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lunedì 28 dicembre 2015

Una città senza automobili: riflessioni sul blocco delle auto a Milano

Il blocco totale delle auto a Milano, un'occasione per vedere un diverso volto della città


Milano con il blocco totale delle auto.
Silenzio, pace e tranquillità. La mobilità in bici è più efficiente almeno del doppio; niente stress, niente traffico, niente clacson, niente tubi di scappamento. Alcune persone si lamentano dicendo che tre giorni di blocco son troppi; io mi lamento perché sono troppo pochi.
Altre si lamentano perché dicono che il blocco delle auto non serve a nulla; ma è davvero così?
Io mi lamento perché la gente non dovrebbe lamentarsi ma approfittarne per prendere la bici per scoprire una città che ha molto da dare e che in giorni come questi ha un volto ancora più splendido.
Capisco le esigenze delle persone che lavorano, soprattutto di quelle che abitano in provincia, in paesi con collegamenti pubblici molto scarsi se non del tutto carenti. Ma non posso credere che il 100% dei lavoratori di Milano si trovi in queste condizioni e non posso giustificare le persone che ritengono l'automobile l'unico mezzo per recarsi al lavoro ma che non fanno nulla né per trovare alternative né per far sì che le cose cambino. Così come non giustifico i residenti che lavorano in città ma che scelgono comunque l'automobile per muoversi.
In questo modo si entra in un circolo vizioso; tutte le persone usano l'automobile e non si sente l'esigenza di creare nuove infrastrutture per permettergli di muoversi diversamente. E parlo sia di nuovo mezzi pubblici sia di piste ciclabili sicure per muoversi in bicicletta (veicolo snobbato da molti, ma ho già parlato in questo articolo dell'efficienza della bicicletta in un raggio di 20 km).
In questo caso però non voglio prendere in considerazione la situazione dei paesi di provincia, ma voglio concentrarmi soltanto sulla città di Milano, per parlarvi della città senza automobili che oggi ho potuto vedere e vivere, partendo da qui per allargare la prospettiva.
Difatti, mi sono bastate soltanto poche ore in bicicletta in giro per le strade deserte per rendermi conto di tutti gli aspetti positivi di una città in cui si vieta la circolazione di veicoli a motore (eccezion fatta per taxi e mezzi pubblici).


Blocco auto a Milano
Punto primo: Meno smog. E' l'aspetto più importante, che ha a che fare con la nostra salute. E' vero, tre giorni di blocco delle auto non servono di certo ad abbassare il livello delle polveri sottili e a migliorare la situazione; ma una settimana, un mese, uno , dieci, vent'anni di blocco delle auto nelle grandi città? Pensate al traffico urbano, ai centinaia di tubi di scappamento che quotidianamente immettono nell'atmosfera polveri sottili per trecentosessantacinque giorni l'anno; tre giorni non fanno la differenza, ed è per questo che bisogna pensare a provvedimenti a lungo termine e non limitarsi a mettere pezze quando l'inquinamento atmosferico raggiunge livelli drastici.
Inoltre, liberare le strade permetterebbe di ampliare gli spazi verdi a disposizione dei cittadini, altro fattore molto importante per migliorare la qualità dell'aria.

Blocco auto a Milano
Punto secondo: Maggiore efficienza dei mezzi pubblici di superficie.
Molte persone usano l'automobile perché ritengono i mezzi pubblici inaffidabili, soprattutto sotto l'aspetto della puntualità. Ma parlando soltanto dei mezzi pubblici di superficie presenti in città, autobus, filobus e tram, si può notare come una delle cause principale dei ritardi sia proprio il traffico causato da chi sceglie di muoversi in automobile. Se non ci fosse il traffico urbano i mezzi di pubblici non correrebbero più il rischio di rimanere imbottigliati e sarebbero molto più veloci ed efficienti. Inoltre, a fronte di un maggiore utilizzo da parte dei cittadini aumenterebbero i fondi da investire in queste reti di trasporto.



Blocco auto a Milano
Punto terzo: Maggiore efficienza della mobilità in bicicletta.
In tanti considerano la bici un semplice veicolo di intrattenimento, con il quale fare la scampagnata domenicale in primavera. In pochi sanno che c'è un traffico silenzioso di ciclisti che si muovono in bici in città per studio e per lavoro. Io lo chiamo "traffico parallelo" e lo vedo ogni volta che mi muovo in città sulle due ruote a pedali. Anche questo tipo di traffico è soggetto a "ingorghi" causati, guarda caso, dal traffico automobilistico. Difatti, in assenza di piste ciclabili noi ciclisti siamo costretti a muoverci in strada, e in quelle vie dove il traffico è denso, così come il numero di macchine parcheggiate, si creano degli ingorghi causati dal poco spazio a nostra disposizione. A meno che non siamo intenzionati a fare strage di specchietti, o se non vogliamo finire schiacciati tra un'automobile in movimento e una parcheggiata, siamo costretti a rallentare di fronte a queste situazioni "a imbuto".
Inutile dire che senza il traffico urbano la viabilità in bici è decisamente maggiore; oggi stesso ho avuto la possibilità di constatarlo con una rilevazione empirica. Cologno Monzese - Milano Centro, circa 14 km che mediamente percorro in 45/50 minuti; senza automobili ne ho impiegati 30 e mi sono potuto muovere liberamente per tutta la città, provando una sensazione di libertà indescrivibile.


Blocco auto a Milano
Punto quarto: Maggiore sicurezza.
Bandire la circolazione delle auto nei grandi centri urbani significherebbe maggiore sicurezza per i pedoni, per i ciclisti e per gli automobilisti stessi. Milano, per fortuna, è una delle città italiane con il minor numero di incidenti stradali, ma è chiaro che questi numeri del 2013 e del 2014 presentati dall'Istat calerebbero drasticamente. Inoltre, se Milano è un'eccellenza, non si può dire lo stesso di molte altre città italiane, dato che nell'ultimo anno si è visto un incremento del 5,4% delle vittime di incidenti stradali nelle metropoli (fonte).


Blocco auto a Milano
Punto quinto: Meno stress.
Il traffico, il trambusto dei clacson e dei tubi di scappamento, gli incidenti evitati per un soffio, i parcheggi introvabili, le manovre sporche degli automobilisti poco prudenti, sono tutti elementi che contribuiscono a stressare sia i guidatori sia ciclisti e pedoni.
Potrebbe sembrare un elemento da poco, ma lo stress è un fattore che incide molto sulla nostra salute psicofisica
Come ho accennato a inizio articolo, la Milano senza automobili che ho potuto vivere oggi era una Milano completamente diversa; il silenzio, la quiete quasi assoluta che si respirava per le strade infondeva un senso di tranquillità e benessere che raramente si riesce a vivere tra il caotico traffico quotidiano.


Blocco auto a Milano
Punto sesto: Conoscenza più approfondita della città e aumento dei consumi.
Da quando mi muovo a Milano con i mezzi pubblici, ma soprattutto in bicicletta, ho sviluppato un rapporto più stretto con la città. Un rapporto diretto, che non potrebbe mai svilupparsi da dietro i muri di vetro dell'automobile. Un conto è doversi muovere in città guidando ed essendo costretti a mantenere una concentrazione costante sulla strada, un altro conto è avere la possibilità di osservare il paesaggio intorno a noi dal finestrino di un mezzo pubblico o, ancora meglio, dal sellino di una bicicletta. Pedalando per le vie di Milano ho imparato a conoscere questa città magnifica, ho scoperto angoli nascosti e musei di cui ignoravo l'esistenza, ma soprattutto nuovi negozi, diversi dalle solite grandi catene del centro. Sì, perché questo è un altro grande mito da sfatare: "con il blocco delle auto si riducono i consumi". E' una gran baggianata, basta fare ricorso all'esperienza personale per rendersene conto. Se si prende l'automobile si passa davanti a una serie di negozi che non degniamo nemmeno di uno sguardo. Inoltre, quando si guida in città difficilmente ci si ferma appositamente per visitare un negozio, a meno che quella non fosse già la destinazione di partenza, al contrario di quello che avviene quando ci si muove a piedi o in bicicletta, senza il problema di dover trovare un introvabile parcheggio vicino.


