Alexandre Dumas penso non abbia bisogno di presentazioni. Il Conte di Montecristo e I Tre moschettieri, solo per citare due titoli, sono forse tra i romanzi più conosciuti della letteratura mondiale. Ma forse una breve presentazione la richiede uno dei suoi lavori meno conosciuti: Il Signore dei lupi.
Il Signore dei lupi è un romanzo di poco più di un centinaio di pagine, edito in Italia da Piano B Edizioni, che ha subito attirato il mio interesse per il tema principale del libro. Si tratta, infatti, di uno dei primi romanzi dedicati alla figura, poi divenuta iconica, del Lupo Mannaro.
Una delle prime apparizioni letterarie, si intenda, perché la figura folklorica del Lupo Mannaro è ben più antica, risalente già al mondo greco-romano, ma che raggiunge il suo apice nelle credenze magiche e stregoniche del mondo medievale e rinascimentale, come testimonia un pamphlet pubblicato nel 1599 da Beauvois de Chauvincourt, Discorso sulla licantropia, che oltre al ricco folklore sul tema testimonia l'inquietudine tangibile diffusa tra le popolazioni rurali nei confronti di questa figura.
Nella costruzione magistrale del suo racconto, Dumas attinge a piene mani da questa tradizione. Gli elementi ci sono tutti: ampie distese di boschi oscuri, indomati anche quando proprietà di ricchi e nobili latifondisti; contadini intimoriti, superstiziosi, da un lato ma, dall'altro, più sensibili nei confronti delle forze oscure che, di notte, si muovono nel sottobosco; una capanna di legno nascosta, lontano dalla civiltà, dove alberga un reietto che, per quanto intelligente e abile nel proprio lavoro, viene visto con sospetto dalla popolazione per via del suo isolamento; infine, il vortice di leggende, credenze, dicerie, simboli legati alla magia e alla stregoneria.
Protagonista del racconto è l'uomo solitario poc'anzi citato, un certo Thibault, uno zoccoliere di umili origini ma dalla istruzione, la conoscenza e l'abilità pratica superiore rispetto alla sua condizione sociale che, tuttavia, non riesce a integrarsi con il resto della società. Questa sua incapacità deriva da un astio nascosto covato nei confronti della realtà sociale in cui è inserito. La consapevolezza della sua abilità, da un lato, e, dall'altro, quella di non poter far nulla per poter migliorare la propria condizione sociale in un mondo dominato da nobili inetti, violenti e privilegiati, nel corso degli anni lo hanno corroso internamente, provocando un velenoso deposito di rancore, destinato a essere espulso.
Il punto di non ritorno è lo scontro con un signorotto del luogo, il barone Jean de Vez, un nobile dedito alla caccia con il quale, durante un lungo inseguimento fatto di depistaggi e menzogne, si contende la cattura di un daino.
Fin dalla causa scatenante del conflitto ci si trova a simpatizzare con Thibault. Benché egli abbia visto per primo il daino e benché la cattura della preda, da parte sua, rappresenterebbe un bisogno necessario per variare la sua magra dieta, per via della legge vigente gli sarebbe impedito cacciare nel territorio del Barone per il quale, dall'altro canto, la cattura di un daino rappresenta soltanto un vezzo, un passatempo.
La consapevolezza di questa ingiustizia porta Thibault a tentare la fortuna e si mette all'inseguimento del daino, depistando il suo concorrente; ma, alla fine, ha la peggio. Viene catturato in flagrante e condannato a subire l'umiliazione di essere frustato sul posto. La violenza viene fermata soltanto grazie all'intervento di una fanciulla che, attirata dalle grida di dolore di Thibault e giunta sul posto, implora al Barone di fermare quel supplizio.
