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giovedì 6 gennaio 2022

Le tavole iguvine: il più antico documento rituale dell'Italia arcaica

 


Gubbio, 1444. Nel borgo medievale divenuto noto per le predicazioni di san Francesco e per l'episodio della "addomesticazione del lupo" raccontata nei Fioretti, riemergono, nei pressi dell'antico teatro romano, sette misteriose tavole di bronzo, ossidate dai millenni fino ad assumere una colorazione verdastra. Nell'atto notarile datato 1456 con cui il comune acquisì la proprietà delle tavole, il ritrovamento viene attribuito a un'abitante locale, una certa Presentina. 
Già all'epoca gli studiosi e gli eruditi si accorsero di avere tra le mani un documento eccezionale. Le sette tavole, infatti, riportano incisi, sul fronte e sul retro, una lunga serie di caratteri antichi. Le frasi in lingua nota sono in latino arcaico. Ma affiancate al testo latino, ecco riaffiorare dal passato due antiche lingue dimenticate: l'etrusco e l'umbro, parlato nell'antica Ikuvium. 
Le tavole divengono presto un vero e proprio labirinto per i filologi e gli studiosi del pensiero classico. Gli stessi testi sono infatti incisi in alfabeti e lingue differenti. I medesimi passi possono cioè essere ritrovati in lingua latina con alfabeto latino, in lingua umbra con alfabeto umbro, in lingua umbra con alfabeto latino e in alfabeto etrusco.
Nonostante la chiave interpretativa fornita dal testo in latino, la traduzione dei passi in lingua umbra fu, per secoli, un vero e proprio rompicapo, complicato dal fatto che, fino in epoca recente, l'alfabeto e la lingua umbra non erano stati riconosciuti in quanto tali, ma erano stati erroneamente assimilati all'alfabeto e alla lingua etrusca. Soltanto Lepsius, circa 150 anni fa, ha dimostrato la presenza, nelle tavole, di una antica lingua italica fino ad allora dimenticata.
Tuttavia, l'eccezionalità delle tavole, come uno spaccato unico sulla ritualità dell'Italia arcaica, fu sempre riconosciuta. Bagnolo nel 1792 le riteneva un "documento sommamente prezioso, a cui altro simile fra tanti avanzi dell'antichità non è rimaso in tal genere, che ci presenti a disteso tutta l'intera serie e l'economia di quella sagra funzione" e Giovanni Devoto, studioso novecentesco delle tradizioni italiche, le definisce come il "più importante testo rituale di tutta l'antichità classica" (Bagnolo e Devoto, citati in Le tavole iguvine, Augusto Ancillotti, Romolo Cerri, Edizioni Jama Perugia, p 35).
Le tavole iguvine sono infatti il documento antico più esteso e dettagliato nel descrivere le usanze rituali delle popolazioni autoctone del suolo italico. 
Le tavole III e IV sono state datate al III secolo a.C., la I e la II al II secolo a.C., la V al II secolo a.C. e le più recenti, la VI e la VII, al I secolo a.C., ma, come spesso avviene per questi documenti epigrafici, la norme trascritte, ritenute di importanza capitale per la società e la religione, vengono impresse su materiali nobili e imperituri dopo una lunga trasmissione prima orale e poi su materiali deperibili. E' molto probabile, dunque, che l'origine dei riti descritti e delle divinità citate sia da rintracciare molto più in là nel tempo rispetto alla materialità delle tavole.
Come scrivono Augusto Ancillotti e Romolo Cerri ne Le tavole iguvine: "Le tavole sono state redatte in momenti diversi e da mani diverse, in genere con lo scopo di rendere indeperibili i testi originariamente stesi su materiale deperibile (come potevano essere la tela di lino o la pergamena). La presenza di fori per l'affissione dipende dal fatto che in un secondo momento (forse in epoca augustea) le tavole furono esposte, probabilmente per esaltare la nobiltà delle radici culturali di Iguvium. La composizione dei testi che troviamo scritti nel bronzo è dunque ben più antica della della fattura fisica delle tavole e la datazione è ben più incerta" (Le tavole iguvine, Augusto Ancillotti, Romolo Cerri, Edizioni Jama Perugia, p. 38).