Blocco auto a Milano
Punto settimo: La bellezza.
Se avete guardato con attenzione gli scatti che accompagnavano i punti elencati in precedenza vi sarete accorti di un particolare non da poco: una città senza auto per le strade è dannatamente bella.
Il fattore estetico potrebbe sembrare secondario, ma non lo è affatto. 
L'Italia è uno dei paesi più belli del mondo; siamo la patria dell'arte e della bellezza, ma facciamo di tutto per non valorizzarla. Il traffico urbano è esteticamente orribile, oltre a essere un elemento di disturbo, e non permette alle persone di godersi il vero volto della città, e spesso lo sfregia con l'inquinamento (basti pensare al colore grigiastro del Duomo prima che venisse restaurato). La bellezza estetica di una città senza traffico sarebbe inoltre un richiamo irresistibile per i turisti, nonché un elemento che incrementerebbe il grado di benessere degli abitanti.

Questi sono i principali aspetti positivi del proibire la circolazione delle auto nei grandi centri urbani.
Potrebbero venire in mente una serie di problematiche, soprattutto per i residenti proprietari di un'automobile, che si troverebbero impossibilitati a usarla. A fronte di ciò si dovrebbero porre delle limitazioni al blocco delle auto, permettendo l'utilizzo soltanto ai residenti, ma credo che proprio loro dovrebbero essere i primi ad adottare un diversa mobilità, approfittando dei mezzi pubblici disponibili e delle biciclette. 
Una città senza automobili potrebbe sembrare un'utopia, ma non è così. E' un'idea concreta, realizzabile e necessaria per ridurre la drastica situazione dell'inquinamento ambientale. Solo alle persone troppo pigre per cambiare il proprio stile di vita tutto questo può sembrare irrealizzabile; ma, come ho già scritto in un altro articolo, la pigrizia sta lentamente uccidendo il pianeta, e noi con lui.

Daniele Palmieri

lunedì 21 dicembre 2015

Cattolicesimo in Italia ovvero: la religione del luogo comune


C'è un motivo per cui il Cattolicesimo è la religione più diffusa in Italia, al di là delle diverse peripezie storiche.
Il Cattolicesimo (nella sua declinazione volgare, s'intende) è la religione adottata dagli italiani perché non richiede alcuno sforzo, né intellettuale né spirituale né fisico. Non a caso, chiedendo a quell'86% di cattolici che vivono in italia se credono, la maggior parte delle volte si sentirà dire: "sì, ma non pratico" oppure "sì, ma a modo mio":
Perché questo è il Cattolicesimo in Italia: la religione del luogo comune e del lavaggio della coscienza.
Mentre l'Islam, l'Ebraismo, il Buddhismo e l'Induismo prescrivono determinati stili di vita e di culto, con regole e privazioni da seguire (e che, generalmente, vengono seguite con severità dai fedeli) il Cattolicesimo, benché dotato di un proprio catechismo, lungi dall'applicarlo concretamente lo lascia in balia della casistica. La messa domenicale è frequentata giusto da qualche anziano fedele, in chiesa ci si reca solo per chiedere al Signore un guadagno personale, per il resto della giornata ci si comporta come comanda il proprio istinto, salvo poi lavarsi la coscienza con la confessione - tre ave maria, quattro pater noster ed è tutto a posto. Il Nuovo Testamento, in teoria il Testo Sacro da conoscere alla lettera, è un mero ornamento sul comodino, con la copertina ricoperta dalla polvere e le pagine ancora nuove (e non aggiungo anche il Vecchio, altrimenti la mole del libro paventata sarebbe troppo spaventosa).
Le restanti cerimonie sacre e festività sono soltanto macchiette ormai perpetrate per abitudine o perché conquistate dallo sfrenato consumismo; battesimo, catechismo, cresima, matrimonio in chiesa, passaggi di vita fossilizzati dalla tradizione, a tal punto che pochi cattolici ne conosco il reale significato, ma li perpetrano o per non deludere la famiglia o per appioppare a qualcuno i propri figli al pomeriggio (nel caso del catechismo).
Per non parlare delle festività come il Natale e la Pasqua, ridotte a mere campagne consumistiche per vendere regali, uova di pasqua e lasciare la mancetta alla chiesa o al parroco che deambula per il paese benedicendo casa per casa.
Per il resto della sua vita quotidiana, il Cattolico si comporta esattamente da "persona comune", spesso infrangendo l'unico comandamento dato da Cristo, "ama il prossimo tuo come te stesso", e ridimensionandolo in base alle proprie esigenze, ossia amando soltanto il prossimo che sente proprio simile. 
Difatti, soltanto in alcune occasioni lo spirito del cattolico medio si risveglia, quasi il "fedele" si ricordasse all'improvviso della propria confessione religiosa. Solitamente quando deve difendere il presepe, i canti di natale e il crocifisso nelle scuole, quando deve combattere per l'Italia contro "l'invasione" degli stranieri e quando vuole proibire agli omosessuali di sposarsi e avere una famiglia, tutto in nome di una "Cultura" che nemmeno conosce.
Guarda caso, tutte occasioni in cui vuole far prevaricare la propria morale del luogo comune sulla vita altrui.

