giovedì 4 agosto 2016

Paolo Mantegazza e l'Arte di essere felici

Capita che, girando per Napoli, ti imbatti in un libricino, l'Arte di essere felici, di Paolo Mantegazza, filosofo, fisiologo e naturalista, uno dei primi divulgatori delle teorie darwiniste in Italia a cavallo tra fine ottocento e inizio novecento (insomma, un Alberto Angela ante litteram) e ovviamente non puoi lasciarlo lì dove lo hai visto.
Spesso decido se comprare un libro o meno in base all'incibit. L'Arte di essere felici si presenta subito in grande stile, con poche ma incisive parole che rendono alla perfezione lo stile sobrio, diretto ma allo stesso tempo profondo e meditato dell'opera del Mantegazza:

 
"Sei sano? Sì. Sei galantuomo? Sì. Hai il pane quotidiano? Sì. Sei felice? No. Ebbene, fatti curare e va' a scuola, perché tu sei malato e ignorante." (Paolo Mantegazza, L'arte di essere felici, Colonnese Editore, pp. 11)

Come suggerisce il titolo, per Mantegazza la felicità è un'arte e, in quanto tale, non può essere insegnata ma soltanto "vissuta". Scopo del breve pamphlet è proprio quello di mostrare come ognuno di noi possa vivere la felicità e di come essa sia a portata di mano. L'autore riesce in un compito per nulla semplice, quello di far assaporare la semplicità della felicità senza mai cadere nel retorico e nel banale.
L'Arte di essere felici ha un piacevole sapore epicureo. Per Mantegazza gli uomini alla ricerca del segreto della felicità compiono degli errori di fondo che gli impediscono di raggiungere il risultato sperato. E' importante, dunque, prendere consapevolezza di questi errori per non commetterli e aprirsi la strada per la felicità autentica.
Il primo errore è quello di ricercare uno stato di imperturbabilità dal dolore e dalla sofferenza, ossia una felicità perenne che ci mantenga costantemente nella medesima condizione. Tale ricerca non può che fallire. Non esiste un segreto in grado di assicurare la felicità perpetua, poiché la vita è in continuo mutamento.
Tuttavia, al contrario di altri autori, come Schopenhauer, che da un assunto simile traggono considerazioni pessimistiche circa la condizione dell'uomo, Mantegazza sviluppa una concezione del tutto positiva e ottimistica della vita umana.
Per essere felici basta davvero poco, come sottolineano le brevi battute citate in precedenza, e questo perché la felicità è qualcosa di molto concreto, ossia l'insieme dei singoli momenti felici che viviamo. Come sostiene Mantegazza, è inutile ricercare uno stato di felicità costante e irremovibile; piuttosto, bisogna viversi e godersi questi singoli momenti di felicità, giorno per giorno, e così facendo, anche se vi saranno delle interruzioni derivanti dagli inevitabili dolori della vita, avremo comunque vissuto una vita felice, con più gioie che dispiaceri.
Spesso infatti, ricercando una felicità utopica e irrealizzabile, non ci godiamo le semplici gioie della vita le quali, invece, sono in grado di colmare e dare un senso all'esistenza. L'uomo felice è colui il quale non cerca un determinato ideale di felicità, ma colui il quale riesce a trovare la felicità in ogni cosa.
Il secondo errore compiuto dall'uomo è quello di imitare le altre persone che crediamo felici e cercare di vivere nel loro stesso modo. Vediamo una persona ricca, pensiamo che sia la più felice del mondo e ci affatichiamo per raggiungere la sua stessa condizione. Tuttavia, ciò che ignoriamo è che non esiste una formula univoca per la felicità, tutt'altro. Riprendendo una metafora del Mantegazza, la felicità individuale è come un paio di scarpe. Ciascuno di noi porta un numero differente e nel momento in cui indossiamo le scarpe di un altro è molto probabile che esse saranno o troppo piccole o troppo larghe; in ogni caso, non riusciremo a camminare comodamente. Allo stesso modo, noi crediamo che, siccome una persona è felice in un certo modo, allora anche noi lo saremo se imiteremo la sua stessa vita e le sue stesse scelte, senza accorgerci che ciò che rende unica la nostra vita è proprio l'essere diversa da quella delle altre persone e, di conseguenza, anche il nostro sentiero verso la felicità deve essere diverso.
Come possiamo riconoscere la nostra strada e, soprattutto, come possiamo percorrerla proficuamente? Mantegazza non cita direttamente questo termine, ma credo che non obietterebbe se riassumessi la sua risposta con la parola curiositas. L'uomo felice è colui che approccia la vita con una instancabile curiosità. Non segue soltanto una passione ma, esattamente come il contadino semina centinaia di chicchi per far sì che il maggior numero di essi attecchisca, egli non si preclude alcuna strada e vive tutto ciò che la vita ha da offrirgli, ponendosi diversi obiettivi e provando il maggior numero di sentieri. Egli gode dei piccoli piaceri, poiché piccoli in realtà non sono, ed è consapevole che il dolore è soltanto una breve interruzione tra un momento di felicità e l'altro. In tale godimento, la parola d'ordine è "semplicità"; l'uomo felice rifugge tutto ciò che è eccesso, poiché ogni cosa portata all'estremo diventa un veleno per l'anima e per il corpo, mentre i piaceri semplici sono quelli più autentici proprio perché rappresentano la virtù nell'esatto centro tra i due estremi.
In generale, trovo che la ricetta della felicità del Mantegazza sia contenuta in questo breve passo, che riassume in sé il messaggio principale del testo:
 
"Il pane in tasca e magari il fiaschetto di vino in compagnia del pane. E' il pane, il vino della salute fisica. Un braccio che s'intreccia col nostro, che preme sul nostro cuore e ci fa sentire che non siamo soli, che un altro fiato si confonde col nostro, che un altro tepore riscalda il nostro tepore. E' l'affetto che ci guida nei sentieri della vita. Una stella nel cielo, che guardiamo estatici, che contempliamo con riverenza, che è l'ideale, che è il pensiero che ci porta lontani, là dove le mani non toccheranno mai, là dove si confondono i pensieri di tutti coloro che hanno ali". (Paolo Mantegazza, L'arte di essere felici, pp. 64) 
 
 In altre parole, basta poco per essere felici: il pane e il vino quotidiano, che rappresentano i piaceri "edonistici" della vita; la compagnia di un'altra persona, poiché la vita e la felicità sono più intense se condivise; infine, la stella sopra la nostra testa, ossia il pensiero che ci guida attraverso le strade impervie dell'esistenza, il nostro punto di riferimento che mai ci abbandonerà e che mai dobbiamo abbandonare.

Ho parlato di felicità anche ne La tranquillità interiore
 
 
Se questo articolo ti è piaciuto, dai un occhio alle mie pubblicazioni.
 
Daniele Palmieri