Thibault si invaghisce subito di quella ragazza pura e candida, che si presenta con il nome di Agnelet, ma anche in questo caso è subito costretto a subire un ulteriore abuso psicologico. Il Barone acconsente alla grazia ma solo in cambio di un bacio. Thibault viene così rilasciato e si trova in balìa di due sentimenti contrastanti. Da un lato un amore intenso nei confronti di Agnelet, della sua bontà, della sua clemenza e della sua sensibilità, e dall'altro da un odio viscerale nei confronti del Barone Jean de Vez e dei suoi atteggiamenti viscidi e criminali, riconosciuti anche dalla stessa Agnelet, come dimostra questo sagace scambio di battute tra la ragazza e il Barone:
"E non hai paura così giovane e carina [a vagare per i boschi da sola n.d.R.]?
"Qualche volta sì, perché durante le veglie invernali sento raccontare strane storie di lupi mannari e quando mi trovo sola in mezzo a tanti alberi e sento fischiare tra i rami mi vengono i brividi. Ma appena sento la fanfara dei corni da caccia e l'abbaiare dei cani mi tranquillizzo".
"Qualche volta sì, perché durante le veglie invernali sento raccontare strane storie di lupi mannari e quando mi trovo sola in mezzo a tanti alberi e sento fischiare tra i rami mi vengono i brividi. Ma appena sento la fanfara dei corni da caccia e l'abbaiare dei cani mi tranquillizzo".
[...] "Infatti noi facciamo una gara spietata ai lupi, ma, perbacco, esisterebbe un mezzo per far cessare le tue paure. Vieni a cogliere l'erba al castello di Vez! Nessun lupo, mannaro o no, ne ha mai varcato i fossati!".
Angelet scosse il capo.
"Come non vuoi? Perché rifiuti?".
"Perché al castello troverei cose forse peggiori del lupo..." (Alexandre Dumas, Il signore dei lupi, pp. 36-37).
In ogni caso, l'odio prende presto il sopravvento e lentamente si incarna in una figura archetipica: quella del Lupo Cattivo.
Durante il suo inseguimento del daino, visto che le preghiere a Dio parevano non funzionare, Thibault si era trovato a invocare l'aiuto di Satana. Ed ecco che, dopo la pena inflitta dal Barone, il suo aiuto, pur tardando ad arrivare, si rivela: tornato nella sua baracca nascosta nel bosco, Thibault trova il daino legato. Interrogandosi su come ciò possa essere accaduto, la risposta, per quanto grottesca e surreale, non tarda ad arrivare, nelle vesti di "un immenso lupo nero che camminava eretto sulle zampe posteriori" che "giunto nel mezzo della stanza, sedette al modo dei lupi e fissò Thibault. Questi afferrò un'accetta e, per spaventare lo strano visitatore, la tenne sollevata sulla testa. Allora il lupo assunse prima una singolare espressione di beffa e poi si mise addirittura a ridere. Per la prima volta in vita sua Thibault sentiva ridere un lupo! Sgomento, lasciò ricadere il braccio" Alexandre Dumas, Il signore dei lupi, p. 41).
Questo immenso Lupo Nero non è Satana in persona, bensì un suo emissario. Un aiutante del "Dio dal Piede Caprino", così come lo definisce lo stesso Lupo. In un lungo colloquio, il Lupo rivela a Thibault di essere stato lui ad aiutarlo e, in cambio di una momentanea protezione dai cani del Barone, sulle sue tracce, convince lo zoccolaio a stipulare un patto per sollevarlo dalla sua posizione sociale:
"Diciamo" disse il lupo, come se nulla fosse accaduto "che io non posso concederti tutti i beni che desideri, ma posso accordarti il potere di realizzare tutto il male che desideri per il tuo prossimo".
"E a cosa mi servirà?".
"Stupido. Rifletti: se un infortunio capitato al tuo migliore amico è sempre piacevole, prova a pensare quanto può essere sgradevole un infortunio capitato al tuo peggior nemico! Senza dimenticare che il male del prossimo, amico o nemico, può facilmente volgersi a tuo vantaggio" (Alexandre Dumas, Il signore dei lupi, p. 44).