Daniele Palmieri

giovedì 17 dicembre 2015

Ripensare la mobilità

Pigrizia e mobilità: come la comodità sta distruggendo il pianeta


Ha fatto molto discutere in questi giorni il blocco del traffico a Milano (ormai revocato) e quello a Roma, ancora attivo.
Premetto che sono consapevole che un semplice blocco del traffico non serva a nulla per migliorare la situazione ambientale; non è fermando la circolazione per due/tre giorni che si risolve il problema dello smog, la cui cappa si crea in mesi e mesi di continui inquinamento.
Tuttavia, credo che misure come queste debbano servire per meditare sugli effetti della nostra mobilità, che da 50/60 anni a questa parte sta avendo effetti devastanti sulla salute del pianeta.
Si è concluso poco tempo fa il vertice sul clima di Parigi, che rispetto al altre facezie di cui si discute quotidianamente è passato in sordina, nonostante da quel vertice dipenderanno le sorti dell'intera umanità (e non è mero catastrofismo, è un dato scientifico; per chi voglia approfondire, consiglio questo articolo); ciò la dice lunga sul menefreghismo comune in merito a una questione d'importanza vitale.
Se pensiamo soltanto al nostro piccolo, i dati sono davvero disastrosi; l'Italia è al primo posto tra i paesi UE per le morti premature a causa dell'inquinamento ambientale (vedere qui). Lo smog a Milano è da 25 giorni superiore ai limite di legge (qui) e, in tutto ciò, le persone ancora se ne fregano di tutto e continuano a lamentarsi pensando ai piccoli problemi del presente senza meditare ai grandi problemi che arriveranno in futuro, se non ci decideremo a cambiare atteggiamento (a dirla tutta, problemi che già ora ci stanno colpendo, basti rileggersi i dati citati in precedenza e il riscaldamento globale che ormai è una terribile realtà).
A fronte di tutto ciò, credo che sia necessario ripensare la mobilità. Le proposte che muovo sono inevitabilmente riguardanti la città di Milano, quella in cui mi sposto quasi quotidianamente e quella che "vivo" da studente e lavoratore.
Per chi abita in città e dintorni, andare a studiare o lavorare a Milano in macchina altro non è se non una questione di pigrizia.
Tutto sommato, la rete di trasporti pubblici è ramificata ed efficiente, sia quella sotterranea sia quella stradale, rete che riesce a collegare tutti i punti della città.
Ma per come vorrei ripensare il concetto di mobilità, la mia proposta è ancora più radicale: la bicicletta. Usare i mezzi pubblici è sempre preferibile rispetto all'usare la propria automobile, ma è pur sempre un rimandare il problema; l'energia che usano è pur sempre derivata da combustibili fossili. La bicicletta, ad ora, è il mezzo di trasporto più efficienti in termine di mobilità ed emissioni.
Con un allenamento discreto (e non certo professionistico) è possibile raggiungere distanze elevate in un buon margine di tempo, senza alcuna emissione dannosa.
Non parlo per partito preso ma per esperienza personale; abito a Cologno Monzese ma studio e lavoro (part time) a Milano; tra il mio paese e il centro ci sono circa 15 km, che copro esattamente in 45/50 minuti di tempo. Se sommo i dieci minuti a piedi per arrivare al capolinea di Cologno Nord, i dieci minuti di tempo per arrivare dalla fermata di Duomo alla Statale in Festa del perdono ai 30 minuti di percorso metropolitano, andare in bici e andare in metropolitana richiede esattamente lo stesso tempo. Oltre a non inquinare, risparmio sul biglietto della metro e, una volta in città, ho una mobilità assoluta, svincolata dai mezzi pubblici.
Oltre all'aspetto ambientale, c'è anche quello personale; il lavoro aerobico (come quello che permette di svolgere una buon biciclettata) permette la prevenzione di malattie cardiovascolari (qui) ed è essenziale per mantenersi in forma.
Quando gli si paventa la possibilità di andare al lavoro in bicicletta, spesso le persone si lamentano dicendo che non hanno tempo da perdere per muoversi in questo modo. In realtà, come detto in precedenza, in un raggio di 15/20 km, a una velocità media di 20 km/h, il discrimine tra il muoversi in bicicletta e in automobile/mezzo pubblico non è molto elevato. Inoltre, l'aspetto ancor più paradossale è che queste stesse persone, la sera, si fanno altri 10 minuti di macchina per chiudersi per un'ora in una palestra (pagando quindi altra benzina e un altro abbonamento) per fare... la cyclette! Andando in bicicletta si risparmia quell'ora di tempo che si dedicherebbe, al rientro dal lavoro, alla palestra, poiché l'andare al lavoro diventa così un'ottima opportunità per mantenersi in forma (senza mettere mano al portafoglio).
E' chiaro che per muoversi in bicicletta occorre un requisito essenziale: le piste ciclabili. Purtroppo in Italia sono male ramificate; per fortuna, per quanto riguarda Cologno e le zone limitrofe, c'è una rete di piste ciclabili ben ramificata, ma so che non è così in molte altre zone d'Italia.
Se la strada da percorrere non è eccessivamente pericolosa, la bicicletta resta comunque un ottimo mezzo; se le piste ciclabili sono invece assenti, limitarsi a prendere la macchina senza dire nulla significa non avere la volontà di cambiare le cose. Se non ci sono piste ciclabili significa che la popolazione non ha interesse a far sì che vengano costruite, e finché (in massa) non ci si lamenterà dell'assenza, le cose resteranno come sono.
Finisco le mie brevi considerazioni spendendo un ultimo elogio della bicicletta; anche in inverno, se non piove o non nevica, nonostante il freddo, preferisco pedalare che chiudermi nei sotterranei della metropolitana. All'arrivo (o al rientro) mi sento molto più felice, più in forma e meno frustrato dallo stress derivante dal caos dei mezzi pubblici. Pedalare richiede una certa fatica, quello è indubitabile; ma credo che la nostra società sta collassando sotto il peso della pigrizia. Facciamo sempre in modo di evitare ogni sforzo, cerchiamo prima di ogni cosa la comodità. Ma la comodità dei sedili delle automobili finirà per ucciderci; distruggerà prima l'ambiente in cui viviamo e poi noi, troppo pigri per cambiare le cose.

Daniele Palmieri

p.s.

Nella foto, la mia amata/odiata (quando foro o si scassa) bicicletta.

giovedì 3 dicembre 2015

Il suffragio universale sta fallendo?

Cerco in tutti modi di convincermi della validità del suffragio universale; "è giusto che tutti abbiano il diritto di votare", "non si può negare a una persona una libertà fondamentale come quella di esprimere la propria decisione politica" et similia.
Eppure... Facebook ti pone tutti i giorni di fronte alla cruda realtà. Persone che condividono notizie senza alcuna fonte dandole per vere soltanto perché sono state condivise da altri, persone che appagano le proprie frustrazioni represse di fronte a ulteriori notizie false di matrice razzista invocando genocidi di particolari etnie, persone che credono ciecamente a ogni boiata che leggono su Facebook soltanto perché l'hanno letta su Facebook, persone che sentono il dovere di dire la propria in merito ad argomenti che non hanno mai studiato e sui quali non hanno mai riflettuto, persone con la mente a tenuta stagna chiusa a ogni novità e a ogni tipo di dialogo costruttivo, persone che come un branco di pecore sentono il bisogno di omologarsi ad ogni costo, persone che "‪#‎jesuischarlie‬" o "‪#‎jesuisparis‬" ma che sono le prime a insultare/censurare/odiare chi non si comporta o non la pensa come loro, persone che nel giorno della memoria condividono i post lacrimosi su Auschwitz ma che se ne fregano dei genocidi e dei crimini contro l'umanità attualmente in corso.
Oggettivamente, come può questa massa di persone che infesta i social network avere la preparazione culturale necessaria per esprimere un voto consapevole? Perché questo è il discrimine principale: avere la consapevolezza di ciò che si sta facendo. Una persona che vota un politico fidandosi di ogni cosa che dice, senza verificare la veridicità e l'attendibilità delle sue parole, non sta adottando un comportamento razionale ma sta seguendo la propria pancia. E questo voto "incosciente" non è una cosa da nulla, non è la semplice condivisione di un post di Facebook: il voto di una, due, tre, 10, 100, 1000 persone che (s)ragionano in questo modo si riflette poi sulla collettività, sul futuro di un'intera nazione. Sono mine vaganti che nella loro semi-incapacità di intendere ma nella loro fin troppo sviluppata capacità di volere condannano altre persone a soffrire.
Votare è un atto delicato, come un'operazione chirurgica, non può essere lasciato al caso e al luogo comune senza pericolose conseguenze.
D'altro canto, non c'è (e non ci può essere) un discrimine oggettivo per privare delle persone del voto senza cadere nella dittatura o nell'oligarchia. Ma i problemi elencati in precedenza ci sono e non sono problemi di poco conto.

Trovare una soluzione alla questione non è semplice, poiché spesso sono le stesse persone "intelligenti" che usano le loro doti più per trarre profitto per se stesse piuttosto che per aiutare gli altri.
Credo sia fondamentale, per arginare il problema, introdurre un'adeguata preparazione civica nelle scuole, per insegnare non solo i fondamenti del funzionamento dello stato e l'importanza del voto, ma anche per diffondere la cultura dell'analisi approfondita delle fonti. Difatti, non è accettabile che un ragazzo diciottenne voti per la prima volta senza sapere: 1) quali sono gli organi dello stato e come operano; 2) come si discerne una notizia vera da una falsa.
Questi sono due pilastri imprescindibili che se vacillano compromettono l'intera struttura di una democrazia, trasformando il voto popolare in una lotteria dove vince il candidato più fortunato.

Daniele Palmieri

mercoledì 2 dicembre 2015

Moschee e libertà di culto


Le persone che sono contro la costruzione delle moschee perché equiparano l'Islam al terrorismo non hanno chiari due semplici concetti:

1) In Italia c'è libertà di culto; ciò significa che i grandi gruppi religiosi devono avere un luogo "istituzionale" di ritrovo per poter praticare la propria religione in libertà.
2) Impedire la costruzione di moschee significa costringere le persone ad aggregarsi nelle molto diffuse "moschee abusive", luoghi di aggregazione e di culto impro...vvisati (spesso in case private e nelle periferie) che, volendo vedere, sono molto più difficili da controllare e monitorare per evitare l'insorgere di sottogruppi fanatici.


