giovedì 19 agosto 2021

In difesa della Wilderness. 5 libri per riscoprire la Natura Selvaggia


Qualche giorno fa, di ritorno dal Mar Baltico e dalla Foresta Nera, stavo camminando per le strade di Milano. A un certo punto, sotto il caldo torrido dell'estate, acuito dalle temperature infernali provenienti da cemento, vetro e asfalto, mi sono guardato attorno e ho provato una sensazione di angoscia e claustrofobia. Palazzi, asfalto, negozi, rumore, ferro, acciaio, automobili, smog, cemento, pavé, rotaie, semafori; l'intero paesaggio ha iniziato a sembrarmi totalmente innaturale. C'era qualcosa di inquietante, se non addirittura disturbante, in tutto ciò che mi circondava. All'inizio non riuscivo a comprendere cosa avesse provocato questa sensazione di costrizione e prigionia, poi, guardandomi ancora attorno, ho capito: in qualsiasi direzione posassi lo sguardo, non vi era un'area verde. Non un cespuglio, non un albero, non un prato o un'aiuola. Ovunque volgessi lo sguardo, in qualsiasi direzione, non vi era traccia di vita naturale - e la totale assenza di una "via di fuga vegetale", dopo oltre dieci giorni passati a stretto contatto con la natura, era stata percepita dal mio inconscio come una situazione di pericolo, come l'approdo in una terra del tutto aliena e ostile, dalla quale avrei dovuto fuggire al più presto.
Nel frattempo, in Italia e del mondo, si parlava dei violenti roghi che stavano bruciando (e che stanno bruciando tutt'ora) ettari ed ettari di foreste, le cui foglie, probabilmente, non vedranno più luce di fronte a questa avanzata inarrestabile dell'antropizzazione degli ambienti naturali che da oltre due secoli sta fagocitando ogni spazio libero. E, se nei secoli passati, i grandi disastri erano narrati nelle cronache storiche come punizioni divine, dal significato simbolico, dovute a qualche colpa dell'umanità, proprio ora che gran parte delle responsabilità di ciò che sta avvenendo dipende dalle mani umane, ci si volta dall'altra parte e ci si lava la coscienza cercando di ignorare il problema, incapaci di cogliere la punizione metaforica - ma anche terribilmente concreta - che questi fenomeni eccezionali, sempre più frequenti, incarnano. 
Questa cecità selettiva nei confronti dell'inquinamento e della distruzione della Natura non è un fenomeno recente ma si protrae da quasi 200 anni, per la precisione a partire dalle grandi rivoluzioni industriali del 1800 e del 1900 che, in nome di un fantomatico e mostruoso Progresso Economico, hanno sacrificato sull'altare del Dio Denaro tanto i diritti umani quanto i grandi spazi naturali, ormai totalmente soggiogati all'idea che il significato e il valore di un terreno o di un'area naturale risieda esclusivamente nelle risorse che da essi è possibile trarre. 
Ed è interessante notare come profetiche voci di dissenso abbiano iniziato a sollevarsi fin dalla metà del 1800, a dimostrazione di come il "problema ambientale" non sia un'invenzione moderna o una paura infondata dei "gretini", per citare il terribile neologismo inventato per screditare le fondamentali lotte ambientaliste, ma un problema dalle radici storiche estremamente profonde, nei confronti del quale qualsiasi forma di potere ha sempre scelto di voltare lo sguardo dall'altro lato perché considerato un impiccio per l'economia. Guai, infatti, a ostacolare il Dio Progresso.
In questo articolo, ho dunque deciso di presentare cinque letture a tutti coloro che vogliano da un lato evadere da queste prigioni di cemento in cui si sono trasformate le nostre città e che dall'altro lato vogliano approfondire le radici storiche del problema ambientale.
Filo conduttore dei cinque libri che suggerirò è la cosiddetta "Wilderness", parola inglese che letteralmente indica le terre selvagge, incontaminate, ma che dal punto di vista metaforico esprime qualcosa di più profondo: la meraviglia atavica che si prova di fronte ai vasti spazi vergini, alla Natura indomita e senza tempo di quei luoghi in cui ancora non sono riusciti a penetrare i tentacoli della civiltà, espressione di una Terra illibata da millenni. Luoghi sempre più rari da trovare, ora che rifiuti, inquinamento e cambiamenti climatici stanno devastando l'interno pianeta, e che alcuni coraggiosi pionieri dell'ambientalismo hanno sempre cercato di tutelare fin dalla prima metà dell'ottocento.
Partiamo in ordine cronologico.
I primi libri che suggerisco (che considereremo con un unicum, essendo
entrambi legati allo stesso autore) sono legati alla figura di John Muir. Si trattano di Andare in montagna è tornare a casa e Potevo diventare milionario, ho scelto di essere un vagabondo. La vita di John Muir. Il primo è una raccolta di scritti dello stesso John  Muir, il secondo una biografia a lui dedicata da Alexis Jenni ed entrambi sono stati pubblicati in Italia da Piano B Edizioni. John Muir è stato il pioniere della Wilderness americana. Indomito vagabondo delle terre selvagge, è stato uno dei primi pensatori a denunciare i danni causati dalla civilizzazione sfrenata e a lui si deve il concetto di "salvaguardia" degli ambienti Naturali, l'idea che alcune zone debbano essere protette da qualsiasi forma di sfruttamento umano per preservarne gli equilibri, la vita vegetale e animale e, in una sola parola, la "Wilderness" primordiale. "Così la vita di John Muir" scrive Alexis Jenni per delinearne un poetico ritratto "lunghe camminate in luoghi non occupati dall'uomo. Qui incontra eremiti, uomini decisi a

uscire dal mondo, che si installano là dove non c'è vicinato, per parlare solo alle marmotte e agli uccelli. Con loro passava qualche ora, condivideva un pasto, un fuoco da campo, chiacchierava volentieri ma sapeva anche ascoltare, raccontava storie, ascoltava le loro, poi riprendeva il suo cammino. [...] Muir vuole andare, sempre avanti, più lontano. Questo è tutto. E osservare. Tutto il resto, tutto ciò che di solito è la vita di un uomo, la ricchezza, la comodità, la protezione, è sacrificato a questa libertà
" (Potevo diventare milionario, ho scelto di essere un vagabondo, Alexis Jenni, Piano B Edizioni). Questo "lieve vagabondaggio" sulla terra lo accompagnerà per tutta la vita, tra montagne, laghi, fiumi e valli, sempre in cerca della Wilderness originaria che, come un profeta, cercò di incarnare nei suoi ritorni alla civiltà per dar voce, quasi fosse uno Spirito della Natura, a quelle terre vergini e ataviche che la civiltà rischiava e rischia tutt'ora di distruggere.

