzazione, "la cui iniziativa sia presa deliberatamente dal singolo", utilizzando le parole di Evola. Essa non deve essere una semplice esperienza vissuta passivamente, bensì un insieme di processi iniziati e orientati a un fine.
Il tipo umano qui presupposto deve, a tal riguardo, tenere ben presenti le massime orientali: agire senza badare ai frutti, l'agire senza pensare al successo, l'agire senza desiderio, e agire senza agire, agire mettendo in moto la legge superiore interiore guidata dal flusso naturale degli eventi che è, allo stesso tempo, libertà e necessità (la libera necessità di cui parlavano anche gli stoici).
Rispetto al principio dionisiaco di Nietzsche, l'agire di Evola non riguarda il lato ricettivo-passivo dell'esperienza, travolto da un'ebbrezza estatica, bensì un agire attivo. E' un approccio eroico alla vita, che affonda le sue radici nell'essere stesso, nei piani superiori della vita. E' un agire puro che conduce a una diversa concezione di "piacere" e "felicità" rispetto alla mera concezione edonistica e naturalistica, che può essere un punto di partenza ma non certo quello di arrivo - semmai un aspetto complementare che, insieme alla vita attiva, concorre alla felicità autentica.
Questo agire "puro" si è svincolato da qualsiasi concetto di "peccato morale". L'unico aspetto che può ammettere è quello dell'errore, insito nell'azione stessa, ma svincolato da qualsiasi accezione morale, esattamente come concepito dal karma indù che assegna premi senza alcuna sfumatura moraleggiante. Ogni azione paga il prezzo di se stessa in maniera assolutamente deterministica.
Agire consapevoli dei rischi insiti nell'azione significa essere disposti a pagare il prezzo del fallimento - e, soprattutto, avere coraggio e fermezza nell'affrontarlo.
In definitiva, Cavalcare la tigre di Julius Evola è un testo fondamentale per ampliare le proprie vedute sulla vita e per prospettarsi una concezione dell'esistenza diversa da quella quotidiana; una vita che oltrepassa la linea della morale comune - una morale della consuetudine, una morale da schiavi - per impugnare le redini della propria biga e indirizzare, in maniera libera e consapevole, il cavallo nero e il cavallo bianco della propria anima verso fini più elevati, conquistando un'imprigionabile autarchia interiore in mezzo a un mondo che si sgretola, sempre di più, con il passare del tempo.
Una decomposizione che può essere considerata non soltanto quella sociale, a cui tende l'occhio Evola, ma soprattutto quella naturale. Siamo immersi in un mondo che si rinnova in ogni momento sulle ceneri del mondo passato; tutto scorre, ogni nascita è già una "rovina" e ogni "rovina" è destinata a crollare sotto il peso del tempo, a diventare cenere da cui nasce altra vita. In questo circolo apparentemente insensato, l'uomo libero, l'oltreuomo, non può accontentarsi delle risposte preconfezionate; egli deve trovare un senso alla propria vita. Il suo senso, che nessun altro potrà mai sottrargli; e nell'appagamento della ricerca, nell'ebbrezza della libertà interiore, egli sfiora l'eternità.
Julius Evola, Cavalcare la tigre, Edizioni Mediterranee
Daniele Palmieri
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