Di conseguenza, non solo impedire la costruzione di Moschee è un vincolo alla libertà altrui, ma è controproducente per fermare il fanatismo religioso. Anzi, crea il terreno fertile per farlo nascere.
 
Daniele Palmieri

sabato 21 novembre 2015

L'arte di tacere (le regole d'oro dell'abate Dinouart)

Nell'epoca dei social network e dell'opinione facile, non v'è nulla di più bistrattato della Parola ed è andata perduta la nobile arte del tacere.
Tutti sentono il bisogno di dire il proprio punto di vista; legittimo, sia mai. Ma non bisogna forse aver studiato a fondo un argomento per poter esprimere qualcosa a riguardo? 
Nel tentativo di recuperare la nobile arte del tacere, riporto in seguito le regole d'oro del silenzio dell'abate Dinouart:

1) Bisogna parlare solo quando si ha qualcosa da dire che valga più del silenzio.
2) C'è un momento per tacere e un momento per parlare.
3) Il momento di tacere ha la precedenza; si potrà essere capaci di parlare correttamente solo quando si sarà imparato a tacere.
4) Tacere quando si è obbligati a parlare è indice di debolezza o imprudenza, ma non si mostra minor leggerezza a parlare quando si deve tacere.
5) In linea di massima, è certamente meno rischioso tacere che parlare.
6) Mai l'uomo possiede se stesso come nel silenzio: al di fuori di questo stato, egli sembra dissolversi attraverso le parole. Così appartiene meno a se che agli altri.
7) Quando si deve dire una cosa importante occorre prestare attenzione: è opportuno dirla prima a se stessi e, dopo questa precauzione, ripetersela per non doversi pentire in seguito quando non si sarà più in grado di impedire che ciò che è stato detto si diffonda.
8) Quando bisogna mantenere un segreto non si tace mai abbastanza.
9) Il riserbo necessario per mantenere il silenzio nelle circostanze ordinarie della vita non è una virtù minore della capacità e dell'impegno necessari per parlare bene. Non c'è maggior merito nello spiegare ciò che si sa piuttosto che nel tacere ciò che si ignora. Il silenzio del saggio talvolta ha maggior valore delle argomentazioni del filosofo. Il silenzio del primo è una lezione per gli arroganti e una punizione per i colpevoli.
10) Il silenzio sostituisce la saggezza in un uomo limitato e la competenza in uno ignorante.
11) Per natura si è portati a credere che chi parla poco non è un genio e chi parla troppo uno sventato o un pazzo. E' preferibile non apparire un genio di primordine piuttosto che passare per pazzo (e togliere ogni dubbio, aggiungerei n.d.r.)
12) E' peculiare per l'uomo coraggioso parlare poco e compiere grandi imprese. E' peculiare per l'uomo di buon senso parlare poco e dire sempre cose ragionevoli.
13) Quand'anche si abbia una predisposizione al silenzio è opportuno diffidare sempre di se stessi; quando si prova il forte desiderio di dire una cosa, è spesso un motivo sufficiente per decidere di non farlo.
14) Il silenzio è necessario in molte occasioni, ma bisogna sempre essere sinceri; si possono tenere per sé alcuni pensieri, ma non bisogna mai mascherarne nessuno. Ci sono modi di tacere senza chiudere il proprio cuore, di essere discreti senza sembrare cupi e taciturni, di nascondere certe verità senza dissimularle con la menzogna.

Io ho in mente molti personaggi (pubblici e non) a cui sarebbe utile uno studio di questi principi, e voi?

Daniele Palmieri

giovedì 19 novembre 2015

Le religioni incitano all'odio?


Da molti anni a questa parte mi ritengo ateo. O, meglio, come preferisco definirmi: diversamente religioso.
Trovo che la parola "ateo" di per sé non abbia molto senso. Non è una definizione; è un termine nato con accezioni dispregiative che significa "senza Dio". Definirsi tramite una non-definizione non mi sembra una cosa sensata.
Non credo in un Dio creatore dalle fattezze antropomorfe che si diverte a dettare le regole del paradiso e dell'inferno, dimenticandosi del mondo in carne e ossa.
Tuttavia, non rientro in quella categoria di "atei integralisti" alla Richard Dawkins che ritengono le religioni il male del mondo e che si divertono a estrarre passi violenti qua e là dai testi sacri per dimostrare la propria superiorità nei confronti dei credenti.
Al contrario, nutro una forte tensione spirituale nei confronti dei testi sacri, di ogni religione. Mi sono avvicinato a Cristianesimo, Ebraismo, Islam, Induismo, Taoismo, Buddhismo e Shintoismo (anche se le ultime richiederebbero un discorso a parte), leggendo i principali testi canonici e, nei limiti delle pubblicazioni presenti in Italia, i principali esegeti degli stessi.
Ritenere una qualsiasi religione come la causa dell'odio nel mondo rivela un fraintendimento del vero significato della religione e una cecità nei confronti della natura della psiche umana.
Odio e violenza esistono non a causa delle religioni; odio e violenza esistono perché esiste l'uomo. La loro comparsa è antecedente alla nascita delle religioni. La religione nasce, tra i molti altri motivi, proprio per arginare la violenza e migliorare l'uomo.
Tuttavia, così come l'energia atomica è diventata in poco tempo, nelle mani degli esseri umani, uno strumento di distruzione, il vero spirito della religione viene contaminato dall'odio che l'uomo si porta dentro, trasformando una via di ascesi spirituale in uno strumento di oppressione, violenza e fanatismo.
Dall'Antico testamento al Nuovo Testamento, dalla Bhagavadgita al Corano è possibile trovare atrocità di ogni tipo. Come accennavo in precedenza, chi discredita le religione tende a universalizzare tali passaggi e a renderli esemplificativi dell'intera morale religiosa in questione. Ma non è così.
Comparando i testi sopracitati è possibile constatare come le prescrizioni di vita pratica dettate dal Deuteronomio piuttosto che dalle Lettere di San Paolo, dalle Sure di Maometto o dai versi della Bhagavadgita non possono fare a meno di rispecchiare aspetti contingenti dettati dalla situazione storica del momento.
E' sbagliato rendere propria dell'intero Cristianesimo l'esortazione di San Paolo alle donne affinché siano sottomesse ai mariti; in tutte le culture del passato la donna si è sempre trovata in una condizione di disparità. La frase di San Paolo non rispecchia né più né meno che un antiquato pregiudizio antropologico.
Nel Corano così come nell'Antico Testamento si ritrovano innumerevoli descrizioni di guerre contro gli infedeli, di linciaggi, di odio verso il diverso. Come nel caso di San Paolo, queste descrizioni riflettono soltanto quella che è la natura umana, naturalmente portata a discriminare i membri dell'out-group, le persone che non avvertiamo simili a noi e che fanno parte di gruppi etnici o religiosi differenti. E, sottolineo, riflettono la natura umana, non la natura dell'esperienza religiosa.
E' per questo motivo che i testi sacri richiedono un attento lavoro di esegesi, per epurare il percorso spirituale e la morale tramandati dagli aspetti contingenti, orme inevitabili lasciate dal contesto storico in cui i testi sono stati scritti, ombre proiettate dal lato oscuro dell'anima umana.
Chi si limita al significato letterale di certi passaggi per screditare un intero libro non applica un modo di pensare diverso dai fanatici religiosi che, appunto, si limitano a interpretare letteralmente ogni verso per poi passare all'azione.
Messo da parte questo tipo di pregiudizio, non si può rimanere insensibili di fronte ai versi del Qoelet o di fronte all'elogio dell'amore Erotico e Spirituale del Cantico dei Cantaci; è impossibile non rimanere affascinati dalle narrazioni mitiche presenti nelle Sure del Corano e nell'Antico Testamento, senza cogliere da esse alcun insegnamento spirituale proficuo; non si può lasciare immutati i propri paradigmi di pensiero dopo aver letto i paradossi Taoisti o della mistica Sufi.
Effettuato, tramite un'adeguata esegesi, tale labur limae e raggiunto il nocciolo spirituale dei diversi insegnamenti religiosi, è impossibile non accorgersi del filo d'oro che lega tutte le professioni; un messaggio di pace, fratellanza e amore universale che circonda tutto il pianeta. L'idea di un ordine morale del cosmo che ci lega indissolubilmente al nostro prossimo, la consapevolezza che facendo del male all'altro stiamo, innanzitutto, facendo del male a noi stessi.

