domenica 11 settembre 2016

Focault e l'ermeneutica del sé

La tradizione filosofica occidentale ha sempre dato molta importanza al concetto di "cura di sé". A partire dall'antichità classica, passando per il medio evo fino ai giorni nostri, è ricorrente il tema della presa di coscienza del proprio io e del compito, da parte del filosofo, di perfezionarlo.
Tuttavia, nel corso dei secoli le tecniche di cura del sé hanno assunto forme differenti, sia con il variare del contesto sociale, sia con l'introduzione di nuove ideologie e con diverse concezioni di ciò che può chiamarsi "Io".
Nelle due conferenze raccolte in Sull'origine dell'ermeneutica del sé, edito dalla casa editrice Cronopio, Michel Focault tenta di ricostruire una breve genealogia di tali pratiche, per comprendere come siano nate, come e perché si siano evolute e quale sia la loro importanza per l'uomo contemporaneo.
Come ogni grande concetto filosofico, anche l'idea della cura di sé nasce nella Grecia Antica, in particolare con le pratiche introdotte dalle scuole di vita ellenistiche. Riprendendo la concezione della filosofia antica delineata da Hadot, anche Focault sostiene che per i pensatori antichi la filosofia era anzitutto una materia pratica, il cui compito era quello di consentire al filosofo di raggiungere la felicità, tramite il perfezionamento di sé. Questo perfezionamento poteva avvenire attraverso l'esercizio di determinate pratiche psico-fisiche, che ponevano al centro del lavoro l'io del filosofo, tra cui la pratica della confessione, il filo conduttore dell'analisi focaultiana.
Come sottolinea Focault, però, occorre fare molta attenzione e non confondere questo "io" con la concezione moderna che abbiamo del soggetto. L'io del filosofo non coincideva con la sua personalità né doveva essere sviluppato secondo caratteristiche "soggettive". Il vero "Io" veniva realizzato e perfezionato quando esso si avvicinava all'ideal-tipo filosofico proposto dalla scuola a cui l'aspirante sophos aveva deciso di aderire. Questo concetto è ben esplicitato in alcuni passaggi del De Ira di Seneca e nella pratica, da lui descritta, della confessione dei propri difetti che il filosofo compiva, a se stesso, ogni sera.
I vizi che il filosofo latino si attribuisce vengono delineati non come aspetti intrinsechi della sua personalità, bensì come malattie da estirpare per raggiungere l'ideale del saggio stoico. Per fare un esempio pratico, Seneca si definiva "goloso" o "pigro" non perché si considerava la golosità e la pigrizia tratti distintivi del suo carattere, bensì come se fosse affetto da vere e proprie malattie, le quali non fanno parte dell'io ma sono, piuttosto, dei corpi estranei.
"L'io" di cui parla Seneca è un "io" astratto, quasi impersonale, non certo l'io "individuo", giacché il concetto moderno di "individuo" era alieno alla mentalità greco-latina. Compito di questo Io è di acquisire determinate virtù ed estirpare i vizi, dove vizio e virtù, come già accennato, non sono aspetti intrinsechi del proprio carattere ma delle qualità impersonali che si possono acquisire mediante l'esercizio (nel caso delle virtù) o dai quali si può venire infettati (nel caso del vizio).
Proprio questa forma di confessione dei propri difetti verrà ripresa dal cristianesimo, che ne muterà però il significato sulla base della diversa concezione dell'io.
Con il cristianesimo, il vizio e il peccato diventano delle qualità intrinseche dell'anima umana, e non delle "semplici" infezioni che essa può contrarre. L'uomo è marcio dentro fin dal peccato originario e questa macchia nera è tramandata generazione dopo generazione. I sette vizi capitali diventano dei tratti distintivi del singolo carattere e comincia così a farsi strada una nuova concezione dell'individuo e dell'Io. L'Io non è più qualcosa di oggettivo e impersonale, bensì un "Io" individuale, con determinati tratti caratteriali, viziosi o virtuosi, che distinguono un uomo dall'altro e che non sono più espressione di qualità impersonali che il soggetto acquisisce.
La confessione, da questa prospettiva, non è più un colloquio che l'Io del soggetto intraprende con se stesso per capire come migliorarsi, ma diviene uno strumento di potere nel momento in cui essa diviene espressione di un senso di colpa che deve essere confessato necessariamente a un'autorità, in questo caso l'autorità religiosa. Senso di colpa che verrà sfruttato dalle cariche religiose  per ottenere il dominio delle anime e sottrargli la possibilità di migliorarsi e dominarsi da sole poiché, secondo la dottrina cattolica, vi è necessariamente bisogno di un intermediario per potersi lavare dai propri peccati ed è chiaro che, nel momento in cui la persona non può trarre da se stessa la forza per migliorarsi, perde gran parte della propria autonomia e, soprattutto, della propria libertà.
Vi è però un aspetto positivo nell'evoluzione della concezione dell'Io; difatti, è proprio la scoperta medievale di un'individualità concreta, che distingue un'anima dall'altra e gli conferisce una propria personalità, ad aprire la strada alla concezione più moderna di "individuo". Un passaggio necessario per arrivare all'ultima fase dell'evoluzione dell'ermeneutica del sé, quella della psicoanalisi novecentesca.
Lo psicologo prende il posto del confessore, ma la sua ermeneutica dell'anima dell'individuo non ha più il medesimo tono "inquisitorio"; il male da curare che colpisce la persona proviene ancora dall'interno della sua psiche, ma problemi psicologici come la nevrosi prendono il posto dei vizi e del peccato; la confessione si trasforma nella seduta psicologica, in cui non vi è l'ammissione di una colpa da purificare ma la descrizione del problema da risolvere.
Tuttavia, anche in questo caso il soggetto perde parte della propria libertà, poiché lo psicologo prende in carica il compito di curare il sé dell'individuo.
A questo punto, ciò che Focault propone è il recupero dello spirito della filosofia antica, per restituire all'individuo la possibilità di poter scoprire, scandagliare e curare il proprio "Io" senza bisogno di intermediari. Nel momento in cui affidiamo al prossimo tale compito, infatti, stiamo rinunciando a una parte fondamentale della nostra libertà.