Il secondo libro
è di un autore per certi versi analogo a John Muir, sebbene lievemente più "civilizzato, ossia Aldo Leopold. Si tratta di Pensare come una montagna. A Sand Country Almanac, anch'esso edito da Piano B Edizioni (a cui si deve il merito di tradurre in Italia alcune opere fondamentali dell'ambientalismo internazionale). Prima ancora di presentare l'autore, le prime righe del suo testo ne compendiano alla perfezione lo spirito e la lotta: "Ci sono uomini che possono vivere senza natura selvaggia e uomini che non ci riescono. Questi saggi raccontano le gioie e i dilemmi di uno che non può farne a meno. Come il vento e i tramonti, la natura selvaggia è sempre stata data per scontata, finché il progresso non ha iniziato la sua opera di devastazione. Oggi ci troviamo di fronte alla questione se un più "elevato" tenore di vita possa compensare la scomparsa di tutto ciò che è naturale, libero e selvaggio. Per noi, che siamo una minoranza, l'opportunità di osservare delle oche è più importante di guardare la televisione e la possibilità di trovare una pulsatilla è un diritto altrettanto inalienabile della libertà di parola" (Pensare come una montagna, Aldo Leopold, Piano B Edizioni, p. 17). Insieme a Muir, Aldo Leopold è stato uno dei "fondatori" dell'ambientalismo americano, per non dire internazionale. Considerato, insieme a Walden di Thoreau, uno dei classici della letteratura naturalistica, A Sand Country Almanac è, come suggerisce il titolo, un almanacco, simile agli almanacchi popolari, che attraverso pensieri, suggestioni sparse, eventi di vita, riflessioni, meditazioni, racconti e brevi saggi cerca di trasmettere la passione per la Natura indomita, sempre nel tentativo di sensibilizzare l'uomo sulla connessione intrinseca che lega la sua sopravvivenza alla conservazione della Wilderness. In quest'opera le descrizioni poetiche della Natura in tutta la sua potenza e in tutto il suo splendore si alternano alle drammatiche denunce dei disastri dovuti all'inquinamento industriale e antropico, sia di un altro grande problema, ancora estremamente attuale, quello del turismo di massa che cerca di trasformare la Natura in un immenso parco giochi. Leopold fu uno dei primi a sottolineare che il fine dell'ambientalismo non sia quello di creare delle aree naturali dove l'uomo possa svagarsi in pace, ma di cercare un sano equilibrio tra il mondo civilizzato e la Natura e, soprattutto, di riscoprire il legame etico che collega la vita alla Terra. "Noi abusiamo della Terra perché la consideriamo come una merce che ci appartiene" scrive Leopold "E' solo quando vediamo la Terra come una comunità a cui appartenere, che iniziamo a trattarla con amore e rispetto. Non c'è altro modo in cui la terra possa sopravvivere all'impatto dell'uomo meccanizzato, né per noi di mietere la messe estetica che essa, sotto l'egida della scienza, è in grado di offrire alla cultura. La terra come comunità è il principio base dell'ecologia, ma che essa sia qualcosa da amare e rispettare è un'estensione di natura etica" 
(Pensare come una montagna, Aldo Leopold, Piano B Edizioni, p. 18).
Con il terzo libro ci inoltriamo nell'epoca presente. L'autore è Gary Snyder, poeta e ambientalista contemporaneo, e il testo in questione è La Pratica del Selvatico,
edito da Fiori Gialli Edizioni. Come il libro di Leopold, La Pratica del Selvatico è una raccolta di saggi, un vero e proprio invito all'azione per recuperare, appunto, la "pratica della natura", per riavvicinare l'azione dell'uomo a quella terra da cui le città lo hanno tagliato fuori. Le sue parole descrivono alla perfezione il concetto di "Wilderness". Scrive l'autore nel libro: "L'uso che Milton fa del termine Wilderness coglie la vera condizione di energia e ricchezza che si trova così spesso nei sistemi selvatici. Una distesa di dolcezze richiama i miliardi di piccole aringhe e sgombri nell'oceano, i chilometri cubi di krill, i semi delle piante erbacce della praterie [...] tutte la incredibile fecondità dei piccoli animali e piante che nutrono la rete della vita. Ma, da un altro punto di vista, wilderness ha implicato chaos, eros, lo sconosciuto, i reami del taboo, l'habitat sia dell'estatico che del demonico. In entrambi i sensi è un luogo di potere archetipico, insegnamento e sfida" (La Pratica del Selvatico, Gary Snyder, Fiori Gialli Edizioni, p. 22). Per Snyder il "selvatico" è lo stato originario della vita, rappresenta la libertà originaria di ogni essere vivente, il lato indomito che la civiltà, per sua stessa essenza, necessita di domare. Un dominio in parte necessario, ma che si fa dispotico sia nei confronti dell'uomo sia nei confronti della Natura quando comincia a tiranneggiare esigendo il controllo assoluto, per mezzo dello sfruttamento. Tagliare del tutto i ponti con la Natura, così come sta avvenendo nelle nostre città, significa privare l'uomo di questa libertà originaria, renderlo schiavo dei suoi comfort privandolo della capacità di soddisfare i suoi bisogni primari se non per mezzo delle cose che egli può fare e acquistare all'interno della società e della cultura umana. La Pratica del Selvatico consiste nel recupero di questa libertà originaria, che però non deve essere ricercata solo per l'ebrezza del brivido e dell'emozione forte - altra ricerca "negativa", frutto del turismo di massa e del consumismo naturale. "Il galateo del mondo selvatico" scrive Snyder "non richiede solo generosità, ma una specie di rude e allegra capacità di tollerare i disagi con buon umore, di comprendere la fragilità di tutti e una certa umiltà. L'abilità di raccogliere velocemente le more, l'istinto di seguire una pista, di sapere dove si può fare una buona pesca, di saper leggere la superficie del mare o il cielo, queste cose non si conquistano soltanto con la fatica. Andare in montagna richiede le stesse qualità. Per queste azioni ci vuole allenamento, il che richiede una certa dose di sacrificio e intuizione e bisogna svuotarsi di se stessi. Alcuni hanno avuto grandi visioni soltanto dopo essere arrivati a non avere più niente. [...] Per chi vuole cercarla direttamente, entrando nel tempio primordiale, la wilderness può essere un maestro terribile, che dilania all'istante gli inesperti e i distratti. E' facile commettere gli errori che porteranno al punto di non ritorno. In senso pratico, una vita dedita alla semplicità, al giusto coraggio, al buon umore, alla gratitudine, al lavoro e al gioco senza riserve, e tanto cammino, ci portano vicino al mondo effettivamente esistente e alla sua interezza. La gente delle culture della Wilderness raramente va in cerca di avventure. Se rischiano deliberatamente è per ragioni spirituali, piuttosto che economiche" solo affrontando la Natura con questo spirito "Le lezioni che impariamo dal mondo selvatico diventano galateo di libertà. Possiamo godere della nostra umanità, del suo cervello favoloso e della sua sessualità vibrante, le sue ambizioni sociali e i suoi malumori ostinati e considerarci né più né meno come gli altri essere nel Grande Spartiacque. Possiamo accettare gli altri come esseri uguali a noi, che dormono a piedi nudi sulla stessa terra. Possiamo rinunciare alla speranza di diventare eterni e smettere di combattere la sporcizia. Possiamo tenere alla larga le zanzare e i parassiti senza odiarli. Senza aspettative, attenti e sufficienti, riconoscenti e premurosi, generosi e diretti" (La pratica del Selvatico, Gary Snyder, Fiori Gialli, pp. 34-36)
Dopo aver dato il monopolio letterario ad autori americani, è giusto concedere un po' di spazio ad autori nostrani. E lo faccio con due giovani e promettenti voci letterarie e ambientaliste nostrane.

Così, il quarto libro è di Francesco Boer, scrittore e fondatore del blog Alchimia dei Simboli, Troverai più nei boschi, edito da Il Saggiatore. Ho già avuto modo di parlarne in un articolo a esso dedicato, ma ci tenevo a riparlarne in questa lista perché il libro di Boer recupera un aspetto fondamentale del rapporto con la natura: la connessione simbolica e spirituale. Spesso si pensa alla battaglia ambientalista esclusivamente in termini "scientifici"; i dati, le informazioni, le rilevazioni che dimostrano il nesso causa-effetto tra l'attività umana e l'inquinamento, i cambiamenti climatici, la moria degli animali selvatici e la distruzione degli ambienti naturali. Ma raramente ci si sofferma sul significato simbolico che questa distruzione rappresenta per la psiche e la spiritualità umana. Per millenni l'uomo, anche nelle grandi città del passato, ha vissuto immerso in una natura indomita. Ampi spazi naturali circondavano i paesi; lunghi spostamenti in territori selvaggi e irti di pericoli naturali separavano una comunità dall'altra e questa connessione simbolica di incontro/scontro con il selvatico ha sempre dato vita a miti, riti, usanze, folklore, leggende, emozioni; in altri termini, la Wilderness ha sempre fatto parte dell'esperienza umana, almeno finché la Natura Selvaggia, con l'avanzare della civilizzazione, non è stata ridotta ad aree lontane, a un paesaggio di sfondo, a un lontano ricordo. Quando l'uomo ha abdicato alla Natura, ha messo da parte anche questa connessione originaria con il simbolo - il luogo d'incontro tra la sua interiorità e lo spazio selvaggio. Ma, come scrive Boer: 
"Il simbolo è la via che ci permette di intuire la fratellanza fra coloro che sembrano estranei. Grazie a questa rotta, possiamo tracciare un sentiero al tempo stesso nuovo e antico: la relazione che concilia l'essere umano e la natura. Non è un rapporto di dominio, con ci l'uomo tenta di ergersi sopra l'ambiente in cui vive, per sfruttarlo e renderlo schiavo. Ma non è nemmeno un asservimento dell'uomo, né si tratta di denigrarlo di fronte a un'immagine idealizzata della natura. E' piuttosto un confronto alla pari [...] è riconoscere la propria unicità ma anche comprendere che le diversità sono il canale per comunicare" (Francesco Boer, Troverai più nei boschi, Il Saggiatore, pp. 14-15). Il simbolo è una forma di comunicazione in grado di connettere l'uomo al Pianeta e la Natura, apparentemente muta, ci ha sempre comunicato tramite simboli. Sempre citando Boer: "La natura ci parla tramite i simboli. Un prato, un bosco, un fiume: non sono soltanto luoghi esteriori, ma spazi dell'anima. Il simbolo non è solo lì fuori, ma non è nemmeno una nostra elaborazione mentale. La sua vera essenza è nel rapporto, nell'assonanza che fa vibrare all'unisono il cuore e il mondo esterno. Grazie a questa empatia, a questa grande compassione, l'essere umano può accedere a una relazione con la natura che altrimenti gli rimarrebbe preclusa" (Francesco Boer, Troverai più nei boschi, Il Saggiatore, pp. 14-15). Dimenticare questo linguaggio significherebbe condannare a morte un'intera regione del nostro spirito.
Concludiamo con il quinto libro, una delle disamine più complete pubblicate in

Italia sui problemi inerenti al cosiddetto Antropocene, l'epoca geologica dell'umano, e sul tentativo di invertire la rotta restituendo alla Natura - ma anche all'interiorità umana - il Selvatico a essa sottratto. Si tratta di Into the (Re)Wild di Natan Feltrin, testo autopubblicato dall'autore, filosofo e ambientalista italiano, fondatore di Wild Matters, che da molti anni a questa parte ha preso parte a diversi progetti legati alla fauna e alla flora selvatiche. Into the (Re)Wild è il primo testo pubblicato in Italia sul concetto di Rewilding, l'idea di decostruire parte della civiltà "in sovrabbondanza" per restituire alla Natura, vegetale e animale, gli spazi impropriamente sottrattigli. Questa operazione procede di pari passo a una "Rewilding" interiore, analogo alla Pratica del Selvatico descritta da Snyder. "Il Rewilding" scrive Feltrin "è un movimento che mira al ripristino delle condizioni necessarie affinché la natura - gli ecosistemi - sia in grado di autodeterminarsi senza il controllo costante di una sola specie. [...] Il rewilding è un'occasione di ripensamento del nostro rapporto con la natura, di restituzione agli altri viventi, di ricostruzione alle connessioni ecologiche perdute e di disobbedienza all'imperativo genocentrico che vorrebbe favorissimo la nostra specie a scapito di qualunque istanza etica" (Natan Feltrin, Into the (Re)Wild, pp. 29-30). Non bisogna tuttavia confondere questo tentativo di "riparazione" con una restaurazione originaria. Non si tratta di una volontà malinconica e romantica di tornare a un non meglio precisato passato primitivo; si parla anzitutto di sopravvivenza, sia della nostra sia delle altre specie del pianeta, minacciate dalla macchina ormai fuori controllo del progresso umano. "L'idea non è quella di tornare nel pleistocene" scrive Feltrin "bensì di ricreare le condizioni ecologiche più sane e dinamiche di cui siamo a conoscenza, ovvero il rapporto co-evolutivo della comunità Cenozoica prima che la nostra specie - e non il clima - causasse l'estinzione della megafauna". Un processo, quello dell'Antropocene, che nell'ottica dell'autore è ben precedente alla meccanizzazione della civiltà odierna e che è cominciato con la colonizzazione della terra da parte dell'Homo Sapiens fin dalla Preistoria umana. Si tratterebbe, dunque, di un cambio di rotta radicale, un vero e proprio salto evolutivo-cognitivo che dovrebbe portare l'uomo a ridefinire totalmente la sua posizione sulla Terra, giacché fin dalla sua comparsa l'Homo Sapiens pare aver destabilizzato l'intera ecologia del pianeta per plasmarla a sua immagine e somiglianza.

