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domenica 14 ottobre 2018

Calvino: Il castello dei destini incrociati. Le infinite storie nei Tarocchi

"In mezzo a un fitto bosco, un castello dava rifugio a quanti la notte aveva sorpreso in viaggio".
Il castello dei destini incrociati di Italo Calvino comincia evocando i più grandi archetipi delle fiabe: il bosco, il castello, la notte, il viaggio; eppure, Il castello dei destini incrociati non è una fiaba come le altre. Essa attinge a un universo simbolico ancora più antico della parola scritta, poiché l'intera narrazione ruota attorno alle immagini: le potenti ed espressive immagini dei Tarocchi.
Ho già dedicato all'argomento una serie di articoli, che mostrano le molteplici prospettive e interpretazioni che ruotano attorno alle misteriose lamine simboliche; la visione occultistica di Ouspensky e Court de Gebelin, la prospettiva cartomantica di Andrea Pellegrino e, infine, un mio contributo personale sulla storia del tarocco e su come scegliere il proprio mazzo.
Con Il castello dei destini incrociati di Calvino si rivela una nuova prospettiva: quella letteraria; il Tarocco come libro della vita, fonte d'ispirazione inesauribile di storie, racconti, fiabe, intrecci. 
Il libro raccoglie due novelle, Il castello dei destini incrociati e La taverna dei destini incrociati, che ruotano attorno al medesimo espediente narrativo: i protagonisti, ritrovatisi in un castello, nel primo caso, e in una taverna, nel secondo, hanno misteriosamente perso l'uso della parola e sono costretti a narrare le loro storie con le 78 carte del mazzo di tarocchi; il mazzo dei Visconti ne Il castello dei destini incrociati e il mazzo marsigliese ne La taverna dei destini incrociati. Grazie alla poderosa forza espressiva dei Tarocchi, il risultato è un intreccio di storie "archetipiche", che affondano le loro radici nei simboli più profondi dell'inconscio umano, e che narrano le gesta, le avventure e le disavventure di cavalieri, principesse, déi e dee, giovani e anziani, ladri e mercanti, contadini, re e regine, imperatori e imperatrici, papi, sacerdotesse, satiri e matti, in un vortice di narrazioni, intricato e intricante come i folti rami delle foreste (che spesso ritornano, nella narrazione di Calvino, nelle figure delle carte di bastoni). Addentrarsi in tali racconti in una recensione ne sminuirebbe la potenza narrativa e soltanto la lettura del testo originale, accostata al mazzo di tarocchi per aumentarne la forza espressiva, consentirà al lettore di immergersi nel variegato universo simbolico evocato dal Calvino che, alla stregua di un medium, è stato in grado di farsi veicolo delle storie raccontate delle carte. 
Per questo in tale recensione mi soffermerò soprattutto sul metodo utilizzato dall'autore per "farsi da tramite" delle storie narrate.
La nascita di questo "meccanismo narrativo" è raccontata da Calvino nella nota introduttiva alle due novelle, che mostra molte affinità con le idee di Ouspensky sul tarocco come "macchina filosofica generatrice di significati" e che, seppure nella sua brevità, è uno dei testi più importanti per imparare a sviscerare i significati nascosti al di là delle immagini attraverso l'uso, allo stesso tempo, dell'immaginazione e della logica.
L'introduzione al testo svela infatti il principale meccanismo dietro la lettura dei tarocchi. Calvino racconta come l'idea, semplice dal punto di vista concettuale, di narrare le storie a partire dall'accostamento casuale di carte, si sia rivelata, agli effetti pratici, estremamente ostica:

"Passavo giornate a scomporre e ricomporre il mio puzzle, escogitavo nuove regole del gioco, tracciavo centinaia di schemi, a quadrato, a rombo, a stella, ma sempre c'erano carte essenziali che restavano fuori e carte superflue che finivano in mezzo, e gli schemi diventavano così complicati [...] che mi ci perdevo io stesso. Per uscire dall'impasse lasciavo perdere gli schemi e mi rimettevo a scrivere le storie che già avevano preso forma, senza preoccuparmi se avrebbero o no trovato un posto nella rete delle altre storie, ma sentivo che il gioco aveva senso solo se impostato secondo certe regole ferree; ci voleva una necessità generale di costruzione che condizionasse l'incastro d'ogni storia nelle altre, se no tutto era gratuito" (Calvino, Il castello dei destini incrociati, Mondadori).