Focault, Sull'origine dell'ermeneutica del sé, Cronopio edizioni

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Daniele Palmieri

giovedì 4 agosto 2016

Paolo Mantegazza e l'Arte di essere felici

Capita che, girando per Napoli, ti imbatti in un libricino, l'Arte di essere felici, di Paolo Mantegazza, filosofo, fisiologo e naturalista, uno dei primi divulgatori delle teorie darwiniste in Italia a cavallo tra fine ottocento e inizio novecento (insomma, un Alberto Angela ante litteram) e ovviamente non puoi lasciarlo lì dove lo hai visto.
Spesso decido se comprare un libro o meno in base all'incibit. L'Arte di essere felici si presenta subito in grande stile, con poche ma incisive parole che rendono alla perfezione lo stile sobrio, diretto ma allo stesso tempo profondo e meditato dell'opera del Mantegazza:

 
"Sei sano? Sì. Sei galantuomo? Sì. Hai il pane quotidiano? Sì. Sei felice? No. Ebbene, fatti curare e va' a scuola, perché tu sei malato e ignorante." (Paolo Mantegazza, L'arte di essere felici, Colonnese Editore, pp. 11)

Come suggerisce il titolo, per Mantegazza la felicità è un'arte e, in quanto tale, non può essere insegnata ma soltanto "vissuta". Scopo del breve pamphlet è proprio quello di mostrare come ognuno di noi possa vivere la felicità e di come essa sia a portata di mano. L'autore riesce in un compito per nulla semplice, quello di far assaporare la semplicità della felicità senza mai cadere nel retorico e nel banale.
L'Arte di essere felici ha un piacevole sapore epicureo. Per Mantegazza gli uomini alla ricerca del segreto della felicità compiono degli errori di fondo che gli impediscono di raggiungere il risultato sperato. E' importante, dunque, prendere consapevolezza di questi errori per non commetterli e aprirsi la strada per la felicità autentica.
Il primo errore è quello di ricercare uno stato di imperturbabilità dal dolore e dalla sofferenza, ossia una felicità perenne che ci mantenga costantemente nella medesima condizione. Tale ricerca non può che fallire. Non esiste un segreto in grado di assicurare la felicità perpetua, poiché la vita è in continuo mutamento.
Tuttavia, al contrario di altri autori, come Schopenhauer, che da un assunto simile traggono considerazioni pessimistiche circa la condizione dell'uomo, Mantegazza sviluppa una concezione del tutto positiva e ottimistica della vita umana.
Per essere felici basta davvero poco, come sottolineano le brevi battute citate in precedenza, e questo perché la felicità è qualcosa di molto concreto, ossia l'insieme dei singoli momenti felici che viviamo. Come sostiene Mantegazza, è inutile ricercare uno stato di felicità costante e irremovibile; piuttosto, bisogna viversi e godersi questi singoli momenti di felicità, giorno per giorno, e così facendo, anche se vi saranno delle interruzioni derivanti dagli inevitabili dolori della vita, avremo comunque vissuto una vita felice, con più gioie che dispiaceri.
Spesso infatti, ricercando una felicità utopica e irrealizzabile, non ci godiamo le semplici gioie della vita le quali, invece, sono in grado di colmare e dare un senso all'esistenza. L'uomo felice è colui il quale non cerca un determinato ideale di felicità, ma colui il quale riesce a trovare la felicità in ogni cosa.
Il secondo errore compiuto dall'uomo è quello di imitare le altre persone che crediamo felici e cercare di vivere nel loro stesso modo. Vediamo una persona ricca, pensiamo che sia la più felice del mondo e ci affatichiamo per raggiungere la sua stessa condizione. Tuttavia, ciò che ignoriamo è che non esiste una formula univoca per la felicità, tutt'altro. Riprendendo una metafora del Mantegazza, la felicità individuale è come un paio di scarpe. Ciascuno di noi porta un numero differente e nel momento in cui indossiamo le scarpe di un altro è molto probabile che esse saranno o troppo piccole o troppo larghe; in ogni caso, non riusciremo a camminare comodamente. Allo stesso modo, noi crediamo che, siccome una persona è felice in un certo modo, allora anche noi lo saremo se imiteremo la sua stessa vita e le sue stesse scelte, senza accorgerci che ciò che rende unica la nostra vita è proprio l'essere diversa da quella delle altre persone e, di conseguenza, anche il nostro sentiero verso la felicità deve essere diverso.
Come possiamo riconoscere la nostra strada e, soprattutto, come possiamo percorrerla proficuamente? Mantegazza non cita direttamente questo termine, ma credo che non obietterebbe se riassumessi la sua risposta con la parola curiositas. L'uomo felice è colui che approccia la vita con una instancabile curiosità. Non segue soltanto una passione ma, esattamente come il contadino semina centinaia di chicchi per far sì che il maggior numero di essi attecchisca, egli non si preclude alcuna strada e vive tutto ciò che la vita ha da offrirgli, ponendosi diversi obiettivi e provando il maggior numero di sentieri. Egli gode dei piccoli piaceri, poiché piccoli in realtà non sono, ed è consapevole che il dolore è soltanto una breve interruzione tra un momento di felicità e l'altro. In tale godimento, la parola d'ordine è "semplicità"; l'uomo felice rifugge tutto ciò che è eccesso, poiché ogni cosa portata all'estremo diventa un veleno per l'anima e per il corpo, mentre i piaceri semplici sono quelli più autentici proprio perché rappresentano la virtù nell'esatto centro tra i due estremi.
In generale, trovo che la ricetta della felicità del Mantegazza sia contenuta in questo breve passo, che riassume in sé il messaggio principale del testo:
 