Daniele Palmieri

Immagine: dipinto di Nicholas Roerich, 1930.

martedì 22 giugno 2021

L'Erba di San Giovanni: miti, riti, e proprietà dell'iperico

Il 24 giugno è il Giorno di San Giovanni. Una delle festività rituali più importanti, nata in ambito pagano e radicata a tal punto da essere assorbita dal cristianesimo. In questa festività, che cade pochi giorni dopo il Solstizio, l'accensione dei fuochi fungeva da atto magico per celebrare e rinvigorire le forze del Sole, affinché l'astro celeste continuasse a spargere sulla terra i suoi raggi vivificanti, in grado di scacciare freddo e tenebre. Ma l'accensione dei fuochi era soltanto uno dei molti rituali nati per cerebrale il Sole estivo; nel mondo magico-religioso vi è infatti il perpetuo tentativo di cogliere le segnature tra il cosmo e la terra, ossia i legami che vincolano ciò che sboccia sulla terra a ciò che si muove nel cielo. Ed è da questa osservazione magica che nacque la sacralità di un'erba i cui fiori sbocciano proprio in concomitanza con il giorno di San Giovanni: l'iperico.

L'iperico può diventare l'esempio per eccellenza di come simbolo, rito, tradizione e religione possano fondersi per divenire un tutt'uno con botanica, scienza, medicina ed erboristeria. La pianta è infatti un vero e proprio crocevia di culture ed usi differenti, in cui però è possibile rilevare un continuo in cui perfino gli usi terapeutici, dimostrati scientificamente, sembrano strettamente collegati a ciò che la pianta ha sempre rappresentato da un punto di vista simbolico. Andremo ora ad analizzare, da diversi punti di vista, i miti, i riti e gli usi magici che si intrecciano in maniera indissolubile con le proprietà erboristiche dell'Erba di San Giovanni.

Già a partire dal nome, la pianta mostra la sua intrinseca connessione con il mondo invisibile. Come scrive Rossella Omicciolo Valentini ne Le erbe delle streghe nel medioevo: "Il nome iperico deriva del greco ipèr, sopra, e eicòn, immagine, dove la parola immagine vuol dire "spettro, fantasma, demone e ogni altra creatura incorporea. Lo stare al di sopra dell'immagine, quindi, indica la facoltà di dominare tutte le creature incorporee e di allontanarle dagli umani. Così, già nel nome, l'iperico è consacrato a erba cacciadiavoli, capace di respingere soprattutto gli spiriti infernali e tutte quelle creature diaboliche, comprese le streghe, che nella notte di San Giovanni invadevano le strade per recarsi al convegno annuale" (Rossella Omicciolo Valentini, Le erbe delle streghe nel medioevo, Edizioni Penne e Papiri, pp. 107-108). E, similmente, Giuseppe Chia ne L'iperico: "Etimologicamente il nome Hypericum deriva da hyper (sotto) e eikon (immagine). Linneo lo spiega con l'immagine che appare sui petali. Per altri autori il nome deriva dal verbo upereidofal (vedo oltre, mostro me stesso) come riferimento ai puntini trasparenti sulle foglie. Secondo altri autori, il nome deriva da hypo (sotto) e erikin o ereikn (erica), indicando una pianta che cresce sotto l'erica. Infine, secondo altri botanici, l'origine viene da hyper (sopra) e eikon (immagine, spettr) e significa magico, quasi al di soptra degli spettri, perché la gente credeva nelle sue misteriose proprietà erboristiche, oppure perché mette radici su vecchi monumenti" (Giuseppe Chia, L'iperico, Macro Edizioni, p. 32).

E' interessante notare come tutte le etimologie, benché contrastanti e contraddittorie, vedano però l'iperico come una pianta mediatrice tra il mondo inferiore e il mondo superiore, una sorta di portale botanico in grado di connettere l'uomo con il mondo invisibile e il significato spirituale dei raggi solari.

Come accennato in precedenza, fiorendo in concomitanza con il giorno dedicato al santo Giovanni Battista, tutt'altro che morto durante il Medioevo l'interessa per questa pianta miracolosa, essa cambiò nome e venne soprannominata Erba di San Giovanni. Sempre citando Rossella Valentini: "L'iperico è l'erba per eccellenza dedicata a San Giovanni Battista, il martire cristiano messo a baluardo delle streghe e dei demoni che affollano i cieli nella notte solstiziale. In molti paesi, danzando attorno ai falò di San Giovanni, si portavano sul capo corone di iperico, che poi o venivano gettate tra le fiamme per propiziare i raccolti e la salute del bestiame, oppure, spenti i fuochi, si lanciavano sui tetti per proteggere le case da fulmini, incendi e fatture stregonesche" (Rossella Omicciolo Valentini, Le erbe delle streghe nel medioevo, Edizioni Penne e Papiri, pp. 107-108). Immagini, quelle delle danze, dei fuochi e dei riti propiziatori che continueranno a rimanere vivi anche sotto il cristianesimo, benché non sia difficile scorgere al di sotto del velo la loro radice pagana. Non a caso, come scrive anche Giuseppe Chia, lo stesso Giovanni Battista "può essere ritenuto il più pagano dei santi e il santo più legato alla natura selvaggia" (Giuseppe Chia, L'iperico, Macro Edizioni, p. 18). Basti pensare, ad esempio, che viene rappresentato indossando pelli di cammello, stretta soltanto da una cintura di pelle, appoggiato a un bastone rudimentale, e che nei Vangeli viene descritto nutrirsi di insetti e miele selvatico, unico ristoro nella sua vita eremitica, nel deserto, al margine della società - tutte caratteristiche che lo legano all'Homo Selvaticus. Inoltre, venendo egli prima di Cristo rappresenta ancora il mondo pre-cristiano e il suo battesimo di Cristo sembra assumere, dal punto di vista simbolico, una sorta di "passaggio di consegne" tra la vecchia e la nuova religione, la quale, tuttavia, non potrà mai far meno delle sue radici.

Ma non è solo il giorno di fioritura a donarle le virtù che, nei secoli, hanno reso l'iperico l'erba solare per eccellenza. Una miriade di segnature simboliche la legano al Dio Helios.

Il fiore dell'iperico, come il Sole, si erge nel cielo grazie all'altezza del suo stelo; il suo giallo intenso ricorda la luce dell'astro così come i suoi petali, che irrompono dal centro, sembrano un riflesso cosmico dei raggi che si irradiano nel cosmo e, come vedremo a breve, le sue stesse proprietà metaforiche, simboliche ma anche fisiche sono strettamente legate a virtù solari. 

Non a caso, come scrive Giuseppe Chia ne L'iperico (Macro Edizioni), la pianta è sempre stata considerata una sorta di "magazzino di energia solare", ad esempio come da autori e medici come Galeno e Paracelso. "Il fatto che l'inizio della sua fioritura coincida con l'inizio dell'estate" scrive lo studioso "ha creato nelle tradizioni di molti popoli un'associazione tra il mistico e il religioso fra le feste di inizio estate e l'iperico" (Giuseppe Chia, L'iperico, Macro Edizioni, p. 18).

Questo intrico di connessioni botaniche, religiose, simboliche è descritto, con una certa poeticità, da Wilhelm Pelikan, medico, erborista e antroposofo, nella sua immensa opera scientifico-simbolica Le piante medicinali: "E' certo che questa nobile pianta appartiene proprio al lato luminoso della vita terrestre. Le sementi germinano soltanto alla luminosità; nei luoghi oscuri, nell'umidità, possono soggiornare per anni senza produrre nulla. L'iperico o Erba di San Giovanni predilige i luoghi secchi e magri; cresce spontaneo nei campi abbandonati, lungo i bordi delle strade e dei boschi, fra i cespugli chiari, i tagli rasi, sopra i mucchi di sassi ricoperti di muschio. La sua radice è vivace e vigorosa; in primavera il suo germoglio sale verticalmente, si allarga verso l'alto a parasole, simula un po' una piramide posata sulla sua punta. Si corona di un ricco mazzo di fiori gialli, ordinati in falsa ombrella. Le foglie, piccole e serrate contro gli steli, hanno una forma ellittica-aguzza. [...] In questa pianta tutto tende verso l'alto, verso la luce. Il fiore annuncia il solstizio d'estate, il tempo di San Giovanni, e la forza totale del sole vi si incarna [...]. L'iperico, consacrato senza freni ai processi luminosi del solstizio, li ha fissati, ha depositato le loro eccedenze nel colorante rosso che secernono le sue piccole ghiande, in apparenza nerastre" (Wilhelm Pelikan, Le piante medicinali, Natura e cultura, pp. 39-41).

Conosciuta anche come erba scaccia diavoli, l'iperico veniva reputato in grado di scacciare le creature che popolavano le tenebre e gli incubi notturni, come demoni, streghe e stregoni ed è interessante notare come, anche in epoca moderna, sia utilizzata per scacciare un altro tipo di demone interiore: la depressione. Come si legge nel trattato di farmacognosia di Francesco Capasso: "All'iperico sono state attribuite proprietà ipotensive e diuretiche, ma studi più recenti concordano nel ritenere l'iperico un antidepressivo al punto da considerarlo un prozac naturale. L'azione antidepressiva è la conseguenza di una inibizione delle MAO (enzimi che catalizzano la conversione dei neurotrasmettitori in cataboliti inattivi) ed un blocco della ricaptazione di neurotrasmettitori. Questo comporta un amento dei livelli di neurotrasmettitori nello spazio sinaptico con conseguente adattamento neuronale [...]. L'efficacia dell'iperico negli stati depressivi lievi e moderati è stata riportata in diversi studi clinici. In alcuni di questi l'iperico si è mostrato efficace quanto gli antidepressivi convenzionali o addirittura superiore. L'iperico risulta invece del tutto inefficace nei casi di depressione grave" (Capasso Francesco, Farmacognosia. Botanica, chimica e farmacologia delle piante medicinali, Springer, p. 205). Una connessione, quella tra demoni e depressione, forse non del tutto casuale, giacché da secoli il demone rappresenta la zona d'ombra, l'inquietudine interiore, la personificazione di paure e malattie e, non per nulla, Aleister Crowley sostiene, sia nella sua prefazione al Lemegeton sia ne Il Testamento di Magdalen Blair, che i demoni non siano altro che porzioni del cervello umano o entità simboliche evocate dai tormenti delle malattie interiori.