Daniele Palmieri

lunedì 2 novembre 2015

L'editoria di qualità: intervista ad Andrea Fagiolari




Spesso mi lamento dello stato dell'editoria in Italia. La cosa che più mi fa rodere il fegato è la mercificazione del libro, ormai ridotto a una merce tra le merci. Complice, in questo processo di reificazione della cultura, è l'editoria stessa, interessata da anni a questa parte principalmente all'aspetto economico.
Non mi riferisco soltanto ai contenuti discutibili dei principali testi pubblicati, ma anche all'estetica stessa dell'oggetto-libro, sempre più ridotto alle logiche dei cartelloni pubblicitari pur di attirare clienti.

Ed è per questo che subito mi è saltata all'occhio una nuova realtà milanese: Fagiolari Bottega Editrice
I titoli proposti e la curata presentazione degli stessi mi hanno fatto ritornare alla vecchia editoria, quella di qualità, nella quale contenuto e presentazione estetica del libro formano un tutt'uno indissolubile, indice della qualità del prodotto culturale.
Vorrei dunque presentarvi, per una volta, un esempio positivo di editoria. Una realtà appena nata ma con molti progetti e molte potenzialità.
E vorrei presentarvi tale realtà attraverso le parole stesse del fondatore della Casa Editrice, Andrea Fagiolari:



1)      Iniziamo dal nome della casa editrice: Fagiolari Bottega Editrice. Il termine “Bottega” è molto importante; richiama alla memoria i piccoli negozi artigianali, quelli a conduzione domestica portati avanti, appunto, da artigiani appassionati dal loro lavoro, ben lontani dagli operai alienati dalle catene di montaggio o dai semplici negozi che vendono merci prodotte in serie. In che senso, dunque, una casa editrice può essere una “Bottega”?

L’ho chiamata Bottega per due motivi. Il primo: qui si lavora come nelle antiche case editrici milanesi. Il modello è il piccolo studio di Leo Longanesi anni ’40-’50: nessun editor, nessun consulente marketing, nessun’altra figura professionale moderna. La mia squadra è composta solo da due grafici e, nel futuro prossimo, dagli scrittori che ne entreranno a far parte. Il secondo riguarda proprio la selezione degli scrittori: qui, non vengono a farmi visita coi manoscritti sotto braccio. Chiedo loro, invece, di farmi leggere un racconto; se penso che la penna sia valida, allora progetto insieme all’autore cosa fargli scrivere, e seguo passo passo la nascita della sua opera. Quello che voglio, è far crescere degli artigiani della penna. In un libro il sapore del fatto in casa è, per me, discriminante tanto quanto per il cibo.

2) Come e quando è nata l’idea di fondare una nuova casa editrice? Quali scopi si prefigge?

Ci lavoro da un paio d’anni, e la mia impressione non è cambiata da allora. Le cause del calo dei lettori, in Italia, sono molte e molto diverse tra loro. Le conosciamo tutti: dalle abitudini familiari al rapporto sempre più difficile tra case editrici, distributori e librai, scopriamo di essere tutti in parte responsabili. E però, se per esempio i lettori tedeschi rappresentano circa l’80% della popolazione, mentre da noi la percentuale scende di anno in anno sotto la soglia del 40, ci dev’essere qualcosa, alla base, che non funziona. E alla base di questa realtà, purtroppo, ci sono gli scrittori e gli editori. Per questo ho deciso di provare, almeno, a far qualcosa di diverso. Qualcosa che riesca a rendere più intimo e forte il rapporto con i lettori.

3) Il fiore all’occhiello della Bottega è senz’altro la collana dei piccoli, grandi classici. 42 opere in formato tascabile e a un prezzo molto economico. Come è nata questa idea?

Da una parte, dovevo costruire la Bottega con gli scrittori; ma, dall’altra, era necessario stringere amicizia con lettori nuovi e giovani. I libricini della Piccola Biblioteca son pensati per gli studenti. Non in termini esclusivi, anzi: molti ordini, fino a questo momento, sono venuti da lettori adulti e anche da lettori forti, che trovano nel catalogo anche una piccola perla come Costantinopoli, di De Amicis, in versione integrale. Tuttavia, la collana nasce per dare la possibilità agli studenti di leggere i grandi classici in un modo nuovo, e soprattutto più accessibile. Il formato A6 ricorda la prima edizione della collana BUR; il peso è quasi impercettibile; ogni opera è ridotta all’osso, così come ce l’hanno lasciata i poeti e i romanzieri, senza apparati critici, senza note, senza presentazioni; non c’è una sola pagina bianca. Il risultato finale, credo sia questo: è più facile avvicinarsi a un Boccaccio, a un Verri, a un Nievo. Perché non fanno paura.

4) Da Leopardi a Marinetti, da Collodi ad Aretino, da Vasari a Salgari. In tutto, una quarantina di autori che hanno fatto la storia della letteratura italiana. Nella vastissima produzione nostrana, cosa l’ha portata a scegliere quegli autori e quei testi?

Ho cercato di inserire da subito, nel catalogo, sia i grandi classici che si studiano a scuola, e sia i piccoli classici che invece sono più trascurati. L’obiettivo, in ogni caso, è di poter offrire a tutti, tra qualche anno, un panorama sempre più ampio e completo della letteratura italiana. Già nel 2016 prevedo di stampare altri venti titoli.

5) In un mondo editoriale interessato soltanto alla mera mercificazione del prodotto-libro, ormai ridotto a una merce di consumo tra le altre, trovo fondamentale ritornare ai classici per riscoprire l’importanza della Letteratura con la L maiuscola. In tutto ciò, credo sia molto importante anche il modo in cui si torna ai classici. Ad esempio, la Sperling ha ripubblicato da qualche mese autori come Tolstoj, Austen, Bronte in una nuova collana targata con il marchio “After” (ennesima fan fiction sbarcata nel mondo dell’editoria). Una mossa editoriale che mi ha fatto accapponare la pelle. Ciò che subito mi ha colpito, invece, della collana dei piccoli classici della Bottega è lo stile essenziale e minimal delle pubblicazioni. Fatto questo lungo preambolo, la mia domanda è: quanto è importante la cura materiale del libro per tornare a un’editoria che non sia basata soltanto sull’immagine e sull’apparenza?

Secondo me è importantissima; non in contrapposizione, ma in virtù del culto dell’immagine. Il problema è tutto estetico. E la risposta la troviamo nella storia del design: quella che bisogna raggiungere, è la coerenza formale con il contenuto. Solo in questo modo si è riconoscibili. In libreria, invece, mi pare che assistiamo a una gara di copertine appariscenti. Le carte e le rilegature scelte non sono quasi mai funzionali allo scopo. Spesso fatico a riconoscere le collane di case editrici anche molto diverse tra loro. Non è un bel segnale. Io ho cercato di rispondere ai criteri di essenzialità e prezzi bassissimi. Credo che i grafici, Luca Fontana e Sara Ubaldini, abbiano fatto un bellissimo lavoro. Lo studio dei colori, uno per ciascun titolo, la scelta di un’impaginazione austera e senza fronzoli, le carte leggere: mi sembra che ogni componente risponda al principio di coerenza formale con il contenuto. Poi, lasciami dire che su questo tema l’ultima parola spetta ai lettori.

6) A questo riguardo, quali sono i propositi della casa editrice per il futuro, soprattutto nei riguardi del tema più spinoso dell’editoria, quello degli autori esordienti?