"Il pane in tasca e magari il fiaschetto di vino in compagnia del pane. E' il pane, il vino della salute fisica. Un braccio che s'intreccia col nostro, che preme sul nostro cuore e ci fa sentire che non siamo soli, che un altro fiato si confonde col nostro, che un altro tepore riscalda il nostro tepore. E' l'affetto che ci guida nei sentieri della vita. Una stella nel cielo, che guardiamo estatici, che contempliamo con riverenza, che è l'ideale, che è il pensiero che ci porta lontani, là dove le mani non toccheranno mai, là dove si confondono i pensieri di tutti coloro che hanno ali". (Paolo Mantegazza, L'arte di essere felici, pp. 64) 
 
 In altre parole, basta poco per essere felici: il pane e il vino quotidiano, che rappresentano i piaceri "edonistici" della vita; la compagnia di un'altra persona, poiché la vita e la felicità sono più intense se condivise; infine, la stella sopra la nostra testa, ossia il pensiero che ci guida attraverso le strade impervie dell'esistenza, il nostro punto di riferimento che mai ci abbandonerà e che mai dobbiamo abbandonare.

Ho parlato di felicità anche ne La tranquillità interiore
 
 
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Daniele Palmieri
 
 
 

martedì 26 luglio 2016

Robert Michels: Democrazia e Oligarchia

Democrazia e Oligarchia del sociologo tedesco Robert Michels, edito dalla casa editrice Ar, raccoglie tre brevi saggi che toccano uno dei nervi dolenti del sistema democratico: i partiti politici.
Filo conduttore dell'analisi di Michels, come suggerisce il titolo della raccolta, è il rapporto tra democrazia e oligarchia, con particolare riferimento a una dinamica interna ai partiti politici che introduce, nel sistema democratico, contraddizioni di certo non irrilevanti.
L'analisi di Michels prende avvio dai fondamenti teorici del marxismo e dalla teorie delle élite di Pareto; ogni periodo storico è contraddistinto da lotte di classe, che vedono contrapporsi fondamentalmente tre strati differenti delle società: le élite al potere (pochi uomini in possesso della maggior parte delle ricchezze), il proletariato (lo strato più povero della società il cui unico bene sicuro è, appunto, la prole) e, nel mezzo, le forze politiche che aspirano a soverchiare le élite dominanti per assumerne il posto. In gran parte delle rivoluzioni, questo ultimo strato ha spesso fatto leva sul proletariato, mostrandosi come portatore di libertà contro il giogo degli oppressori, salvo poi conquistarne il trono a rivoluzione conclusa.
Il sistema democratico nasce, in teoria, per contrastare la perenne oligarchia che ha contraddistinto ogni epoca storica. La democrazia, infatti, con il concetto di "popolo sovrano" dovrebbe permettere a ogni cittadino di avere il medesimo peso nelle decisioni politiche, indipendentemente dalle sue ricchezze e dalla sua condizione sociale.
La democrazia ideale è la democrazia diretta, in cui ogni singolo cittadino partecipa, tramite il proprio voto, alle decisioni importanti che riguardano lui e l'intero paese. Tuttavia, una forma di democrazia simile è praticabile soltanto in comunità con un numero ristretto di persone e risulta invece irrealizzabile all'interno di stati nazionali. Per ovviare a questo problema è nata la cosiddetta democrazia rappresentativa. Benché il popolo non possa prendere parte direttamente alle decisioni politiche, può tuttavia eleggere con il proprio voto dei rappresentanti, che porteranno la loro voce e la loro posizione nel dibattito parlamentare. I seggi assegnati in base alle percentuali di voti ricevuti assicurano che ogni posizione politica, di una certa rilevanza, sia rappresentata in parlamento.
Già a partire da questo punto Michels rileva i primi problemi della democrazia; come è possibile parlare di "governo del popolo" se ad avere effettivo potere decisionale sono soltanto un numero esiguo di persone? Non è questa, a tutti gli effetti, una oligarchia?
Si potrebbe controbattere che, a differenza dell'oligarchia, in democrazia il potere dei rappresentanti è molto più limitato rispetto a quello degli oligarchi, poiché legato agli interessi del loro elettorato che, se non vede rispettate le promesse fatte, può decidere, tramite il voto successivo, di destituirli dal loro compito.
Tuttavia, Michels dimostra che quest'ultimo processo non è così semplice da attuare, poiché ogni partito politico tende, per sua stessa natura e per la naturale propensione al dominio dell'essere umano, a trasformarsi in una oligarchia e, di conseguenza, a trasformare la democrazia stessa in una forma mascherata di potere oligarchico.