Ma questo non è l'unico utilizzo dell'iperico a legarlo simbolicamente al Sole. Fin dall'antichità l'iperico veniva utilizzato come olio o unguento sulla pelle per curare le scottature causate dai raggi solari - ma, allo stesso tempo, un sovradosaggio dell'iperico può causare una ipersensibilità ai raggi solari. E' interessante notare, dunque, come anche questa controindicazione sia strettamente legata alla connessione con il Sole che, negli animali da pascolo con il mantello o il pelo chiaro, può addirittura causare gravi danni cutanei o addirittura la morte nel caso di intossicazione - causando, quest'ultima, una eccessiva fotosensibilità che, a sua volta, provoca nell'animale fenomeno dell'ipericismo con la comparsa, sulla pelle, di bolle, piaghe e ustioni.

Rispetto ad altre "erbe magiche" utilizzate nell'antichità, come, ad esempio, la mandragora, l'iperico è piuttosto comune e semplice da trovare; esso popola i prati soleggiati, i ruderi, i bordi delle strade. Da qui l'ampia diffusione che ebbe sia in medicina sia nel folklore popolare - anche se, paradossalmente, a fronte della sua funzione "scaccia diavoli" e "scaccia streghe", molte donne furono viste con sospetto tra il 1500 e il 1600 per essersi recate nei campi a raccogliere tale erbe nel giorno di San Giovanni e non è raro imbattersi in processi inquisitoriali in cui, tra i capi di accusa, vi era proprio l'essersi recati nei campi, nel Giorno di San Giovanni, a raccogliere erbe utilizzate per "stregherie". Questa contraddittorietà potrebbe lasciare interdetti ma si ricordi che il mito, come il sacro, è sempre duplice e, benché l'Erba di San Giovanni fosse ritenuta in grado di cacciare le streghe, la stessa leggenda delle tregende e dei sabba nelle notte di San Giovanni nacque, paradossalmente, dalla grande quantità di uomini e donne dediti a raccogliere fiori di iperico, nel bosco e nei campi, per gli scopi più disparati. 


Daniele Palmieri

giovedì 17 giugno 2021

Almanacco dell'orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano


Esiste, ed è sempre esistita, un’Italia al di là della Storia. Un’Italia popolata da divinità pagane, entità elementali, spiriti inquieti, streghe, stregoni, vampiri, licantropi, mostri ma anche eremiti, demoni e santi. Un’Italia di luoghi nascosti, in cui santità e blasfemia si fondono a formare il Sacro nel vero senso della parola: la sensazione che esista una dimensione-altra in cui ciò che vi è di più santo si fonde con ciò che vi è di più profano, dando vita a una realtà divina che, in quanto tale, si trova al di là del bene e del male. L’uomo che ha la fortuna, o la sfortuna, di entrare in contatto con questa realtà, può vivere la più profonda ma allo stesso tempo la più spaventosa esperienza spirituale. E, in Italia, abbondano le testimonianze, antiche e moderne, di luoghi ed esperienze simili. Per incapparvi basta solo avere gli occhi e l’attenzione per cercarle, anche – o meglio, soprattutto – nel più sperduto paese rurale, sia esso di mare, collina o montagna.

Ciò che più si avvicina alla scienza di questo mondo intangibile è il folklore popolare: l’insieme di fiabe, miti, leggende, credenze ma anche esperienze personali, spesso tramandate oralmente, che testimoniano un continuo rapporto tra il mondo quotidiano e il mondo invisibile, tanto più reale quanto più ci si allontana dalla realtà antropica e civilizzata.

L’Italia possiede un immenso patrimonio folklorico, soprattutto grazie alla molteplicità di culture regionali. Ed è proprio a questo immenso patrimonio che attinge Almanacco dell’orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano, edito da Odoya Edizioni a cura di Fabio Camilletti e e Fabrizio Foni.

Almanacco dell’orrore popolare è stata una delle letture più proficue degli ultimi mesi. Attraverso diversi articoli, il libro tocca i principali aspetti della cultura folklorica italiana, riuscendo nel difficile compito di mostrare come le leggende e le usanze popolari non siano l’inutile vestigia di un mondo irrazionale e superstizioso ma, al contrario, una forza immaginativa in grado di dar vita al genio tutelare del luogo; un tentativo, da parte dell’essere umano, di cogliere nella realtà locale un frammento dell’essenza metafisica che si cela dietro la realtà ordinaria. Spesso questa realtà metafisica viene colta nella sua essenza conturbante. Difatti, mentre la visione di Dio acceca, la visione dei “piani più bassi” della realtà invisibile, popolata da disparate entità, pur non sacrificando la vista induce però nell’uomo una sensazione di timor panico, dettata dalla consapevolezza di trovarsi di fronte a forze ataviche, sconosciute, presenti sulla terra prima ancora della sua misera comparsa. E mentre Dio è troppo lontano per essere colto nella sua totalità, il mondo invisibile del folklore è allo stesso tempo abbastanza vicino da essere percepito ma troppo bizzarro per essere compreso e ciò non può che straniare, disorientare, inquietare.

Perciò, spesso, anche nei racconti dei santi e delle esperienze religiose, il folklore popolare possiede un carattere orrorifico, laddove nell’antichità l’orrore, come il mostruoso, era tutto ciò che suscitava un sentimento ibrido di ammirazione e spavento, in altri termini di meraviglia. Da ciò la scelta di toccare questi argomenti folklorici alla luce del cosiddetto “orrore popolare”. Come sottolinea Fabio Camilletti nella sua introduzione, mentre il concetto di folk-horror, manifestazione artistica letteraria e cinematografica moderna di stampo anglosassone legata al recupero degli antichi culti rurali e delle inquietudini popolari, è alquanto recente, l’Italia si è sempre mostrata anticipatrice dei tempi mettendo in scena sul suo territorio una lunga serie di incontri, racconti, leggende, miti ma anche riti religiosi che nel loro fulcro, anche sotto il cattolicesimo, non hanno mai cessato di essere pagani e di volgersi a quel tipo di sentimento religioso tutt’altro che edificante, ma spesso in stretto contatto con questa sensazione di cupa meraviglia propria del folk-horror.

La stessa parola “Almanacco” nel titolo rimanda subito la mente agli antichi almanacchi popolari e al loro universo meraviglioso e mostruoso di simboli, previsioni, profezie, giorni fasti e nefasti, festività religiose, fasi lunari, lavori agricoli, ricette, proverbi, storie di diavoli e santi. Il Krampus in copertina é alquanto eloquente a tal riguardo.

Come gli antichi almanacchi, Almanacco dell’orrore popolare è un’orchestra di voci. 20 studiose e studiosi che attraverso brevi saggi dedicati ai molteplici aspetti del folklore orrorifico popolare riportano in vita storie antiche e moderne di diavoli, santi, fantasmi, redivivi, vampiri, mostri, licantropi, folletti, sabba e balli notturni, antichi culti pagani, santeria italiana, leggende rurali.

La bellezza del testo risiede proprio in questa polifonia di voci che, tuttavia, come in un coro, dà vita a una sinfonia unitaria, grazie alla capacità di ciascun autore e ciascuna autrice di fondere la ricerca storica e folklorica basata su un preciso lavoro sulle fonti al racconto di ricordi ed esperienze personali. Il tutto crea un effetto narrativo estremamente riuscito: la razionalità dell’erudizione si anima dell’emotività del ricordo, rendendo reale e tangibile anche la fantasia. Così, ogni articolo è un viaggio tanto nelle molteplici regioni d’Italia – si passa dal Piemonte fino ad arrivare alla Sicilia, attraversando quasi tutto lo Stivale – ma anche nelle diverse manifestazioni della cultura in tutte le sue forme: dai racconti di Lovecraft alle fiabe di Emma Perodi, dagli orrori antiquari di Richard Payne Knight all’etruscologia Metapsichica di Mario Signorelli, dal folklore rurale di Leland ai film di Pupi Avanti, dalle atmosfere cupe e grottesche di Dylan Dog a ai mondi onirici di Machen, dalla Torino magica e misteriosa di Giuditta Dembech ai circoli spiritici organizzati da Lombroso, dai sabba e le tregende nei boschi ai riti massonici – e tutto questo non è che il minimo assaggio di un viaggio estremamente profondo e dettagliato che sembra immergere il lettore in ricordi di tempi mai vissuti.

Parlando di ricordi, Almanacco dell’orrore popolare mi ha riportato indietro nel tempo, ai primi incontri con il mondo del gotico e dell’horror avvenuto con Dylan Dog, le vecchie edizioni di Lovecraft e Poe, i B-Movie, i pomeriggi all’insegna dei film splatter e della pellicola che provocasse la paura sempre più grande e mi ha permesso di comprendere che nella precoce volontà di sperimentare la paura, tipica di molti adolescenti, si nasconde un desiderio sacro di investigare l’ignoto resistendo a quell’impulso che, istintivamente, ti porterebbe a scappare. E mi ha permesso anche di rivestire di un nuovo fascino quei libri che maneggio quotidianamente al lavoro: i vecchi Armenia e MEB dedicati alla ricerca spiritica e parapsicologica, spesso citati nel testo, molti dei quali ormai fuori catalogo che tuttavia, come spettri, vampiri e redivivi, ancora si aggirano per gli scaffali di alcune librerie o appaiono all’improvviso su polverose bancarelle per richiamare l’uomo verso l’ignoto.