In cambio di questa spintarella, il Lupo non chiede in cambio la "classica" anima, ma qualcosa di apparentemente semplice. "Oh, non temere" lo rassicura "non ti chiedo una libbra della tua carne, ma solo un tuo capello: un capello per il primo desiderio, due per il secondo, quattro per il terzo e così via, sempre raddoppiando" (Alexandre Dumas, Il signore dei lupi, p. 45).
Thibault, sorpreso, accetta questo "semplice" pegno. Da questo momento in poi, Il signore dei lupi si trasforma in una lenta discesa nell'oblio, un'esplorazione dell'ombra primordiale, una regressione agli istinti animaleschi primitivi. E l'aspetto più straniante di tutto il romanzo è che il lettore, oltre a partecipare in prima persona a questa esplorazione speleologica del male interiore, guardandosi attorno è impossibilitato dal cogliere qualsiasi via di fuga luminosa. I nemici di Thibault, nobili, privilegiati, altezzosi, violenti, autoritari, traditori, suscitano ancora più disprezzo; l'unico personaggio puro che, non a caso, si chiama Agnelet (Agnellina) pare troppo impotente per contrastare l'oscurità che si diffonde in tutto il paese e, di fronte a questo abisso di violenza e dannazione, il lettore comprende che l'unica soluzione possibile risiede in un deus ex machina, l'intervento divino liberatore. Un intervento, tuttavia, che viene percepito, intuito, agognato, ma che non avverrà mai, anche quando il classico moralismo letterario ottocentesco lo richiederebbe. A eccezion fatta del finale misterioso ed enigmatico, in cui si percepisce un po' di luce, per l'intera narrazione ci si sente imprigionati in un vero e proprio meccanismo del Male, come nei racconti del Marchese de Sade.
Thibault, infatti, che inizialmente si era ripromesso di non abusare di questo dono e di riuscire a conquistare il minimo indispensabile, è presto trascinato in un vortice di odio e rancore, un tortuoso labirinto in cui ogni desiderio fa nascere ulteriori problemi risolvibili soltanto con altra violenza. In questa lenta regressione, Thibault diventa sempre più insensibile e selvaggio e scopre cosa realmente il Lupo Nero intendesse con la richiesta dei suoi capelli. Questi, infatti, non gli vengono strappati, ma si tramutano lentamente in lunghi e spessi peli rossi, simili a crini di cavallo, che non si riescono in alcun modo a tagliare o nascondere, trasformando la sua chioma in quello che, notoriamente, nel folklore popolare era considerato il simbolo del maligno: il rosso intenso.
Questa progressiva regressione animalesca del protagonista è acuita da alcuni aiutanti inviatigli dal Lupo Nero, incarnazione dei suoi impulsi primitivi sempre più incontrollabili: un branco di lupi rossi come la peluria che lentamente gli copre il capo. Il primo incontro tra Thibault e queste entità a metà tra animale e demone merita di essere riportato per intero, poiché rappresenta uno dei passi più intensi del romanzo:
"Thibault [...] aveva deciso che si sarebbe rifugiato nei boschi, dove a quell'ora nessuno avrebbe osato rincorrerlo. [...] Era calata la notte; una di quelle notti d'autunno buie e tempestose in cui il vento, che strappa dagli alberi le foglie ingiallite, suscita nella foresta suoni lamentosi e lugubri gemiti. [...] Entrò dunque coraggiosamente nella foresta nel punto chiamato ancora oggi la Brughiera dei Lupi. [...] Camminava da qualche minuto lungo un viottolo buio [...] quando udì, a pochi passi dietro di lui, un rumore di foglie smosse. Si voltò e nell'oscurità vide lo scintillio di due occhi simili a carboni ardenti. Guardando più attentamente scorse un grosso lupo che lo seguiva passo passo. Non era il lupo che aveva accolto nella sua capanna; quello era nero, mentre questo era rossastro [...]. Improvvisamente lo zoccolaio vide davanti a sé altre due luci ardenti che brillavano nell'oscurità, divenuta più fitta. Tenendo alto il bastone pronto a colpire, avanzò in direzione delle luci che restavano immobili. A un certo punto gli parve d'inciampare in un corpo disteso sul sentiero. Era quello di un altro lupo. [...] Guardando ora avanti e ora indietro, si avvide che un terzo lupo lo fiancheggiava, sulla destra [e] un quarto lupo lo scortava sul fianco sinistro. Aveva percorso pochi chilometri e già una dozzina di lupi formavano intorno a lui un cerchio" (Alexandre Dumas, Il signore dei lupi, p. 69). Thibault scappa, spaventato, i lupi lo seguono, lui si ripara nella capanna e accende un fuoco sperando di scacciarli. Loro rimangono seduti fuori, in attesa, e al giungere dell'alba "i lupi si alzarono tutti insieme e, lanciando il lugubre ululato con cui gli animali delle tenebre salutano il giorno, si dispersero in varie direzioni e scomparvero" (Alexandre Dumas, Il signore dei lupi, p. 70).