I saggi di Michels risalgono ai primi del '900 e le forze politiche da lui prese in esame sono il partito conservatore e il partito socialista, tuttavia la sua analisi potrebbe benissimo adattarsi ai partiti politici dei giorni nostri e, anzi, colpisce proprio per la sua stringente attualità, nonostante siano passati più di cento anni.
Per quanto riguarda i partiti conservatori, non sorprende trovare in essi tendenze oligarchiche; essi infatti rappresentano le élite del paese che, per adattarsi al sistema democratico, sono costrette a mostrare i propri interessi economici e finanziari come fossero quelli del popolo per ottenere il loro voto, visto in realtà come uno strumento per ottenere e confermare il proprio potere.
Paradossalmente, Michels rileva una tendenza oligarchica molto più pericolosa all'interno del partito socialista (benché egli stessi si sia formato all'interno del socialismo). Difatti, mentre quest'ultimo si fa portatore degli interessi del popolo e si pone come un movimento rivoluzionario, in realtà non riesce a sfuggire all'inesorabile conformazione oligarchica che assumono tutte le forme di potere, indipendentemente dagli ideali alle spalle.
Questo movimento di assestamento gerarchico e oligarchico può essere riassunto come segue.
Alla nascita del partito vige una sostanziale uguaglianza tra i membri dello stesso, uguaglianza alimentata anche dal numero esiguo di membri. Tuttavia, sin dai primi tempi vi sono alcuni individui che, per possibilità economiche e, soprattutto, per intelligenza e capacità oratorie spiccano sugli altri. A questo punto si crea un rapporto circolare: il gruppo di persone ha bisogno di un leader, che solitamente risponde alle caratteristiche elencate in precedenza e, allo stesso tempo, le persone con queste caratteristiche tendono ad affermarsi sulla folla come leader. Queste persone diventano porta voci del partito e, anche grazie alla loro capacità, quest'ultimo è in grado di ingrossare le proprie fila. Maggiore è il numero di membri, maggiore è la richiesta di una burocratizzazione e di una gerarchia che sia in grado di distinguere i membri più capaci e più anziani rispetto a quelli più giovani e inesperti, fermo restando che al vertice tenderà a prevalere sempre il leader di riferimento.
Raggiunta l'agognata elezione in parlamento, il processo con cui il partito si trasforma in oligarchia accelera ulteriormente. Da un lato, infatti, aumentano gli introiti delle persone elette e dunque anche i loro privilegi e, prendendo il caso del partito socialista, benché continueranno a farsi porta voci del popolo in realtà si saranno distaccati da esso e i loro stessi figli non vivranno le condizioni di vita proletarie, formando così una casta a sé; dall'altro, l'ingresso in parlamento coincide con un ulteriore processo di burocratizzazione e aumentano, all'interno del partito, i funzionari mantenuti con i soldi pubblici, sottoposti alle direttive del leader centrare.
Quest'ultimo, per mascherare il proprio potere, tenderà a mostrare come la propria volontà coincida con quella del partito, quando in realtà il movimento è l'inverso: nel caso di conflitto tra volontà del leader e volontà del partito, sarà il primo a imporre la sua sia con il proprio carisma sia con minacce indirette, come quella di dimettersi, con il pericolo di causare uno scandalo generale che inevitabilmente avrebbe impatto sull'opinione pubblica e causerebbe effetti negativi su tutto il partito.
Dati questi presupposti e inserendo i partiti nelle dinamiche del parlamento, con il tempo l'interesse principale di ciascuno di essi non sarà più la difesa e la diffusione dei propri ideali, bensì la difesa della propria poltrona, dei propri privilegi e del proprio potere. Dati alla mano, lo stesso Michels mostra come, all'epoca, molti membri dei principali partiti fossero stati al potere molto più a lungo di sovrani e aristocrazie del passato. Lo scontro politico, infatti, si trasforma presto in una lotta per il potere fine a se stesso.
 
Come anticipato in precedenza, le pagine di Democrazia e Oligarchia sono così attuali che durante la lettura è impossibile non pensare a tutti quei volti presenti sulla nostra scena politica da oltre vent'anni.
E' un testo che tutti dovrebbero leggere, giacché il sistema democratico è entrato a far parte delle nostre vite in maniera così profonda che spesso lo assumiamo come un'ovvietà, concentrandoci soprattutto sui suoi punti di forza e molto meno sulle sue debolezze e contraddizioni.
Tuttavia, mantenere vivo il dibattito sulle carenze di un sistema politico è necessario per evitare che lo stesso decadi; i difetti, infatti, si moltiplicano e trovano terreno fertile lì dove i problemi vengono ignorati e, allo stato attuale delle cose, è difficile non vedere la progressiva decadenza che sta colpendo le istituzioni democratiche.
 