In definitiva, Almanacco dell’orrore popolare è un’analisi puntuale del folklore tipicamente italiano legato a streghe, folletti, diavoli, masche, antiche divinità pagane, spesso ispiratore di poesia, arte e letteratura anche in autori esteri e perfino dei movimenti spirituali come la Wicca, che molto deve alla riscoperta da parte di Leland delle streghe e delle pratiche magiche nostrane. Questo folklore non è soltanto un patrimonio culturale di inestimabile valore, ma una dimensione invisibile alla quale è possibile accedere lasciandosi trasportare dai racconti popolari e soprattutto esplorando i luoghi come boschi, grotte, rovine, sotterranei, chiese, santuari, cimiteri, ossari, città ed edifici abbandonati, cascate e sorgenti intrinsecamente legati a questo lato nascosto delle cose, spinti dall’antica meraviglia - un misto di stupore e paura. Esplorazioni che spesso faccio nei miei giorni liberi e a cui Almanacco dell’orrore popolare non ha fatto altro che dare una ulteriore spinta, perché nell’epoca moderna credere in questo mondo invisibile è ormai diventato un atto di ribellione contro una società che ci vuole invischiati, impantanati e incatenati alla materia.




Almanacco dell’orrore popolare. Folk horror e immaginario italiano, Odoya Edizioni, a cura di Fabio Camilletti e Fabrizio Foni, con i contributi di: Danilo Arona, Rosario Battiato, Gianmaria Contro, Mariano d’Anza, Lisa Deiuri, Alessandra Diazzi, Lorenzo Fabris, Adolfo Fattori, Orazio Labbate, Alessandra Macchia, Marco Malvestio, Luigi Musolino, Franco Pezzini, Martina Piperno, Claudia Salvatori, Gabriele Scarlessa, Stefano Zammit




Daniele Palmieri

domenica 16 maggio 2021

Damien Echols: Alta Magick. Pratiche magiche di salvezza nel braccio della morte


Un crimine efferato - l'omicidio di tre bambini - il tabù più grande e l'atto sacrilego orrendo che si trova nelle fiabe e nel folklore più grotteschi, che scuote l'ordinarietà di un piccolo paese circondato dai campi. La cattura di tre presunti colpevoli, sospettati per i loro interessi "eretici", nei confronti del paganesimo e della magia cerimoniale. Un lungo e vessatorio processo che porta prima all'incarcerazione e poi, dopo anni di soprusi, alla confessione del crimine e all'ammissione della colpa, per poter ottenere la libertà.

La storia, raccontata in questi termini, ricalca in maniera sorprendente il racconto di centinaia di casi di processi inquisitoriali, dal 1400 all'inizio del 1700. Eppure, quasi la Storia umana fosse la perpetua riproposizione di eventi già accaduti e già narrati, questi fatti non appartengono agli atti giuridici polverosi di qualche archivio bibliotecario, ma fanno parte dell'epoca presente. In particolare, risalgono al 1994 e videro la loro conclusione, dopo circa 18 anni, nel 2011 e gli imputati divennero noti con il nome di I Tre di West-Memphis. I loro nomi sono Daniel Echols, Jason Baldwin e Jessie Miskelley, tre ragazzi "problematici" figli di famiglie povere. La vicenda è lunga e intricata e, in questa sede, riassumerò brevemente i dettagli principali, per poi passare al protagonista del presente articolo, ossia il primo personaggio citato: Damien Echols. Tutto ebbe inizio con la denuncia della scomparsa di tre bambini nella città di West-Memphis e la scoperta di tre cadaveri, uno dei quali evirato. In un'America tormentata dall'incubo e dalla paura, spesso irrazionale, del Satanismo, l'omicidio venne ricondotto a un rituale satanico e i sospetti caddero subito sullo stesso Echols, noto in paese per i suoi interessi che, ad oggi, riterremmo normali - metal, esoterismo, neopaganesimo, romanzi horror - ma che in un paesino conservatore degli anni '90 erano già indizi di colpevolezza. Dal primo interrogatorio nei suoi confronti, la situazione cominciò presto a precipitare, assumendo tutti gli aspetti dell'archetipo dell'interrogatorio inquisitoriale, volto a estorcere la confessione. Come scrive lo stesso Echols: "Non è stata una sorpresa quando i poliziotti si sono presentati alla roulotte dove vivevo, hanno ammanettato me e Jason e ci hanno portati alla stazione di polizia per essere interrogati. Mi hanno sbattuto in una cella grande come una cabina telefonica. Non potevo né sedermi né sdraiarmi; dovetti stare in piedi tutta la notti. Ogni tanto un poliziotto veniva a chiedermi se ero pronto a confessare. Non avevo neanche l'idea di cosa stesse parlando. Ma l'ho saputo presto. Al mattino, un giudice mi ha accusato di aver ucciso tre bambini di otto anni nell'ambito di un sacrificio satanico. Qualcun altro - non Jason - aveva ammesso di aver preso parte alla cerimonia e sosteneva che ero io il capobanda. Ho letto la trascrizione della cosiddetta confessione. Era una bizzarra storia da film dell'orrore, un guazzabuglio che non aveva alcun senso, e non lo aveva perché la polizia l'aveva estorta con la forza e la tortura a un ragazzino con un ritardo mentale del mio quartiere, di nome Jessie. Lo avevano torturato psicologicamente, privato di cibo, acqua o sonno per ore e ore, e lo avevano incoraggiato a coinvolgere Jason e me. Il che era tutto ciò di cui avevano bisogno. Non importava il fatto che la descrizione della scena del crimine di Jessie fosse totalmente sbagliata" (Damien Echols, Alta Magick, Venexia, pp. 18-19).

Già da una prima analisi, è possibile constatare come siano presenti tutti gli elementi tipici del meccanismo del capro espiatorio così come evidenziati da René Girard: un crimine indicibile che scuote una condizione condizione ordinaria, la ricerca ossessiva del colpevole per poter riportare l'ordine, l'individuazione di una vittima ai margini della società che, per le sue caratteristiche, si distanzia dalla normalità della comunità incarnando su di sé tutte le caratteristiche negative che devono essere estirpate per riportare l'ordine e, infine, il processo sommario e la condanna che sazia le pulsioni di vendetta scatenate. 

A partire da queste prove circostanziali e in mancanza di qualsiasi altra prova scientifica che ne dimostrasse la colpevolezza, come ad esempio la prova del DNA, i tre adolescenti vennero condannati dopo un processo sommario, basato su testimonianze poco attendibili e spesso ritrattate dagli stessi accusatori. In particolare, Jessie e Jason furono condannati all'ergastolo e Damien Echols, ritenuto la "testa" della banda, a fronte anche del suo quoziente intellettivo superiore, fu condannato alla pena capitale e rinchiuso nel braccio della morte, dove rimarrà per oltre diciotto anni quando il suo avvocato, grazie a un cavillo legale, riuscirà a farlo scagionare. Dal '94 in avanti, infatti, nonostante la condanna sommaria, il caso continuò a rimanere aperto grazie alla grande attenzione mediatica che aveva ricevuto e a una serie di film e documentari volti a dimostrare l'innocenza degli imputati. Soltanto nel 2011 fu fatta parziale giustizia, grazie all'avvocato Stephen Braga che patteggerà una sorta di armistizio: la trasformazione dell'ergastolo e della condanna a morte in 18 anni di reclusione, a patto che gli imputati confessassero la loro colpevolezza. Diciotto anni che già erano trascorsi - si trattava dunque di ammettere un crimine mai commesso per poter riottenere la libertà, senza pretendere alcun risarcimento dallo Stato che aveva condannato le tre vittime a questo calvario. Accordo che fu accettato, riecheggiando ancora una volta la storia archetipica della strega o dello stregone che, dopo anni di soprusi e sevizie, giunge ad ammettere la propria colpevolezza assumendo su di sé la narrazione degli inquisitori, pur di mettere la parola "fine" al processo.

Tuttavia, in questo caso vi è una seconda parte della storia "magica", che che comincia per Damien Echols proprio dietro le sbarre della prigione ed è legata alle pratiche magiche che gli hanno permesso di sopravvivere all'interno del braccio della morte. Pratiche che ha descritto e compendiato all'interno di un libro, da poco pubblicato dalle Edizioni Venexia: Alta Magick. Le pratiche spirituali che mi hanno salvato la vita nel braccio della morte. Anche questa seconda parte della storia sembra riecheggiare un grande tema archetipico: quella dell'uomo privato della libertà, come Epitteto o Francesco d'Assisi, che nella schiavitù e nella prigionia scopre una via di fuga spirituale che, attraverso la battaglia interiore, lo porta alla liberazione e all'illuminazione.

Nei lunghi anni di prigionia, Echols, privato della libertà esteriore, decise di non lasciarsi imbrigliare dai limiti del mondo materiale e, senza mettere da parte i suoi interessi nei confronti della magia cerimoniale, decise anzi di metterli a frutto, mettendosi in viaggio attraverso gli abissi della propria anima, alla ricerca di una libertà assoluta, profonda, svincolata da qualsiasi catena. Come racconta Eddie Vedder - che dal carcere divenne grande amico di Echols - ogni volta che si sentivano a telefono - una delle poche relazioni sociale a lui concesse - Echols gli raccontava le nuove letture intraprese e i nuovi progressi interiori raggiunti, che spaziavano tra le opere magiche della Golden Dawn, di Dion Fortune, Aleister Crowley e di tutta quella parte della magia di area anglofona che, dal '900 in avanti, aveva compiuto un grande sincretismo tra la magia cerimoniale occidentale, la magia cabalistica, le pratiche yoga e le tecniche di meditazione, contemplazione e visualizzazione delle tradizioni tanto orientali quanto occidentali.

Grazie a questi studi pratici, nel libro Echols racconta l'ascesa della sua anima attraverso l'Albero Cabalistico, una vera e propria Scala di Giacobbe che gli ha permesso di evadere dalle fredda mura della prigione per arrivare alle regioni più elevate della divinità. "La Magia mi ha salvato la vita" scrive Echols nel capitolo preliminare del testo "la Magia è stata l'unica cosa in prigione che ha dato uno scopo alla mia esistenza e mi ha mantenuto sano di mente. La Magia era la sola cosa che avevo per proteggermi. Ed è di questo che parla il libro, delle pratiche che mi hanno tenuto in vita per quasi due decenni nel braccio della morte" (Damien Echols, Alta Magick, Venexia, pp. 19).