In parte ti ho già risposto più sopra. In questo momento, sto selezionando gli autori che lavoreranno per il progetto della Bottega Editrice. Sarà qualcosa di assolutamente inedito, che si svilupperà online. Non posso però dire altro: manca ancora qualche mese al lancio, e siamo in fase di costruzione. Di sicuro, ci sarà molto da leggere: saggi, romanzi, libri per bambini, ritratti, racconti. Spero di riuscire a dare spazio anche alla poesia. Ma, ecco, magari ne parleremo più avanti, quando sarà tutto pronto.

Daniele Palmieri

lunedì 5 ottobre 2015

Rcs Libri e Mondadori, ovvero: la morte dell'editoria italiana

L'acquisto di RCS libri da parte della Mondadori è l'ennesimo passo (forse il più lungo di tutti quelli fatti fino ad ora) verso il progressivo e inesorabile affossamento dell'editoria italiana.
40% del mercato editoriale in mano a un'azienda che negli ultimi anni ha fatto della mediocrità letteraria il suo cavallo di battaglia, che ha trasformato le sue librerie in un deposito-merci dove si trova di tutto e di più - elettronica, gadget vari, videogiochi, cellulari, cancelleria etc. - e dove i libri sono soltanto un prodotto tra gli altri.
E' la morte non soltanto della pluralità editoriale e delle pubblicazioni di qualità, ma soprattutto "dell'ecosistema libreria", ridotto ormai schiavo delle leggi del mercato e dove il suo organismo principale, ossia il libro, è diventato una merce di scambio il cui fine non è più produrre cultura ma soldi. 
L'unica soluzione è sostenere l'editoria indipendente, le librerie autonome o, al massimo, le grandi catene come il Libraccio, che conservano ancora la dignità della Libreria con la L maiuscola. 
La cosa più assurda è che si permetta una transizione simile ancora prima che l'Antitrust si pronunci in materia; non credo proprio che il gruppo Mondadori si tirerà indietro a malefatta avvenuta.

giovedì 24 settembre 2015

Seneca, la consapevolezza dei propri errori

Sto leggendo le Lettere morali a Lucilio di Seneca.
Ho sempre considerato Seneca un paraculo per i suoi rapporti con il potere, per la sua vita agiata a fronte dell'austerità che professava.
In parte condivido ancora questo giudizio, ma come egli stesso afferma, non si è mai considerato il saggio ideale che delineava nei suoi scritti, bensì soltanto un uomo che camminava sulla strada della saggezza sperando di raggiungerla.
Ed è questo che affiora dalle suo lettere; non solo il Seneca Filosofo ma, soprattutto, il Seneca Uomo, dilaniato dalla conoscenza della virtù e dalla consapevolezza dei suoi vizi.
Il suo stile è semplice, ornato con frasi e metafore a effetto, non sembra un professore che istruisce un allievo ma un padre che parla a un figli.
Un padre che nella sua vita ha sbagliato molto e che cerca di allontanare il figlio dai suoi stessi errori, per regalargli una vita migliore.


Daniele Palmieri

sabato 18 luglio 2015

La maledizione

A quanto pare, quando sono sul Naviglio a scrivere non sono io a ricercare le storie ma sono le storie a venire da me.
Dopo il breve aneddoto sul pazzo e la filosofia, un'altra storia origliata quest'oggi mi porta a scrivere queste poche righe.
Ero sempre allo stesso tavolo da pic-nic dell'altro giorno; deve avere qualche campo magnetico particolare quel posto.
Tuttavia, oggi nessun pensionato con la voglia di attaccar bottone.
Questa volta si tratta di un trio di ragazzotti, massimo 17 anni, due maschi e una femmina.
Rap italiano quasi a palla, cappellini, canotte. La discussione ronza da una parte all'altra finché, a un certo punto, si approda - chissà come - sulle terre del Califfato per parlare dell'ISIS.
Uno dei ragazzi, che di certo ne sapeva, dice che l'ISIS in realtà non è una minaccia che oh, sono stati respinti (non ho sentito bene da chi) e che in realtà è tutta una farsa, probabilmente non esiste neanche. Ed era uno che ne sapeva perché, oh, aveva letto queste cose su un sito internet.
Prende parola la ragazza, la voce narrante della nostra storia, e racconta di una loro conoscente siriana che porta il velo.
Giustamente, è siriana e loro la chiamano "Siria". Ebbene, questa Siria non la racconta giusta con quel velo, e infatti - racconta la ragazza - ogni volta che la vedono le urlano "Siriaaa" e poi qualche battuta su ISIS, terrorismo e giù di lì.
Ma Siria è così supponente da ignorarli e non far caso ai loro coraggiosi insulti; ogni volta non li guarda e passa avanti. Ogni volta, tranne una - continua a raccontare la ragazza.
Erano proprio sul Naviglio quando tutto è accaduto; Siria era per i fatti suoi, ovviamente con il velo, e ovviamente la ragazza e i suoi amici passandole davanti non hanno potuto non urlare "Siriaaa" e poi qualche battuta su ISIS, terrorismo e giù di lì.
Tuttavia, questa volta è accaduto qualcosa di diverso; Siria li ha guardati e - stando al racconto della ragazza - si è messa a cantare qualcosa in una lingua strana - probabilmente arabo, dice sempre la nostra voce narrante.
Al che, ha poi versato nel Naviglio dell'acqua contenuta nella sua bottiglietta da mezzo litro, come se stesse celebrando qualche rito strano. Anzi, sicuramente stava celebrando qualche rito strano, forse una maledizione - dice la nostra voce narrante - e in effetti l'accaduto le ha lasciato addosso una certa inquietudine.

Ora, non posso dire con certezza cosa stesse pensando la nostra Siria, tanto meno in che lingua abbia parlato e che cosa abbia detto.
Ma mi piace credere che la nostra Siria abbia pensato: "Cià, proviamo a urlare qualche parola senza senso - parole che non esistono nemmeno - e fare qualcosa di altrettanto insensato. Magari questi ignoranti si prendono paura e mi lasciano andare in giro tranquilla, senza che le altre persone abbiano paura che io possa esplodere da un momento all'altro."

Daniele Palmieri

domenica 12 luglio 2015

La filosofia con gli occhi di un pazzo

Qualche giorno fa ero sul Naviglio a scrivere, in zona Cernusco, in uno degli angoli verdi più belli della provincia milanese.
Come di consueto, mi siedo, da solo, a un tavolo da pic-nic libero in cerca di pace e silenzio, ma poco dopo vengo accerchiato da un gruppo di anziani attirati dal mio campo gravitazionale che si mettono a parlare del più e del meno (ma anche del per e del diviso). Solita routine.
In fin dei conti non mi dispiace; faccio sempre incontri piuttosto interessanti e, quando dopo mezz'oretta saluto con la scusa di dover tornare a casa - ma in realtà in cerca di un angolo davvero silenzioso - raramente le storie che ho sentito non mi lasciano qualche spunto di riflessione.
Non fa eccezione l'aneddoto che ho ascoltato questa settimana.
Il narratore era un anziano signore in pensione che aveva lavorato nell'ex manicomio di Cernusco, nell'epoca in cui centri di questo genere erano gestiti per lo più da suore col pugno di ferro e i malati venivano sedati non con siringhe o medicinali ma con bagni ghiacciati, cinghie e catene.

Ebbene, questo signore - in compagnia della moglie e amici della stessa età - saputo che studio Filosofia in statale, mi racconta che una volta hanno accudito nel loro centro un uomo che, come me, aveva studiato la stessa materia - e che, evidentemente, aveva fatto la fine di Nietzsche.
Non mi ha raccontato molti particolari sulla sua vita da internato, semplicemente questo aneddoto.
Da buon filosofo era solito parlare a oltranza, anche in quel luogo di reclusione dove ogni parola del paziente viene considerata come l'insensata farneticazione di un folle - ma, in fin dei conti, è il destino di noi filosofi anche allo scoperto.
In particolare, era solito ripetere la definizione che lui dava di "Filosofia" - definizione che è forse l'unico insegnamento di questo Socrate da manicomio ma che sarebbe davvero un peccato lasciar svanire nel nulla.
Ecco, la definizione che ripeteva a chiunque glielo chiedesse - o meno - era questa: "la Filosofia è quella materia senza la quale il mondo resta tale e quale".
Fine.
Tutti hanno sorriso quando il narratore ha terminato di raccontare questo breve squarcio del suo passato - io compreso. Ma mi è sembrato doverose aggiungere che forse il filosofo pazzo non aveva tutti i torti.