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Daniele Palmieri

mercoledì 6 luglio 2016

Stirner: L'unico e la sua proprietà. La liberazione portata all'estremo

Citando la morte di Dio e la volontà di potenza il primo filosofo a cui si pensa, generalmente, è Friedrich Nietzsche, visto che spesso, semplicisticamente, il pensatore tedesco viene ridotto a questi due concetti.
Pochi sanno che le due idee per le quali Nietzsche è conosciuto (almeno superficialmente) sono in realtà di un altro pensatore, da cui Nietzsche ha attinto a piene mani senza citare la fonte: Max Stirner.
Figura evanescente, di cui si sa poco della vita personale e di cui non possediamo nemmeno un ritratto fedele (a tal punto che viene spesso accompagnato, erroneamente, dalla foto di Rudolf Steiner), Max Stirner ha praticato, secondo Roberto Calasso, "la vera filosofia del martello, che Nietzsche non sarebbe mai riuscito a praticare perché troppo irrimediabilmente educato".
Calasso non esagera. L'opera principale di Stirner, L'unico e la sua proprietà, spinge il Nichilismo lì dove nemmeno Nietzsche aveva osato portarlo e credo che nel dissolvere ogni principio morale sia secondo soltanto al marchese De Sade.
L'opera di Stirner dissezione l'anima umana fino a metterne in luce, sotto la viva carne, il suo cuore più profondo: l'egoismo, e anziché rifiutare questo nocciolo nero il filosofo tedesco lo eleva a unica ragione che dovrebbe guidare l'azione dell'uomo, contro ogni volontà impostagli dall'esterno.
Sin dalle prime pagine, infatti, Stirner svela una realtà difficilmente confutabile: quando una realtà terza, sia essa quella della famiglia, della chiesa, dello stato, tenta di farmi agire in un certo modo, non sta facendo altro che impormi la sua volontà a discapito della mia. Qualsiasi pensiero altro-da-me che ha la pretesa di indirizzare il mio agire sta traendo fuori da me il baricentro della mia azione; utilizzando le parole di Stirner, sta facendo in modo di impossessarsi della mia causa.
Dio, lo Stato, la Morale non sono altro che "Spiriti", fantasmi partoriti dalla mente umana per spogliare il singolo della causa del proprio agire e sono altrettanto egoisti quanto l'uomo che tentano di raddrizzare. Difatti, l'egoista altro non è che colui che agisce seguendo la propria causa e che differenza c'è tra il singolo individuo egoista e uno Stato, un Dio, una Morale quando anche questi Spiriti non fanno altro che imporre la propria volontà e, dunque, il proprio egoismo?
In tale prospettiva, ogni movimento della vita umana altro non è che l'imposizione di una volontà di potenza. La differenza tra una persona che agisce moralmente e l'egoista è che la prima sta mascherando una forma più sottile di egoismo, che rimane nascosto soltanto perché questa persona si è spogliata della propria volontà e l'ha proiettata su uno "Spirito" esterno (lo Stato, il Cristianesimo etc.), mentre l'egoista ha tenuto ben stretto la causa del proprio agire. Per fare un esempio concreto, il cristiano che agisce moralmente non appare egoista soltanto perché la volontà che impone non è la sua, ma quella del cristianesimo. Tuttavia, sempre di una forma di egoismo si tratta poiché la sostanza è sempre la stessa: di fronte a volontà contrapposte, il Cristianesimo tenta di imporre la propria attraverso il cristiano spogliato della propria causa.
Quest'opera di indottrinamento avviene fin dall'infanzia, il momento in cui iniziano a inculcarci ciò che dobbiamo desiderare, ciò che dobbiamo credere, ciò che dobbiamo volere, in modo che le nostre azioni si adeguino a quelle della società. In altre parole, non ci è permesso di provare i sentimenti che vorremmo provare e ci viene prescritto ciò che dobbiamo sentire e pensare.
Di fronte a tale indottrinamento, "l'egoista è colui che dissolve lo spirito nel suo nulla", che si sbarazza di ogni imposizione esterna riappropriandosi della sua volontà e del suo pensiero. Egli si accorge che non ha senso parlare di valori morali universali, di leggi, di contratti. L'unica legge, secondo Stirner, dovrebbe essere quella dell'egoismo, ossia: tu hai il diritto di essere ciò che hai il potere di essere. Affinché questo accada, bisogna rigettare ogni "Spirito" e ogni forma di valore sociale astratto.
L'utopia/distopia di Stirner è una non-comunità, senza premi e punizioni, di uomini liberi da ogni vincolo, che agiscono seguendo soltanto il proprio volere e le proprie ragioni, senza altra causa oltre loro stessi, ossia il nulla: 

"Io non sono nulla nel senso della vuotezza, bensì il nulla creatore, il nulla dal quale io stesso, in quanto creatore, creo il tutto".

Spontaneamente sorge la domanda: è auspicabile una comunità del genere? Io non credo e, contrariamente a Stirner, non credo nemmeno che assecondando in maniera sfrenata il proprio egoismo l'uomo possa essere realmente felice. Il filosofo tedesco dimentica la nostra fondamentale natura di animali sociali. Per quanto le norme sociali possano limitare la nostra esistenza, soprattutto se fossilizzate o accettate acriticamente dai più, senza la comunità non saremmo nulla, se non nudi animali dispersi nella foresta. Lo stesso Aristotele diceva che per vivere fuori dalla polis puoi essere soltanto o un folle o un dio. 
Ciò non toglie che l'opera di Stirner compie un importante movimento di liberazione, e credo che l'importanza de L'unico e la sua proprietà risieda proprio nella sua radicalità. Ogni movimento di liberazione, infatti, può avvenire soltanto se si conduce il pensiero agli estremi, facendo tabula rasa di tutto ciò che abbiamo sempre dato per scontato.
Recuperare la propria essenza più profonda, spogliata da tutte le volontà esterne, è uno di quei movimenti che ogni persona dovrebbe fare nella vita per recuperare il vero sé e divenire realmente consapevole delle proprie azioni, per smettere di agire come un automa. Tuttavia, a questo movimento deve seguirne uno speculare e contrario per tornare al prossimo, poiché l'egoismo sfrenato conduce soltanto alla distruzione quanto degli altri quanto di se stessi.