La Magia diviene per Echols una forma di evasione; ma non quella evasione che aliena ed estrania dalla realtà, bensì quell'evasione che permette all'anima di scoprire una realtà più profonda e di fuggire dalla trappola del mondo illusorio, quello che per gli Gnostici non è altro che la prigione del funesto Demiurgo. Reggendo il libro di Echols, sembra proprio di trovarsi di fronte alla battaglia del mistico Gnostico contro gli Arconti che hanno imprigionato la sua anima dietro le sbarre della materia; assistiamo alla sua perpetua psicomachia (lotta interiore dell'anima) per riuscire a sconfiggere i guardiani della soglia, sovrani di ciascun cielo, fino ad ascendere all'ultimo limite del cosmo, vegliato dal temibile Abraxas, per potersi liberare e accedere alla mistica realtà del Pleroma.

Gli esercizi descritti da Echols per compiere tale liberazione, scalando l'Albero della Vita cabalistico, attingono a piene mani dalla tradizione citata poc'anzi, quella della Golden Dawn, di Dion Fortune e del pensiero Crowleyano; da questo punto di vista, pur non proponendo nulla di particolarmente nuovo e innovativo, ne sono tuttavia un ottimo compendio ma, la cosa più importante, è che ne sono un compendio vissuto, e non una semplice compilazione manualistica. Si percepisce, ad ogni pagina e a ogni riga, l'anelito alla libertà che ha spinto Echols a mettere in pratica i lunghi esercizi spirituali descritti nel libro e traspare che ogni pratica narrata è stata da lui provata, sperimentata, applicata, raffinata e portata a buon fine. 

L'aspetto più interessante del libro, oltre alla storia archetipica che si nasconde dietro le sue pagine, è come esso sia in grado di svincolare la Magia dai suoi elementi "esteriori", come gli strumenti cerimoniali, che, seppur simbolicamente importanti, rappresentano sempre un medium atto a catalizzare poteri interiori. Data la sua condizione, Echols, chiaramente, non poteva utilizzare quell'insieme di strumenti ritualistici solitamente associati alla magia - incensi, erbe, profumi, cristalli, vesti, spada, legno, coppa, bastone e così via - ma doveva "ridurre" la pratica al suo nocciolo essenziale, quello interiore, armato soltanto dell'anima e del suo potere di visualizzazione, oltre che di carta, penna e inchiostro. Una condizione di "povertà" che, tuttavia, gli ha permesso di sviluppare al massimo i suoi poteri psichici e di sperimentare gli strati più sottili della realtà senza ulteriori strumenti. "Non fate l'errore di pensare di avere bisogno di un armamentario magico" scrive Echols "non è così. L'ho imparato nel braccio della morte, quando non mi era permesso di comprare online bacchette di frassino più fine, di andare al negozio New Age per l'incenso al sandalo o di installare una serie di cristalli per caricare la mia aurea. Alcuni dei rituali più importanti di tutta la mia vita sono stati eseguiti senza l'uso di un solo strumento perché non avevo altro che l'energia che potevo attingere dall'universo intorno a me. Gli strumenti magici possono benissimo aiutarvi ma non sono indispensabili per praticare la Magia, e io ne sono la prova vivente. Certi oggetti possono acquisire una carica specifica, ma la Magia non risiede in essi - vive in noi. E questo significa che nella vostra interiorità avete già tutto quello che vi serve" (Damien Echols, Alta Magick, Venexia, p. 178).

Perciò in tutti gli esercizi descritti vi è una forte componente legata alla visualizzazione, in grado, con la potenza del pensiero, di percepire l'energia sottile e creare interi mondi.

"Lo strumento più importante da usare per realizzare l'Alta Magia" scrive Echols "è la nostra immaginazione. Quando i maghi parlano di visualizzazione, essenzialmente è di questo che stanno parlando [...]. Ogni volta che richiamate un ricordo  [...] state visualizzando. E ogni volta che pensate a cosa farete in futuro [...] anche questo è visualizzare. Ogni volta che immaginate qualcosa che non sta accadendo in quel momento nella vostra piccola parte del mondo fisico, state visualizzando. Ed è questa la vera essenza della Magia. La visualizzazione non deve essere necessariamente visiva. [...] Se riuscite a ricordare l'aroma del profumo di vostra nonna o il modo in cui la sua casa odorava quando confezionava dei biscotti appena sfornati, state impegnando una forma di visualizzazione radicata nel profumo. E se potete ricordare la voce di vostro padre quando vi chiamava per nome, state visualizzando con il suono" (Damien Echols, Alta Magick, Venexia, pp. 51-52). La visualizzazione è il punto di contatto tra mondo materiale e mondo invisibile, un vero e proprio portale che ha permesso ad Echols di applicare le pratiche magiche senza altri medium al di fuori del potere della propria mente e che gli ha permesso di intraprendere il viaggio nei propri abissi interiori. 

Sempre citando le sue parole: "La Magia richiede responsabilità personale e autentico coinvolgimento lungo il cammino. La Magia è per le persone che non si accontentano di ciò che il mondo vende loro ogni giorno, o cerca di vendere. [...] La Magia non è una religione e i maghi non sono i seguaci di un culto, piuttosto sono artisti, scienziati ed esploratori della rete multidimensionale dell'energia divina. [...] In tutto il mondo i maghi di un tempo sapevano che i segreti dell'universo fuori di noi si trovano all'interno di noi stessi, che noi siamo un riflesso di quell'universo e, allo stesso tempo, abbiamo un ruolo co-creativo nel suo infinito divenire. Esplorando la cosiddetta interiorità, arriviamo a capire come funziona la cosiddetta esteriorità, e più comprendiamo il processo globale e interdipendente, più è facile plasmarlo e dirigerlo"(Damien Echols, Alta Magick, Venexia, p. 187).

In conclusione, le pagine di Echols trasudano di vita vissuta e sono una delle testimonianze magiche più autentiche e toccanti che mi è capitato di leggere. Alta Magick è la dimostrazione di come, anche nel XXI secolo, sia possibile volgersi a pratiche spesso bollate, superficialmente, come "irrazionali", per sopravvivere e trarre profitto anche in condizioni terribilmente avverse, come appunto la reclusione in un braccio della morte, convivendo con la consapevolezza di essere destinati all'esecuzione. Ma, senza necessariamente dover vivere eventi e anni così traumatici, dalle pagine di Alta Magick può trarre grandi insegnamenti anche l'uomo "comune". Esse dimostrano come la magia sia plastica, in grado di adattarsi allo spirito del tempo, del luogo, della condizione in cui il praticante si trova, ed è dunque possibile mettere a frutto tali pratiche per evadere dalla prigione della vita di tutti i giorni e cominciare a vivere in una dimensione-altra, una sorta di "sciamanesimo urbano", aperto alle energie primordiali dell'esistenza anche nella cappa soffocante dell'ambiente iper-civilizzato. Come scrive Echols: "Vivo a New York, in uno dei luoghi più popolati e trafficati del mondo. Per uno come me, cercare di evocare l'aiuto e la saggezza del coyote e dell'orso non funziona molto bene e tentare di applicare tecniche sciamaniche come questa ha poco effetto. Io vorrei che la mia Magia fosse soprattutto pratica, quindi le energie con cui lavoro devono avere una connessione e un impatto notevoli sulla mia vita quotidiana. Le intelligenze con cui comunico sono gli spiriti dei treni della metropolitana, gli angeli che presiedono alle varie strade e viali e la sensibilità generale associata alla città stessa. Le culture antiche di tutto il mondo credevano che certi spiriti, energie o divinità vegliassero su particolari città e anche sulle singole case. La gente faceva offerte a queste divinità e io ho adottato questa pratica nella mia vita a New York. Ho scoperto che oltre alla città nel suo insieme, i vari quartieri e le zone possiedono energie identificabili e particolari [...]. Quando mi rivolgo a un luogo particolare [attraverso pratiche magiche] e gli faccio sapere che lo considero altrettanto vivo, consapevole e intelligente di me, mi risponde in modo gentile. [...] Immaginate l'impatto sul mondo se più persone la pensassero così. Quando si arriva all'essenza, nessun posto è più o meno sacro di un altro" (Damien Echols, Alta Magick, Venexia, pp. 182-183).


Damien Echols, Alta Magick, Venexia

Daniele Palmieri

domenica 25 aprile 2021

Storia e pratica delle arti magiche


Fin dagli albori della coscienza, l'uomo ha sviluppato la consapevolezza di convivere con un mondo invisibile, che va al di là della grezza sensibilità immediata. Che si dia credito o meno a questa credenza, bisogna ammettere che, oggettivamente, vi è almeno un fatto degno di interesse, ossia che un essere vivente, immerso in un mondo ostile, impegnato in una perpetua lotta per la sopravvivenza, abbia cominciato non solo a credere, ma a basare le proprie azioni, sulla consapevolezza di un mondo-altro, un universo invisibile, un lato nascosto delle cose. Se questo mondo invisibile fosse stato del tutto irrilevante per la vita umana, dal punto di vista evoluzionistico non avrebbe avuto alcun senso il propagarsi di questa idea. Le persone alienate nel mondo nascosto sarebbero dovute soccombere per aver perso la dovuta attenzione nei confronti del mondo materiale. Eppure, così non è stato e, anzi, tutte le culture umane che si sono sviluppate nei millenni a venire hanno sempre sviluppato la consapevolezza - sciamanica, magica, filosofica o religiosa - di un mondo invisibile, degno di interesse tanto teorico quanto pratico.

E' a partire da questa idea che ho sviluppato Storia e pratica delle arti magiche, il mio ultimo saggio appena pubblicato con Libraio Editore, un testo in cui sono confluiti almeno cinque anni di studi, letture e approfondimenti sul tema. In particolare, l'idea motrice del testo è che, anche nello studio storico/antropologico del mondo invisibile, pur mantenendo un atteggiamento critico, non si debba dare per scontata la falsità del mondo invisibile e che per comprendere alcuni sistemi di pensiero ci si debba necessariamente "sporcare le mani", immergendosi in essi e assumendone la prospettiva. D'altronde, già Ernesto de Martino ne Il mondo magico scriveva: "Appena lo studioso si volge al mondo magico nell'intento di penetrarne il segreto, subito si imbatte in un problema pregiudiziale dal quale dipende in sostanza l'orientamento e il destino della ricerca: il problema dei poteri magici. Ordinariamente tale problema viene eluso con molta disinvoltura, in quanto si assume come ovvio presupposto che le pretese magiche siano tutte irreali e che le pratiche magiche siano tutte destinate all'insuccesso" (E. De Martino, Il Mondo Magico, Bollati Boringhieri, p. 9).