Alla seconda notte, di fronte all'atteggiamento amichevole dei lupi, Thibault si rende conto che questi non sono presenze a lui ostili ma, anzi, gli aiutanti inviatigli dal Lupo Nero. E dinnanzi a un "potere così formidabile" decise di sfruttarlo "formulando i desideri più sfrenati, anche a costo di far somigliare la sua capigliatura alla corona di fuoco che di notte si vede fiammeggiare sulla più alta ciminiera della fabbrica di vetri di Saint-Gobain (Alexandre Dumas, Il signore dei lupi, p. 74)." In altri termini, Thibault si trasforma nel Signore dei Lupi e ogni sua azione lo porterà ad assimilarsi sempre di più con questo nuovo, diabolico, animale totem, a tal punto, nei capitoli finali del romanzo, di comunicare con loro tramite ululati, di mangiare le prede da loro catturate concedendogliene, come un capobranco, solo alcuni assaggi, di dormire in tane interrate nelle conce degli alberi e, soprattutto, di vivere spinto da sentimenti animaleschi di odio, eccitazione sessuale, rancore e vendetta.
La licantropia nasce così, per Dumas, da una giusta volontà di rivalsa sociale che, tuttavia, viene costantemente repressa dalla classe dominante e trasformata così nel riflesso, ancora più mostruoso, crudele e ferale, della stessa violenza e dello stesso odio che Baroni viziati come Jean de Vez disseminano per il regno.
E' questa, forse, la verità più cruda dell'intero romanzo. Come accennato in precedenza, il lettore si sente in balìa di un mondo mosso da quelle forze oscure temute e narrate nei racconti popolari dei contadini; forze che si moltiplicano e raddoppiano a dismisura come i peli rossi sul capo di Thibault o i lupi rossi del suo branco e che presto prendono il sopravvento, contaminando anche le battaglie più nobili, come la lecita brama di giustizia. Per tutta la lettura ho atteso un risvolto moralistico, che davo quasi per scontato, essendo tipico della letteratura ottocentesca "di intrattenimento", soprattutto di stampo francese. Eppure, questo risvolto, fatto intuire da alcuni passi, in realtà non si presenterà mai; o, meglio, quando si presenta, sul finale, sembra ormai troppo tardi. Ha l'effetto di un colpo di vento che, per un istante, ravviva un tiepido braciere ormai quasi spento, che tuttavia non riesce né a rischiarare né a illuminare. Ed è proprio questa speranza disattesa a costituire l'aspetto più moderno del romanzo di Dumas, che portando a galla l'ombra più oscura, incarnata nella figura del Licantropo, è in grado di dipingerla con i suoi tratti più crudi - lasciando da parte quella che Sade, nella rappresentazione moralistica del male tipica della sua epoca, definiva "l'arte di dipingere senza colori".
Alexandre Dumas, Il signore dei lupi, Piano B Edizioni.
Daniele Palmieri