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Daniele Palmieri

venerdì 24 giugno 2016

Breve analisi del brexit: lottare per un'Europa migliore, ma dall'interno



Una breve analisi sul brexit a partire da un dato di Google Trends.
Nel Regno Unito, tra le ricerche più quotate di oggi, vi sono due domande in particolare:
1) Cosa significa uscire dall'Unione Europea?
2) Che cos'è l'Unione Europea? (ripeto: CHE COS'E' L'UNIONE EUROPEA).
A caldo mi vien da dire che molti abitanti del Regno Unito hanno indossato il preservativo dopo aver fatto sesso.
Questo dato è emblematico dell'intera campagna portata avanti dagli anti-europeisti, che definirei "nazional-populisti", fatta principalmente di bufale sull'UE, di nazionalismo spicciolo, di odio contro ciò che travalica i propri confini, di banche cattive e burocrati malvagi imprecisati. Da tutto questo guazzabuglio viene fuori un'idea distorta di Unione Europea, o meglio una "non-idea", un'ombra incombente dai tratti minacciosi proprio perché non si capisce cosa essa sia, quale sia il suo ruolo e, soprattutto, la sua importanza.
Sì, perché nonostante i molti ed evidenti problemi di questo esperimento politico unico nella storia umana, è innegabile che l'Unione Europea sia stata d'importanza fondamentale per mantenere l'equilibrio degli stati d'Europa. Noi non possiamo comprendere a pieno l'importanza di questa pace così duratura proprio perché vi siamo nati dentro, e guarda caso chi tenta di minare le basi di questo processo politico sono proprio gli ultra-nazionalisti, isolazionisti, xenofobi e guerrafondai, ancora aggrappati a un'idea antiquata di Europa che risale almeno alla prima guerra mondiale. Ma davvero è questo che vogliamo? Un'Europa ancora frammentata, fatta di muri, frontiere, egoismo, paura?
Con questo non voglio negare gli innumerevoli punti deboli di un'unione politica che ancora non si è creata, di un'Unione Europea che spesso si è trovata proprio divisa sulle questioni più scottanti come le politiche economiche o l'immigrazione e che non è stata in grado di dialogare con i cittadini.Tuttavia, in tutti questi anni sono state poste delle basi molto importanti. Come mostrano le statistiche del brexit, sta crescendo una popolazione di giovani che si sente europea, che si sente integrata in un contesto politico più ampio e che vuole fortemente un'europa unita, senza confini interni che limiterebbero la libertà di vivere in questo grande spazio comune dalle infinite potenzialità. Io mi sento uno di questi giovani e credo fermamente che sia fondamentale riuscire a superare i problemi più gravi dell'Unione Europea, ma dall'interno, perché la storia ci ha già insegnato per centinaia di anni quali sono le conseguenza di un'Europa divisa e frammentata.