Daniele Palmieri

venerdì 3 luglio 2015

Not alone: quando farsa e tragedia vanno a braccetto

Mi pare di aver già scritto questa frase in un altro articolo, ma è l'unico commento che mi viene da fare: sulla via della storia farsa e tragedia vanno sempre a braccetto.
Sto parlando del video Not Alone della Catholic vote, associazione che, sinceramente, non conoscevo ma che non sento il bisogno di approfondire.
Riassumiamo la trama di questo profondissimo video.
Giovani cattolici denunciano con pacatezza il soprusi a cui sono sottoposti ogni giorno, in particolare in presenza di persone gay.
Questi soprusi sono le reazioni accese che vengono loro rivolte quando affermano che sono contrari ai matrimoni tra persone dello stesso sesso.
Un'idea che sono costretti, dunque, a tenersi dentro come se fosse un segreto innominabile. Ma, in fondo al tunnel, uno spiraglio di salvezza: "voi non siete soli" dice la voce di sottofondo. Che potremmo parafrasare con: "non siete gli unici a voler privare altre persone di diritti che voi possedete".
E giù (fintissime) lacrime di commozione (per cosa, poi, lo sanno solo loro).
Penso che il filmato parli da sé.
Ora, molti potrebbero pensare: "è giusto che loro esprimano la loro opinione. Se pensano che matrimoni tra persone dello stesso sesso sono sbagliati e che non dovrebbero essere celebrati, che male c'è?"
Obiezione legittima, che richiede una breve precisazione.
Quanto bisogna essere tolleranti con gli intolleranti?
La libertà di opinione ha un limite e quel limite è posto dal contenuto dell'opinione stessa; se professi un'ideologia che ha come fondamento la privazione della libertà altrui, la tua opinione può diventare strumenti di oppressione o discriminazione ai danni di un certo gruppo sociale. E non c'è da stupirsi se quel gruppo sociale non reagisce positivamente alla tua opinione.
Tutto così sembra molto astratto e in un certo senso contraddittorio, ma proviamo a immaginare cosa sarebbe successo se questo video fosse stato girato durante la guerra di secessione americana.
Protagonisti sarebbero stati dei sudisti e il tema sarebbe stato l'abolizione della schiavitù.
Cosa avrebbero detto questi sudisti? 

*Musica di sottofondo*

SUDISTA: 

"Ecco... ehm, le persone mi discriminano"
"Mi dicono che non sono il benvenuto semplicemente se io dico quello che penso"
"Ecco... ehm... io credo che i negri debbano continuare a lavorare nei nostri campi di cotone."
"Non sono razzista eh... ho molti amici negri... se passo in groppa al mio cavallo davanti a loro mentre lavorano la mia terra li saluto anche"
"E' solo che... (singhiozzo)... le persone mi discriminano perché dico che i negri sono nati schiavi e se mi trovo davanti a un negro non posso nemmeno tirar fuori l'argomento se non voglio essere insultato (lacrime)"

VOCE DI SOTTOFONDO: 

"Non ti preoccupare. Tu non sei da solo. C'è tutto l'esercito sudista con te. Tu non  sei da solo"

(Lacrime di gruppo - *rumore di catene in sottofondo*)

Daniele Palmieri

venerdì 19 giugno 2015

L'ultima guerra di Turno. Recensione della terza puntata de "I monologhi del destino"

Aspettavo con curiosità questa terza puntata de I monologhi del destino per vedere come avrebbero trattato l'antieroe Turno, il nemico di Enea destinato dal fato a soccombere.
Ero curioso perché la letteratura spesso si dimentica di certe figure "perdenti" sin dalla nascita ma non abbastanza prometeiche da ispirare con il loro sacrificio tragedie, romanzi o opere poetiche.
In controtendenza dunque la scelta della webserie; e una scelta che si dimostra molto felice.
Ci troviamo di fronte a un Turno nei momenti anteriori alla battaglia, che riflette con se stesso sul senso della sua guerra - consapevole di essere destinato al fallimento.
E' un Turno tormentato che alterna momenti di eroica accettazione a ricadute nel nichilismo più assoluto, quando in alcun modo riesce a dare un senso al suo sacrificio che sancirà la vittoria definitiva di Enea. Perché combattere? Perché lottare se tutto è già deciso e se la storia ti ricorderà come l'eterno perdente?
Ed ecco che da dramma personale i tormenti di Turno diventano quelli di tutti i combattenti; proprio perché il sacrificio è inutile diventa un sacrificio per tutti, una lotta per far sì che questa guerra sia l'ultima guerra, che dopo essa non ce ne siano altre e che, dopo il trionfo di Enea, l'umanità possa finalmente vivere in pace.
Il messaggio è molto simile a quello espresso da Patocka nell'ultimo saggio de "Saggi eretici di filosofia della storia". 
Il nonsenso della guerra e del sacrificio inutile di migliaia e migliaia di vite può essere superato soltanto se si comincia a combattere anche per il proprio nemico, nella speranza che questa guerra sia l'ultima. Il conflitto non diventa più una lotta per annientare il nemico, ma una guerra collettiva contro la guerra stessa.
Così Turno è pronto per affrontare la sua ultima ora.
Con gli occhi dello sconfitto viviamo i momenti finali della battaglia, in un interessante ribaltamento di prospettiva.
Il "pio" Enea affonda con ferocia la sua lancia nel petto di un Turno riverso al suolo e il suo volto è tutto fuorché quello di un "buono", così come tramandato dalla tradizione.


Anche la terza puntata è promossa a pieni voti, così come la sceneggiatura di Emilio Bologna, allo stesso tempo autore e attore con la fortuna di dar vita al suo personaggio.

Interessante la scelta scenografica dello sfondo; dai toni cupi e introspettivi delle puntata precedenti, che trasmettono la malinconia dei protagonisti, si passa a uno sfondo di fuoco che trasuda tutta la forza e il coraggio di questo Turno tenace come Leonida.