Perciò, quando si trattano certi temi, bisogna riuscire a compiere lo sforzo logico di mettere in dubbio "l'ovvio presupposto" della irrealtà del mondo invisibile. Il che non vuol dire nemmeno sposarne acriticamente la veridicità, ma analizzare le teorie e le pratiche che lo vedono coinvolto evitando lo sguardo di superiorità tipico della civiltà presente, che bolla tutto ciò che esula dal pensiero materialista come una superstizione superata.

Durante i lunghi anni di letture, ho constatato che questa spaccatura risulta essere ancor più marcata quando si tratta del pensiero magico. La letteratura sul tema abbonda e, anzi, è difficile diramarsi nella miriade di scritti sul tema. Eppure, almeno negli ultimi duecento anni, questo vasto corpus letterario si è come polarizzato in due parti: da un lato, testi storici, critici, antropologici e accademici estremamente dettagliati che, tuttavia, mantengono sempre la visione "esterna", senza entrare nel dettaglio della pratica magica per paura di mettere in discussione "l'ovvio presupposto" di cui parla De Martino; e, dall'altro, testi esclusivamente pratici, ora di alta ora di bassa magia, che si limitano a descrivere la pratica senza tuttavia la cognizione storico-critica tipica degli studi accademici che, lungi da essere un vezzo da studioso, risultano fondamentali per mantenere lontana la superstizione e tenere vivo lo spirito critico. 


Storia e pratica delle arti magiche nasce con l'intento di cercare di colmare questa spaccatura. Il libro non vuole essere né solo un trattato storico né solo un testo pratico, ma superando la dicotomia delle due polarità, ho cercato di descrivere l'evoluzione storica della magia con la consapevolezza che essa sia inseparabile dallo studio e dalla comprensione della pratica. Fin dalle sue prime apparizioni, infatti, la magia si contraddistingue da altre forme di "conoscenza dell'invisibile" per il suo essere una "scienza pratica dell'invisibile"  e comprenderne lo sviluppo storico significa, necessariamente, studiarne tanto la teoria quanto l'insieme di riti e pratiche che tramandate ed evolutesi dal mondo primitivo a oggi.

Nel testo, dunque, analizzo le principali "fasi" dello sviluppo della magia in occidente, rintracciando il filo rosso che lega lo sciamanesimo, la teurgia e la goezia greca e romana, la magia medievale e rinascimentale e lo sviluppo della Magia Salomonica, fino ad arrivare alle forme di magia moderna e contemporanea dei circoli massonico/iniziatici, di Mesmer, Levi, della Teosofia, della Golden Dawn, della Wicca e della Chaos Magick. In questa analisi, ho cercato di mostrare come la magia non sia stata un semplice "corpo estraneo" nello sviluppo del pensiero occidentale ma, anzi, uno dei motori che, in un costante rapporto dialettico con la religione, con la teologia e con la filosofia, ne ha contribuito allo sviluppo - tanto filosofico quanto artistico, culturale e perfino scientifico, spesso facendo da collante tra l'alta cultura colta e la bassa cultura popolare. E, soprattutto, ho cercato di illustrare come, a fronte di una molteplicità di percorsi, vi siano sempre stati dei punti fermi che hanno contribuito allo sviluppo del pensiero magico che, lungi dall'essere un pensiero grezzo, superstizioso e primitivo, si è manifestato come un sofisticato sistema culturale il cui fine era quello di "cartografare" il mondo invisibile per conoscerlo, comprenderne le forze e capire come influenzarle.


In particolare, a fronte delle molteplici prospettive, i punti cardine del pensiero magico, che ritornano in ogni secolo, sono:

1) L'idea dell'esistenza di un "lato nascosto delle cose"

2) L'idea che questo mondo invisibile si compenetri con la realtà visibile

3) L'idea che tale compenetrazione sia possibile poiché materia, tempo e spazio non sono forme immobili, ma fluide, affini alla natura spirituale del mondo invisibile e soltanto più "densi" di essa

5) L'idea che sia possibile sviluppare dei sensi sottili per vedere e conoscere la realtà sottile

5) L'idea che l'universo invisibile sia strutturato come una ragnatela, intrinsecamente connessa in ogni sua parte

6) L'idea che il lato nascosto delle cose, oltre a essere percorso da "forze intangibili", simili alle forze elementali della natura, sia popolato da altre forme di intelligenza

7) L'idea che la conoscenza di tale ragnatela di connessioni permetta al mago di influenzarne la vibrazione, agendo così "a distanza" su ogni parte di essa

8) L'idea che sia possibile entrare in contatto anche con le intelligenze, o entità, che popolano il mondo invisibile

9) L'idea che l'intero macrocosmo magico sia strutturato gerarchicamente e che tale gerarchia si manifesti attraverso i fili della ragnatela che collegano ogni parte

10) L'idea che l'uomo sia un "punto d'incontro", un crocicchio in cui si intersecano mondo invisibile e mondo visibile, e che nella sua anima siano nascosti poteri latenti che la conoscenza, il rito e la pratica magica possono portare alla luce per riconnetterlo al reame nascosto. 

In Storia e pratica delle arti magiche vado dunque ad analizzare come, nei diversi secoli, il pensiero magico abbia sviluppato questi principi e come, a partire da essi, abbia sviluppato concezioni estremamente sofisticate del tempo, dello spazio, della coscienza umana, del ruolo dell'uomo nell'universo, dell'esistenza di realtà parallele e di intelligenze ed entità cosmiche, portando il pensiero umano ai confini della conoscenza e costringendolo così a infrangere le barriere logiche e razionali che, spesso, lo ingabbiano nell'accettare la realtà così come gli si presenta, senza nemmeno sospettare che, citando Girolamo Cardano "la più grande parte di ciò che conosciamo corrisponde alla più piccola parte di ciò che ignoriamo" (Girolamo Cardano, Il Libro dei Segreti, Mimesis Edizioni).


Per chi volesse gettare un primo sguardo all'interno del testo allego, sotto, l'indice del libro:

Indice


Capitolo I
Per un nuovo mattino dei maghi

Capitolo II
Teoria e pratica della magia
L'essenza della magia
L'essenza del mago

Capitolo III
Oltre il velo della materia
Lo sciamanesimo: la via del sogno e dell'estasi

Capitolo IV
Spazio sacro e tempo sacro
La circoscrizione dello spazio sacro
Il fluire del tempo
Flusso delle stagioni, solstizi, equinozi
Le sfere celesti e lo zodiaco
Le ore e i giorni magici
Le energie planetarie

Capitolo V
Le entità del mondo invisibile
La catena occulta dell'essere
Anime dei morti
Spiriti di Natura
Angeli e Demoni
Il Dio/Uno
L'uomo: microcosmo e macrocosmo

Capitolo VI
L'esercizio dello magia: le pratiche di potere
L'evoluzione della pratica magica
Gli strumenti del mago
Ligature, incantesimi e linguaggio magico
Le pratiche di Goezia
Le defixiones
I simulacri di cera e argilla
Il Sabba
Le evocazioni demoniache
Le pratiche di Teurgia
Teurgia onirica
Dèi e Spiriti Planetari
Le invocazioni angeliche
I Talismani

Capitolo VII
La magia moderna e contemporanea
La magia e le nuove divinità planetarie
Il potere magico della Volontà e del Pensiero
Franz Anton Mesmer, Eliphas Levi e il potere della Volontà
Gli Eggregori o Forme Pensiero
Lo sviluppo dei poteri psichici: Charles Leadbeater e Franz Bardon
William Atkinson e le tecniche di autosuggestione
Il mondo magico della Golden Dawn
Il magico potere della letteratura
La resurrezione del Dio Pan
Il contatto con le entità cosmiche
Blackwood, Crowley, Dion Fortune e le tecniche di autodifesa magica
Prospettive contemporanee
La Wicca
La Chaos Magick
Epilogo: La scomparsa del mondo invisibile


Storia e pratica delle arti magiche, Daniele Palmieri, Libraio Editore


Daniele Palmieri

martedì 23 marzo 2021

Il fascino del libro proibito: grimori e testi magici nel XVI secolo


A circa un mese di distanza dalla pubblicazione dei primi due approfondimenti sulla realtà che si nasconde dietro la narrazione de Il gatto, il mago e l'inquisitore (mio ultimo romanzo uscito a Gennaio per Magazzini Salani), continuo ora la serie con un approfondimento su uno degli aspetti più importanti del romanzo: i libri di magia.

A più riprese, nel libro, Agrippa e Asmodeo si trovano a citare o a ricercare alcuni libri magici attribuiti a Salomone: La Chiave di Salomone, il Lemegeton, l'Ars Notoria, l'Ars Paulina, il Testamento di Salomone. Tutti i testi citati sono reali e figurano tra i libri di magia più diffusi e ricercati nel XVI secolo, da ogni fascia della società: studiosi, bibliofili, maghi, streghe, stregoni ma anche frati, preti, inquisitori e perfino mercanti, contadini, villici e analfabeti. Nessuno era immune dal "vizio" della magia e i cosiddetti libri proibiti esercitavano un fascino irresistibile, anche a fronte degli innumerevoli rischi che si correva nel possederli. Paradossalmente, è proprio il secolo dell'inasprirsi delle persecuzioni inquisitoriali a coincidere con la massima diffusione di questo tipo di testi. La cosa non deve sorprendere - l'inquisizione aveva creato un circolo vizioso per il quale un libro diveniva ancor più ricercato proprio poiché proibito. Come scrive Federico Barbierato nel saggio Nella stanza dei circoli, dedicato alla diffusione dei manoscritti magici nel mondo occidentale, l'edizione aggiornata dell'Indice dei Libri Proibiti era attesa non soltanto dagli inquisitori, ma soprattutto dai librai consapevoli che i nuovi testi messi all'indice sarebbero stati quelli più richiesti. 