Daniele Palmieri

lunedì 23 maggio 2016

Adam Smith e la nascita della disuguaglianza sociale

Adam Smith è conosciuto soprattutto per essere stato il fondatore della moderna scienza economica, con la sua opera più conosciuta e commentata: La ricchezza delle nazioni.
In pochi conoscono la sua attività più prettamente filosofica, in linea con la tradizione illuministica scozzese che ha in Hume uno dei suoi capisaldi. In particolare, è poco letta e commentata (almeno in Italia) un'opera altrettanto innovativa e attuale per la discussione filosofica contemporanea, ossia la Teoria dei sentimenti morali
Ne la Teoria dei sentimenti morali, Adam Smith propone una teoria prettamente descrittiva e naturalistica della nascita della morale. La sua è una teoria aliena da qualsiasi influenza teologica o normativa, poiché il suo scopo non è quello di stabilire cosa gli uomini devono fare o non fare, bensì descrivere da osservatore esterno, tramite esempi tratti dall'esperienza quotidiana, come nasce spontaneamente la morale e qual è il suo fondamento naturale.
Tra le tante intuizioni originali, particolarmente interessante è la sua teoria sulla nascita della disuguaglianza sociale e di come lo status quo venga giustificato dagli stessi "strati inferiori" della società. 
Per comprendere la concezione di Smith sulla disuguaglianza sociale occorre prima esporre la sua teoria generale sulla nascita della morale.
Come nasce, dunque, la morale?
Nella sua trattazione, Smith si inserisce nello storico filone del sentimentalismo morale, posizione filosofica secondo cui la morale affonda le sue radici nei sentimenti e nelle emozioni umane.
In particolare, secondo la concezione di Smith due sono i sentimenti principali sui quali si fonda la morale umana: il sentimento di approvazione e quello di disapprovazione. 
Questi sentimenti sorgono quando siamo inseriti in un contesto sociale e possiamo vivere e osservare le dinamiche interpersonali che si instaurano tra gli uomini. Da un lato, essi ci vengono "impartiti" con l'educazione che riceviamo dai familiari e dalle persone a noi vicine. Se compiamo un'azione che i nostri familiari reputano "scorretta", otteniamo la loro disapprovazione, che suscita in noi un'emozione negativa, e a lungo andare comprendiamo che quell'azione non è da fare non solo perché suscita disapprovazione ma perché, appunto, "scorretta". In secondo luogo, il senso morale nasce spontaneamente nel momento stesso in cui osserviamo le dinamiche che avvengono attorno a noi. 
Se siamo testimoni di una violenza immotivata, percepiamo un'emozione negativa e automaticamente bolliamo l'azione commessa nei confronti della vittima come "sbagliata", perché mina l'integrità personale. 
Tuttavia, perché sorge questo sentimento negativo? In fin dei conti, non siamo noi la vittima dell'azione.
Secondo Smith, ciò avviene perché gli umani sono dotati di una facoltà peculiare, la "simpatia". Non bisogna confondere questo termine con l'accezione usata comunemente; con "simpatia" si intende, in questo caso, la capacità di immedesimarsi nella prospettiva altrui per provare ciò che l'altro sta vivendo come se fossimo noi a viverlo. 
In altri termini, nel momento in cui vediamo una persona vittima di violenza, proviamo un'emozione negativa poiché ci immedesimiamo in quella persona e immaginiamo cosa proveremmo se ci trovassimo nella sua posizione. Proviamo dunque un'emozione negativa e, di conseguenza, un sentimento di repulsione nei confronti della violenza, che diventa un'azione moralmente scorretta.
Questo sentimento simpatetico è una connessione invisibile che lega tutti gli uomini, tanto nelle disgrazie quanto nella felicità. Condividiamo con gli altri sia i dolori sia le gioie, e questa condivisione è allo stesso tempo fonte di piacere per la persona che prova dolore o per quella che gioisce. Nel primo caso, infatti, sentiamo di avere un sostegno su cui contare ed è come se il nostro dolore venisse "diluito"; nel secondo caso perché la gioia condivisa è come se si moltiplicasse.
Date queste premesse, è possibile esporre la teoria di Smith sulla nascita della disuguaglianza sociale.
Tutto ha inizio da due fattori: l'ambizione alla felicità posseduta da ogni uomo e la naturale propensione a condividere la gioia e il successo poiché, come appena detto, una gioia condivisa è molto più appagante di una felicità tenuta nascosta.
Cosa si intende comunemente per "felicità"? Nell'accezione volgare, certamente quella più diffusa, la felicità è spesso associata a uno stato di potere e ricchezza, che rende l'uomo libero (apparentemente) da qualsiasi vincolo e che lo emancipa dalla schiavitù del lavoro e della fatica.
Questa condizione utopica e idealizzata è spesso lo stato a cui tutti tendono ma, secondo Smith, non solo per le ricchezze in sé. Nessun uomo accumulerebbe un'ingente somma di denaro senza trovare il modo per mostrare agli altri la sua ricchezza. Basti pensare ai miliardari; quanti di questi vestono abiti di sottomarche, guidano utilitarie da poco prezzo, vivono in appartamenti da pochi metri quadri? Nessuno, poiché ciò che contraddistingue il miliardario è l'eccesso. I vestiti di marca, le automobili più costose, le ville smoderatamente grandi, non sono semplicemente dei beni che il ricco acquista perché gli piacciono, ma sono soprattutto dei modi che questi ha per ostentare la sua ricchezza, in modo che gli altri condividano con lui la sua felicità. Una condivisione che, però, non avviene per motivi altruistici, ma per affermare il proprio rango superiore.
Tale affermazione che può avvenire proprio perché le persone comuni provano rispetto e venerazione per la sua ricchezza e la sua condizione di vita, poiché esse personificano l'utopia alla quale tendono anche loro.
In questo modo, il rango, i privilegi e il potere dei dominanti vengono naturalmente giustificati dai dominati i quali, benché oppressi, ammirano la condizione dei potenti poiché ne condividono simpateticamente la gioia, ne riconoscono la legittimità e, anzi, aspirano a raggiungere la medesima condizione. Tale aspirazione, se non contrastata, blocca sul nascere ogni movimento di sovversione dello status quo, poiché il potente diviene un ideale utopico intoccabile e il suo dominio, anche se scorretto, opprimente o illiberale, viene giustificato dalla nostra istintiva approvazione. Come sostiene Smith con un'immagine molto evocativa, questa propensione naturale porta il suddito a considerare il sorriso del sovrano come paga più che sufficiente a ogni servizio che compie nei suoi confronti.
Come non rivedere, in queste parole, il volto dei parvenus alla Donald Trump che con un solo sorriso riescono a radunare folle di fedeli pronti ad acclamare ogni loro affermazione?
Con il tempo, l'arrampicata sociale, generata dalla naturale ambizione al potere e alla felicità, porta delle persone a raggiungere "i piani alti" della società e altre persone a rimanere con i piedi a terra. I potenti li guardano dall'alto ostentando le loro ricchezze e, dal canto loro, i dominati alzano lo sguardo e li ammirano come divinità, accecati dal loro potere. Proprio questa venerazione legittima il potere di chi ha scalato la vetta dell'ambizione, anche se con sporchi mezzi, e sopisce sul nascere ogni moto di sovversione che spinga a instaurare l'uguaglianza sociale. 
Ai temi di Smith come ai giorni nostri (e come è sempre stato nella storia umana), gli oppressi lucidano lo scettro del loro oppressore, aspirando al suo stesso potere, senza accorgersi che quel potere già lo posseggono visto che sono stati loro stessi a porre il sovrano sul trono con la loro ammirazione. Per liberarsene basterebbe distogliere lo sguardo.