Daniele Palmieri




martedì 16 giugno 2015

L'elettore della domenica


Odio gli indifferenti. Questa citazione di Gramsci è citata spesso, soprattutto in occasione delle elezioni.
"Votate" si dice "non siate indifferenti".
Ma è davvero così e, soprattutto, era questo il messaggio originale di Gramsci?
Difatti, votare non significa automaticamente essere partigiani; tutt'altro.
C'è un tipo di elettore, il più dannoso di tutti, che io chiamo "l'elettore della domenica".
Cosa fa di così sbagliato questo tipo di elettore, adempiendo il suo dovere civico?
Ebbene, l'elettore della domenica è quel tipo di indifferente che non segue e non approfondisce i dibattiti politici in corso, ma la cui conoscenza del mondo che lo circonda si limita alla propria quotidianità e alle vaghe notizie filtrate da stereotipi e luoghi comuni che gli giungono all'orecchio.
Ma quando si avvicinano le elezioni, purtroppo il suo spirito nazionale si risveglia e allora quei luoghi comuni diventano le sue solide conoscenze che lo spingono a votare un partito piuttosto che un altro.
E come può, lo scrutinatore, riconoscere questo fantomatico elettore della domenica, risvegliatosi dal suo sonno letargico?
Solitamente, l'elettore della domenica lascia la sua impronta indelebile sulla scheda elettorale.
Facendo un esempio pratico, l'elettore della domenica è colui il quale, alle elezioni comunali di Cologno Monzese, vota Lega Nord scrivendo tra le preferenze il nome "Salvini", convinto - si deduce - che Salvini si sia candidato come Consigliere Comunale nella cittadina di Cologno Monzese per il sindaco del centrodestra. Sarebbe comico, se non fosse che schede elettorali siffatte NON SONO CONSIDERATE NULLE.
L'elettore della domenica è il peggior indifferente, poiché la sua indifferenza diventa un'opinione politica.
E qui ritorniamo a Gramsci; anzi, no, ché poi se uno cita Gramsci si risveglia l'acuto spirito critico di alcuni intellettuali che cominciano a urlare: "komunistah!".
Dunque torniamo a Dante, ché ormai il dibattito tra Guelfi e Ghibellini è ormai sopito.
Dante, il padre spirituale della povera Italia che, guarda caso, non è mai citato da questi fantasmatici nazionalisti che dicono di voler difendere la nostra Patria.
Ebbene, parliamo di Dante poiché, centinaia di anni prima di Gramsci, fu il primo a odiare gli indifferenti.
A loro dedicò quello che è forse il luogo più terribile dell'Inferno, ossia l'anti-Inferno. Questa terra di nessuno è la più desolante dell'intero poema, poiché le anime disperate che corrono senza sosta su un tappeto di vermi sono ripudiati sia da Satana che da Dio.
Sciagurati che mai non fur vivi, gli ignavi che nella loro vita non furono mai partigiani, che non si interessarono al mondo intorno a loro e lasciarono scorrere il tutto nella più abietta indifferenza. 
E proprio questi ignavi sono la causa di catastrofi pubbliche, soprattutto quando abbandonano la bolla della piatta quotidianità per avvicinarsi alle urne, sancendo il trionfo dell'ignoranza.

Daniele Palmieri

venerdì 12 giugno 2015

Umberto Eco premio Nobel?

SORRIDI, LA TUA MENTE E' STATA INGANNATA!



Due parole in merito all'articolo che ho scritto ieri su Umberto Eco e la sua critica ai social network.
Nel testo parlo del pericolo maggiore, ossia della diffusione irrefrenabile di bufale che poi condizionano pesantemente l'opinione pubblica.
In base alle statistiche di Facebook e di Blogger so che una ventina di persone ha letto l'articolo.
Tuttavia, c'è un piccolo particolare che ho inserito e che soltanto una persona ha notato, segnalandomi la cosa nei commenti.Citando testualmente il passo incriminato: "La critica del premio Nobel è più che legittima."
Premio Nobel?
Ma Eco non ha mai preso un premio Nobel.
Nell'articolo l'informazione è inserita di soppiatto, data per scontata come se fosse qualcosa che tutti conoscono.
E così, proprio per questa parvenza di banalità, l'informazione viene recepita e immagazzinata più o meno inconsciamente e presa come vera.
Di queste venti persone, diciannove potrebbero essere state condizionate da un'informazione falsa e potrebbero pensare che Umberto Eco abbia effettivamente vinto un premio Nobel.
La nostra opinione è quotidianamente manipolata con sotterfugi di questo tipo e spesso ne siamo inconsapevoli, anche quando crediamo di leggere qualcosa con spirito critico.
Spero che questo semplice esperimento aiuti a comprendere i pericoli delle notizie in rete.
La nostra mente è fatta per cascare in tali tranelli.
Non so perché da bambino avevo sentito che Giovanni Rana era morto e ho scoperto che era vivo soltanto in terza liceo.
E' un esempio stupido, ma dimostra come le informazioni superficiali e i "sentito dire" influenzino le nostre opinioni per anni.
Morale della favola: non fidatevi di nessuno, nemmeno di me.

Daniele Palmieri


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giovedì 11 giugno 2015

Umberto Eco, gli imbecilli e i pericoli dei social network

Umberto Eco ha ragione, gli imbecilli sono la fauna più diffusa nel mondo della rete



Eco premio Nobel?
Sta facendo molto discutere una dichiarazione di Umberto Eco in occasione della laurea honoris causa conferitagli dall'Università di Torino.
"I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività".
Ora, prima di esprimere il mio parere a riguardo, una breve considerazione: lo spaccato, riportato da La Stampa e rimbalzato in tutti i giornali, è soltanto un brevissimo estratto di un discorso durato più di un'ora, che chi non ha seguito la lezione non può conoscere per intero. 
Come al solito, dunque, la stampa italiana dimostra di voler buttare la discussione in caciara concentrandosi su una frase o un avvenimento decontestualizzato e spiaccicato su un titolone ad effetto, giusto per guadagnarsi la condivisione facile.
Difatti, come sottolinea questo articolo de L'Espresso, che comunque non risparmia critiche all'affermazione di Eco, il premio Nobel prima di pronunciare quella frase ha elencato anche gli aspetti positivi dei social network.
Ma, ovviamente, sottolineare questa parte del discorso non permetterebbe di intavolare una discussione degna di questo nome; meglio lasciarsi andare a facili slogan.
Basterebbe questa considerazione per avvalorare la tesi di Eco, ma andiamo oltre.

La critica del premio Nobel è più che legittima. 
Il problema è che se una volta i discorsi superficiali da parrucchiere o da bar rimanevano limitati al tempo di un taglio di capelli o di una birra, adesso i Social Network sono diventati un'immensa cassa di risonanza per le bufale, i discorsi pressapochisti e i soliti luoghi comuni, sui quali campano molte pagine Facebook (di politici e non) che diffondono una disinformazione allarmante.
E questo non è un fenomeno secondario, ininfluente come può essere una discussione da bar. Una bufala riportata da un amico davanti a una birra resta nel bar, o al massimo raggiunge altri tre o quattro amici; una bufala condivisa da centinaia di migliaia di persone condiziona l'opinione di centinaia di migliaia di persone.
Da questo punto di vista, i social network hanno spianato la strada a migliaia di sciacalli e a milioni di imbecilli pronti a cadere nelle loro trappole.
Basta farsi un giro sulla pagina Facebook di Bufale un tanto al chilo​ o di Protesi di complotto​ per accorgersi di quante idiozie girino per il web.
E, se è vero, come sottolinea l'articolo de L'Espresso, che siti come questi che si occupano di sbugiardare la disinformazione sono un anticorpo spontaneo della rete, è altresì vero che: 1) le bufale si diffondono a una velocità irraggiungibile 2) chi condivide articoli fuffa difficilmente avrà la voglia di approfondire l'argomento in maniera critica.
Ma un altro dei gravi difetti dei Social Network è questo: sarà capitato a tutti di discutere con un interlocutore senza alcuna preparazione sull'argomento di discussione ma che, dall'alto dei suoi link ad hoc cercati in rete, si permetteva di pontificare come un massimo esperto della materia.
Ora, non sto dicendo che non è legittimo esprimere la propria opinione; è la stessa cosa che faccio quotidianamente con questo blog e che tutti noi facciamo ogni giorno.
Tuttavia, la rete rende ogni persona un tuttologo, sfruttando un meccanismo che in psicologia viene chiamato "tendenza alla conferma".
Se io, senza alcuna laurea o preparazione di sorta la penso "A" e discuto con una persona preparata in materia che la pensa "B", farò di tutto per far valere la mia opinione quanto l'opinione dell'interlocutore, andando a cercare articoli che confermino la mia "A", credendomi così un esperto in materia.
Ignorare questi problemi e sostenere che la rete è il baluardo della democrazia e della libertà significa tapparsi gli occhi.
Libertà di parola non significa: aprite i rubinetti della vostra mente ed esprimete ogni pensiero che vi passa per il cervello! 
A volte è meglio tacere; soltanto gli imbecilli hanno sempre qualcosa da dire e, da questo punto di vista sottoscrivo in pieno l'affermazione di Eco: i social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli.

Daniele Palmieri

Aggiornamento del 12/06/15

Non avete notato nulla di strano?
Allora meglio dare un occhio a questo articolo, forse un piccolo particolare vi è sfuggito.