D'altro canto, il XVI secolo è l'epoca in cui l'oggetto libro vive un momento di rinnovato splendore. E' in quest'epoca che iniziano a diffondersi le nuove tecnologie legate ai processi di stampa e, soprattutto, è in questo secolo che, grazie all'opera avveniristica di Aldo Manuzio, editore e stampatore veneziano, il libro assume la veste grafica e il formato con cui lo conosciamo oggi. E' infatti abbandonando i grandi manoscritti tipici della cultura medievale che Aldo Manuzio "inventa" il libro "portatile", antenato dei moderni tascabili, stimolando l'intera produzione europea a muoversi in questa direzione e rivoluzionando il desiderio di bibliofili, lettori e collezionisti, trasformando il libro in un vero e proprio oggetto di culto.

Il mercato dei libri magici non è immune a questo rinnovato interesse - benché esso, per una serie di proibizioni religiose e politiche, rimarrà per secoli relegato alla diffusione manoscritta. Non era vietato soltanto il possesso dei libri proibiti, ma anche la loro produzione a mezzo stampa - e gravi pene spettavano alle stamperie ree di aver prodotto libri proibiti. Tuttavia, questo divieto non fermerà la diffusione dei libri magici ma, anzi, stimolerà la fantasia e la creatività tanto dei librai quanto dei lettori, creando un vero e proprio mercato parallelo, ricco di espedienti geniali e creativi. Come racconta Federico Barbierato, spesso i libri proibiti venivano nascosti all'interno di altri testi, cambiando copertina, frontespizio e le prime e ultime pagine del testo (quelle più controllate da inquisitori e doganieri). Alcune librerie mettevano a disposizione a pochi, fedeli, lettori, la possibilità di ricopiare - previo pagamento - i manoscritti magici in loro possesso. I lettori potevano anche scegliere di ricopiare esclusivamente le parti a cui erano interessati, per ridurre le spese, e proprio questa forma di diffusione manoscritta diede vita a una molteplicità di testi magici che circolavano su tutto il territorio europeo, spesso anche all'interno di Monasteri, Chiese, Chiostri e Università. 

Ogni manoscritto era come un seme, che cresceva creando un reticolo di tronchi, radici e rami ad ogni nuova ricopiatura. Nuovi libri nascevano anche dalla fusione di differenti manoscritti. La possibilità di poter ricopiare soltanto una parte del testo dipendeva dal carattere stesso dei manoscritti magici e del loro contenuto di formule, riti, scongiuri, evocazioni, invocazioni volte alle più disparate finalità. Ciascun lettore si trovava a ricopiare, da più testi differenti, soltanto le parti a lui più funzionali. Nacquero così i cosiddetti "grimori", manoscritti magici, redatti dagli stessi studiosi di arti magiche, contenenti le formule e i riti scelti, scoperti e sperimentati dal mago. In questi scritti convivono due esigenze fondamentali: l'esigenza di descrivere, nel minimo dettaglio, ogni fase, elemento e componente del rituale, e la necessità di essere sintetici sia per moderare i costi, sia perché il grimorio doveva essere piccolo, portatile, tascabile, facilmente nascondibile. Spesso il grimorio stesso diventava un oggetto magico, come testimoniano numerosi processi inquisitoriali (si veda ad esempio il libro Streghe, maghi e sortileghi in terra d'Abruzzo, di Romano Canosa e Isabella Colonnello) in cui gli inquisiti erano stati trovati in possesso di piccoli libri o pergamene, contenenti orazioni, preghiere e scongiuri, portati addosso (al collo o in tasca) come veri e propri talismani. 

D'altronde, ne La Chiave di Salomone il grimorio viene descritto come uno degli strumenti più potenti del mago e la sua stessa produzione diviene un vero e proprio rituale magico. "Fai un piccolo Libro" si legge nel testo "che contenga le Orazioni e le Preghiere per tutte le Esperienze, i Nomi degli Angeli in forma di Litanie e i loro Sigilli e Caratteri. Fattolo, consacralo a Dio e agli Spiriti puri nel modo seguente. In luogo acconcio, disporrai un tavolo coperto d'un drappo di seta fine, sul quale disporrai il Libro aperto alla prima pagina, su cui avrai tracciato il Grande Pentacolo; e dopo aver accesa una lampada che sospenderai sul centro del tavolo anzidetto, circonderai il tavolo con una cortina bianca, come una tenda. Indosserai i sacri paramenti e, genuflesso, reciterai sul Libro, con grande umiltà, la seguente Orazione: ADONAI, ELOHIM, EL, EHEIEH ASHER EHEIEH, Principe dei Principi, Esistenza delle Esistenze, abbi pietà di me: volgi gli occhi al Tuo servo che Ti invoca devotissimamente e Ti supplica per il Tuo Santo e Tremendo Nome TETRAGRAMMATON perché Tu gli sia propizio e ordini ai Tuoi Angeli e Spiriti delle Stelle, o voi Angeli e Spiriti Elementali, o voi Spiriti presenti di fronte al Volto di Dio, io, Ministro e servo fedele dell'Altissimo vi invoco: che Dio stesso, Esistenza delle Esistenze, vi convochi in questo luogo a presenziare a questa operazione che io, con grande umiltà, ho intrapreso. Amen. Dopo di ciò, effonderai incenso dell'aroma appropriato al Giorno e all'ora del Pianeta. E richiuderai il Libro sul tavolo [...] badando che la lampada sia sempre accesa durante tutta l'operazione e chiuderai la cortina. Ripeterai il rito per sette giorni" (La Chiave di Salomone, a cura di Sebastiano Fusco, Venexia, pp. 217-218).


A fronte di questa consacrazione, il grimorio diviene per il mago un vero e proprio strumento teurgico e uno strumento cerimoniale di fondamentale importanza, alla stregua della spada, della bacchetta o del pugnale, che deve sempre accompagnare il praticante durante i suoi riti. Da ciò il fascino esercitato dai libri di magia che, presto, vengono ritenuti fonte di potere non solo per le informazioni in essi contenute, ma per le virtù magiche intrinseche all'oggetto in sé.

Come accennato in precedenza, questa "generazione spontanea" di manoscritti trascritti a partire da altri libri porterà a un corpus magico molto variegato, spesso contraddittorio, un vero e proprio incubo per i filologi ma allo stesso tempo un inno alla creatività umana. Tuttavia, alcuni testi erano ritenuti così importanti che, a fronte delle numerose variazioni, furono però tramandati e trascritti con una certa omogeneità. Da qui i testi magici più importanti della tradizione occidentale come La Chiave di Salomone, contenente la descrizione dell'armamentario del mago e dei riti per consacrarlo, nonché le immagini dei sigilli planetari; il Lemegeton, affascinante quanto tenebroso manoscritti magico contenente i nomi e i sigilli dei 72 demoni infernali; l'Ars Notoria, affine al Lemegeton, ma contenente anche i nomi e i sigilli degli Angeli; l'Ars Paulina e l'Artem Novem, i testi più ricercati dagli studenti, che contengono una serie di sigilli e orazioni per amplificare le proprie conoscenze di materie all'epoca universitarie come Matematica, Retorica, Geometria etc.; il Sesto e il Settimo libro di Mosé, trattato contenente i nomi e i sigilli degli Spiriti Elementali, nonché uno dei pochi manoscritti magici attribuiti a Mosé e non al più inflazionato Salomone; La magia sacra di Abramelin il Mago, testo di tradizione cabalistica; l'Arbatel, una delle più profonde testimonianze della magia cristiana, legato al potere dei Sette Spiriti Planetari.


Molti di questi testi passarono tra le mani dello stesso Agrippa e furono la fonte del suo De Occulta Philosophia, testo che potremmo in parte considerare come il grimorio personale di Agrippa ma che, a differenza di altri grimori, possiede anche un contenuto filosofico, teologico ed esoterico molto più profondo. Il De Occulta Philosophia fu un testo rivoluzionario nella vasta produzione letteraria di testi magici; Agrippa, infatti, non solo ebbe il coraggio di uscire dalla produzione manoscritta clandestina, dando il libro alle stampe anche a rischio di incorrere nell'ira dell'inquisizione (rischio poi concretizzato) ma, per la prima volta, compendiò le conoscenze magiche dall'antichità alla sua epoca in uno scritto unico e coerente, dando dignità filosofica alla produzione disomogenea di scritti magici. 

A differenza dei classici grimori, infatti, il De Occulta Philosophia possiede un impianto estremamente logico e filosofico. Non è una semplice miscellanea di conoscenze, ma un trattato che descrive un percorso iniziatico all'interno dell'arte magica che parte dalla magia naturale, legata agli elementi e al mondo terreno (primo libro), passa per la magia celeste, legata agli influssi astrologici dei pianeti e delle stelle fisse (secondo libro) e approda alla magia cerimoniale, legata alle entità mediane tra uomo e divino (terzo libro). Il tutto inserito in una cornice di pensiero che attinge alla filosofia neoplatonica, alla cabala, alla mistica cristiana ma anche al pensiero arabo/musulmano, a dimostrazione della vastità di conoscenze ma anche ampie vedute di pensiero di Agrippa.

Il grande impatto del testo all'interno del mondo magico è testimoniato dal fatto che, presto, il nome di Agrippa verrà legato, come quello di Salomone, a una serie di grimori apocrifi ispirati alla sua opera, già a pochi anni dalla sua scomparsa, nel 1535. E' già Wier, ad esempio, suo più grande e affezionato discepolo, a lamentarsi del fatto che i librai vendevano i tre libri della De Occulta Philosophia insieme a un presunto "quarto libro", attribuito ad Agrippa, ma in realtà redatto da qualche imitatore sull'onda del successo del mago tedesco.

A conclusione di questo lungo articolo, vorrei porre l'attenzione su un particolare spesso dimenticato della storia del libro. Spesso, quando si pensa ai libri proibiti e alla loro storia travagliata, vengono subito in mente i grandi roghi, i divieti, le proibizioni e le censure. Eppure, per una volta vorrei soffermarmi sul fatto che l'ampia varietà di libri proibiti giunti fino a noi dai secoli passati dimostra come le fiamme dell'inquisizioni e le forbici dei censori non furono mai in grado di fermare la curiosità del lettori e, a conti fatti, si sono dimostrate più numerose le persone volenterose di leggere e diffondere un libro, piuttosto che di bruciarlo.


Daniele Palmieri


Immagini: Libro di San Cipriano, Wikimedia Commons

De Occulta Philosophia, Internet Archive