I racconti nascono dalla convivenza e dal conflitto tra schema e libertà, logica e immaginazione, rigore e anarchia; questo perché l'universo simbolico, non solo nei tarocchi ma in tutta la sua estensione, vive di regole proprie, che si trovano in una terra di confine tra questi due mondi. I simboli, infatti, non sono esclusivamente arbitrari e soggettivi, possedendo un substrato comune e archetipico, ma nemmeno rigorosi e oggettivi, manifestandosi in forme differenti in base al soggetto e alla cultura di riferimento ed essendo mutevoli per loro stessa natura.
I Tarocchi sono la macchina filosofica ideale per portare alla luce tale conflitto tra oggettività e soggettività, soprattutto quando, stesi di fronte ai nostri occhi, si cerca di leggere in essi una storia, sia essa una storia passata, presente o futura, vera o fittizia; il rigore della narrazione logica deve trovarsi a convivere con la caoticità dell'estrazione delle carte e con la mutevolezza dei significati simbolici, che variano continuamente in base ai diversi accostamenti.
Calvino è magistrale nel descrivere questa mutevolezza di significati in base al contesto e dimostra, con la sua narrazione letteraria, come la medesima stesa possa raccontare una storia con certi protagonisti, se letta da un lato, e un racconto totalmente diverso, con altri protagonisti, se letta dal lato contrario. 
Non sorprende che, in questo perpetuo mutare, il narratore stesso si trovi presto spaesato, in balìa dei suoi stessi racconti, che lo ingarbugliano in un vero e proprio labirinto di simboli e di storie. Come scrive Calvino:

"A più riprese, a intervalli più o meno lunghi, in questi ultimi anni, mi cacciavo in questo labirinto che subito m'assorbiva completamente. Stavo diventando matto? Era l'influsso maligno di queste figure misteriose che non si lasciavano manipolare impunemente? O era la vertigine dei grandi numeri che si sprigiona da tutte le operazioni combinatorie? Di colpo decidevo di rinunciare, piantare lì tutto e dedicarmi ad altro [...]. Passava qualche mese, magari un anno intero, senza che ci pensassi più; e tutt'a un tratto mi balenava l'idea che potevo ritentare in un altro modo, più semplice, più rapido, di riuscita sicura. Ricominciavo a comporre schemi, a correggerli, a complicarli; m'impelagavo di nuovo in queste sabbie mobili, mi chiudevo in un'ossessione maniaca" (Calvino, Il castello dei destini incrociati, Mondadori).

Una descrizione che sembra riecheggiare la condizione di uno dei protagonisti delle storie nate dal mazzo dei Visconti, che dopo essersi smarrito in una foresta e aver approfittato dell'amore di una fanciulla, scopre di aver profanato la dea Cibele e si trova così riassorbito nella follia, nell'oscurità, nel mistero, nell'unità indifferenziata del bosco:

"Sappi che nella persona della fanciulla tu hai offeso (cos'altro poteva avergli detto, la papessa, per provocare in lui quella smorfia di terrore?) tu hai offeso Cibele, la dea a cui è sacro questo bosco. Ora sei caduto in mano nostra. [...] Ora il bosco ti avrà. Il bosco è perdita di sé, mescolanza. Per unirti a noi devi perderti, strappare gli attributi di te stesso, smembrarti, trasformarti nell'indifferenziato, unirti allo stuolo delle Ménadi che corre urlando nel bosco" (Calvino, Il castello dei destini incrociati, Mondadori, p. 15).

I Tarocchi sono un bosco, un bosco che ti assorbe nel suo intrico di simboli; in essi è contenuta ogni storia, anche la tua, che resta indifferenziata tra le decine di migliaia di combinazioni possibili finché una libera necessità non la riporta alla luce. Nel momento in cui cerchiamo di leggere le carte alla ricerca della nostra storia, ecco che presto ci perdiamo tra gli innumerevoli sentieri di questo labirinto boschivo, fatto di immagini, simboli e mistero, che presto prende possesso della nostra ragione trascinandoci in un vortice dal quale è difficile uscirne "sani di mente". Questo è il grande insegnamento letterario de Il castello dei destini incrociati di Calvino; questo è il grande segreto dei Tarocchi.