Adam Smith - Teoria dei sentimenti morali
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Daniele Palmieri

martedì 17 maggio 2016

Bisogna tollerare gli intolleranti? Marcuse e la critica della tolleranza

Bisogna tollerare gli intolleranti? Questa è la domanda fondamentale attorno alla quale ruota un breve pamphlet di Marcuse, Critica della tolleranza, in cui il filosofo tedesco descrive una forma di tolleranza "negativa", che spesso diventa uno strumento di oppressione invisibile in mano al potere.
Per trovare una risposta a questa domanda occorre, innanzitutto, stabilire cos'è la tolleranza e quale è il suo compito. 
Stando al ritratto che ne dà Marcuse, la tolleranza è un fine in sé, ossia l'eliminazione della violenza e la riduzione della soppressione per proteggere uomini e animali dalla crudeltà e dall'aggressione. Si tratta di una forma di tolleranza attiva, presente in una società utopica in cui essa è davvero universale, praticata quanto dai governanti quanto dai governati, con l'unico scopo di garantire la libertà comune e il dibattito democratico.
A questo modello positivo di tolleranza, Marcuse oppone, come anticipato in precedenza, un modello negativo, che si articola in due forme differenti.
La prima è la tolleranza conformistica delle idee consolidate. Si tratta di una tolleranza passiva, omologante, che porta l'individuo ad appiattirsi sul pensiero dominante e a tollerare ogni suo sopruso, anche le oppressioni violente o le guerre ingiuste. E' una forma di tolleranza che "è amministrata per manipolare e indottrinare gli individui, affinché ripetano pappagallescamente, come fossero proprie, le opinioni dei loro capi". Questo tipo di tolleranza è, in realtà, una forma di censura nei confronti delle idee eretiche; una censura infida poiché silenziosa, che si limita ad ascoltare le voci di dissenso, salvo poi girarsi dall'altra parte e non prenderle in considerazione nel momento della decisione.
"Quelle minoranze che lottano per un mutamento del tutto stesso, nelle condizioni più favorevoli che di rado prevalgono, saranno lasciate libere di deliberare e di discutere, di parlare e di riunirsi, e saranno rese inoffensive e impotenti nei confronti della maggioranza opprimente, che milita contro il mutamento sociale qualitativo"
Vi è poi una seconda forma di tolleranza, ancora più controversa e pericolosa: la tolleranza nei confronti dell'intolleranza e dei movimenti che, esplicitamente, militano a favore dell'oppressione, contro i diritti umani. Può uno stato democratico tollerare questa forma di intolleranza? La risposta di Marcuse è noi, poiché in questo modo la tolleranza va contro la sua stesso fine: la libertà individuale, all'interno di un'istituzione che sia in grado di garantire l'autonomia ai propri cittadini la possibilità di scegliere il loro governo e determinare la loro vita. Una condizione utopica, a cui però bisogna tendere in nome del progresso (umano, culturale, sociale) e, in tale contesto, la soppressione di idee xenofobe, razziste, violente, totalitarie è un requisito necessario per permettere questa forma di sviluppo e per diffondere la libertà. "La soppressione del regresso è un preliminare per il rafforzamento del progresso".
In contrasto con Mill, dunque, che sostiene la difesa a oltranza di ogni opinione, anche le più controverse (qui la sua analisi in On liberty), finché esse non sfociano nell'azione, Marcuse sostiene che bisogna sottrarre la tolleranza verso i movimenti regressivi prima che possano diventare attivi, per un motivo molto semplice: poiché essi puntano a diventarlo. Nessun uomo esprime un'opinione per il gusto di farlo. Anche la persona più ininfluente che sostiene posizioni razziste e xenofobe vorrebbe che la sua visione del mondo venga imposta alla realtà sociale, e farà di tutto per supportare le persone più influenti di lui con la possibilità di farlo. Allo stesso tempo, persone influenti, con grande risonanza, che esprimono pubblicamente opinioni intolleranti sono un pericolo per l'intera umanità, poiché contribuiscono a diffondere un clima d'odio. "In circostanze passate e differenti, i discorsi dei leaders fascisti e nazisti furono il prologo immediato del massacro. La distanza tra la propaganda e l'azione, tra l'organizzazione e i suoi effetti sulla gente si è fatta troppo corta. Ma la diffusione della parola sarebbe potuta essere arrestata prima che fosse troppo tardi: se la tolleranza democratica fosse stata ritirata quando i futuri capi cominciarono la loro campagna, l'umanità avrebbe avuto la possibilità di evitare Auschwitz e una guerra mondiale".

Cosa pensare della posizione di Marcuse? Non riesco ancora a prendere una posizione netta a riguardo, poiché la censura è pericolosa come il fuoco ed è difficile stabilirne dei confini precisi che riescano, in maniera chirurgica, a intervenire soltanto lì dove c'è davvero bisogno di farlo. Spesso la censura "motivata" si trasforma in strumento di oppressione anche nei confronti di pensieri, opinioni e idee che non dovrebbero rientrare nei suoi confini ma che, per qualche cavillo burocratico, vengono fatte rientrare in esse poiché funzionale al potere costituito. 
D'altro canto, è innegabile la forte considerazione marcusiana sui movimenti nazifascisti. Hitler aveva reso esplicito il proprio programma politico fin dalla pubblicazione de "La mia battaglia" e "La mia vita"; cosa sarebbe successo se le sue idee fossero state censurate sul nascere? Forse si sarebbero davvero salvate milioni di vite, oppure il problema sarebbe soltanto stato rimandato, visto che i malumori, l'odio e il sentimento di rivalsa che il popolo tedesco covava già dalla fine della prima guerra mondiale, e forse era necessario che l'Europa vi sbattesse la testa.

Daniele Palmieri

Marcuse, Critica della tolleranza, edito da Mimesi Edizioni
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