Italo Calvino, Il castello dei destini incrociati, Mondadori

Daniele Palmieri


domenica 7 ottobre 2018

Pratiche di contemplazione. L'arte della meditazione occidentale


Negli ultimi due secoli stiamo assistendo a un diffondersi sempre crescente di pratiche di vita e di meditazione Orientali. Si tratta di una rivoluzione culturale senza precedenti; mai come in questi secoli vi è stata una “orientalizzazione” della cultura spirituale occidentale, e fioccano in ogni dove maestri di yoga, guru e santoni. Se da un lato questa riscoperta dell’Oriente ha ampliato gli orizzonti culturali dell’uomo occidentale, dall’altro gli sta facendo dimenticare le sue origini, e, soprattutto nel mondo di spirituale, vi è una sorta di sospetto e sottovalutazione nei confronti della grande tradizione occidentale, quasi non avesse più nulla da trasmettere all’uomo contemporaneo.
Eppure, l’Occidente ha prodotto una delle più elevate pratiche di meditazione, che nulla ha da invidiare nei confronti delle pratiche meditative orientali: la contemplazione. E, come la meditazione orientale, anche la contemplazione ha assunto diverse forme.
Per millenni la contemplazione fu la pratica meditativa privilegiata di filosofi, religiosi, mistici e, come la meditazione orientale, assunse diverse forme in base alla corrente di pensiero, ma rimase salda nel proprio ruolo di fondo: elevare la coscienza dell’uomo, ricondurlo alla fonte stessa della vita, dando significato alla sua esistenza e facendogli vivere profonde dimensioni di significato. Queste pratiche di contemplazione erano volte tanto all’interno quanto all’esterno, e sono in grado di coinvolgere ogni aspetto della vita dell’uomo: dalla più semplice quotidianità alla più elevata estasi mistica, dai livelli animici inferiori a quelli superiori.
Ma che cos’è, di preciso, la contemplazione? Questa parola è, infatti, ormai desueta, e ad essa è subentrato con preponderanza il termine “meditazione”. Benché contemplazione e meditazione siano affini, vi è una lieve sfumatura di significato che rende la contemplazione una pratica leggermente diversa dalla meditazione.
Contemplare è una parola latina, che deriva dal composto “cum” e “templum”, letteralmente: per mezzo del templum, che nell’antichità denotava uno spazio del cielo che l’augure circoscriveva con il proprio liuto, e verso il quale volgeva lo sguardo per osservare il volo degli uccelli, dal quale trarre i propri auspici. Metaforicamente, il termine “contemplare” assunse poi il significato più generale di volgere lo sguardo e il pensiero verso il cielo o, in generale, verso ciò che suscita meraviglia, con lo stesso sentimento sacro che muoveva gli aruspici che studiavano il volo degli uccelli.
Il verbo “meditare” deriva dal latino “meditari”, che a sua volta affonda le sue radici nel verbo “mederi”, “curare”. Il termine “meditazione” nasce, dunque, in occidente, con il significato di “prendersi cura” dei pensieri interiori, e molteplici erano le pratiche volte a prendersi cura dell’interiorità, del tutto affini alle pratiche che ora si cerca soltanto nel mondo orientale.
Tutt’altra etimologia ha, invece, il termine “yòga”, che in sanscrito significa “unione, congiunzione” dell’uomo con il divino.
Si noti come il termine latino “meditazione”, con cui si indicano le pratiche orientali tra cui, appunto, lo yòga, abbia veicolato la concezione occidentale del “prendersi cura” del proprio corpo e dei propri pensieri, quando lo yòga è invece una pratica che riportando l’uomo al divino lo allontana dal proprio corpo e dai propri pensieri. Ciò testimonia una metamorfosi avvenuta tra cultura orientale e cultura occidentale, in cui il termine “yòga” ha veicolato il contenuto di pratiche già esistenti in occidente, mantenendo però l’aspetto di pratiche orientali, confezionate per imitazione, ad uso e consumo dei fruitori. Anche l’occidente ha sviluppato pratiche contemplative volte al divino, insieme a pratiche in grado di coinvolgere ogni aspetto dell’esistenza, dalla semplice vita quotidiana fino all’estasi mistica più elevata.
Tramite la contemplazione, si giunge a una conoscenza vissuta e spirituale del mondo, tanto interiore quanto esteriore, imparando “semplicemente” a guardare, circoscrivendo tale realtà come facevano gli aruspici con i loro liuti. Una circoscrizione che, paradossalmente, non è limitante, ma permette di ampliare lo sguardo scoprendo una realtà più profonda e universale, focalizzando la propria vista.
Come mai l’uomo dovrebbe dedicarsi alla contemplazione? Non solo per il benessere psicofisico, come spesso vengono sminuite le pratiche meditative. Certo ritorna anche tale aspetto, non è l’unico e non è secondario, ma è pur sempre il riflesso di un’esigenza più profonda, che affonda le radici nell’essenza stessa dell’anima umana. La contemplazione è infatti l’attività più elevata a cui un uomo possa aspirare, e il nesso tra anima e contemplazione è così inscindibile che non è possibile parlare dell’una senza descrivere l’altra, e viceversa.

Pratiche di contemplazione. L'arte della meditazione occidentale, Daniele Palmieri, Nero d'inchiostro (Youcanprint), disponibile su tutti gli store online oppure scrivendo all'indirizzo nerodinchiostro94@gmail.com

Daniele Palmieri