Nelle tavole sono stati individuati nove testi principali, così riassunti da Ancillotti e Cerri: 
1) La cerimonia piaculare e lustrale
2) Una trascrizione breve delle due precedenti cerimonie
3) La cerimonia per auspicio avverso
4) Un sacrificio rituale del cane
5) La cerimoniia delle riunioni tributarie
6) Il cerimoniale delle Stentasie
7) Le norme sui compensi e sulle multe che regolano le funzioni dell'officiante
8)Le norme tributarie che regolano gli scambi tra le circoscrizioni e la confraternita. 
9) Doveri e multe del capo dei confratelli. 
Il grande interesse sia storico sia religioso di questi testi è che essi descrivono in maniera minuziosa ogni fase del rituale: le azioni, i luoghi sacri, i sacrifici (sia cruenti sia non cruenti), l'interpretazione augurale del volo degli uccelli, le preghiere e, soprattutto, le divinità dedicatarie. Considerati nel loro complesso, costituiscono un vero e proprio viaggio nel passato nella Ikuvinum arcaica e nelle descrizioni dell'antico perimetro sacro, delle danze e delle offerte sacrificali e della solennità delle preghiere sembra rivivere la potenza degli antichi numi.
Basti citare, a esempio, parte del rito della purificazione della città contenuto nella VI tavola, in cui vengono descritti nel dettaglio i confini sacri del paese e in cui viene invocata la potenza di Giove Grabovoio per innalzare una protezione metafisica:
"E questi sono i confini della città: a partire dal punto dei confini all'altezza delle rocce augurali nella direzione delle porte, al ponte, ai cortili di Norbio, alle curve del fiume, alla palude, al tetto della famiglia Miletina, fino al terzo dei terrapieni di prosciugamento. Sempre dal punto all'altezza delle rocce augurali, alla grotta del dio Vesticio, al loggiato di Rufro, al tetto della famiglia Nonia, al tetto di Salio, alla grotta del dio Hoio, al passaggio sacro alla divinità dei transiti. Al di sotto di codesti confini [...] si devono rilevare da destra un'upupa e una cornacchia; al di sopra di codesti confin i si devono rilecvare da sinistra un picchio e una gazza. Se i messaggi si saranno espressi a favore, sempre sedendo nel capanno, chiami per nome l'officiante e lo assicuri [...]" e a quel punto il sacerdote, compiuto il sacrificio, prosegue con questa preghiera dedicata a Giove Grabovoio: "Invoco Te come Giove Grabovoio con questa preghiera per la Rocca Fisia, per la città di Gubbio, per il nome di quella, per il nome di questa. Sii favorevole, sii propizio alla Rocca Fisia, in nome di quella, al nome di questa. Con questa formula ti rivolgo preghiera, come Giove Grabovoio, e proprio confidando nella formula rituale, ti rivolgo la mia preghiera come Giove Grabovoio. Mi rivolgo a te come Giove Grabovoio con questo bove maturo, come sacrificio espiatorio per la Rocca Fisia e per la Città di Gubbio; per il nome di quella e per il nome di questa. O Giove Graboboio, se nel corso della nota attività sacrificale il fuoco è stato acceso nella Rocca Fisia, o se nella Città di Gubbio sono state introdotte delle curie inaccettate, sia come non voluto. O Giove Grabovoio, se nella cerimonia a te sacra qualcosa è andato storto, è andato male, è stato differito, è stato antipatico, è andato perduto, se nella cerimonia a te sacra c'è un difetto che si vede o non si vede, o Giove Grabovoio, se poi è giusto che si sia purificati con questo bove maturo, come sacrificio espiatorio, allora, o Giove Grabovoio, purifica la Rocca Fisia, purifica la città di Gubbio [...] purifica i guerrieri, le curie, i capifamiglia, il bestiame, i poderi e le messi. Sii favorevole, sii propizio con la tua pace [...]".
Le divinità citate nelle preghiere, dedicatarie delle offerte rituali, mostrano l'originalità della religione italica e come essa non fu il semplice riflesso della religione greca. Queste divinità primordiali sembrano agire, nella descrizione dei rituali, non tanto quanto esseri antropomorfi, ma come "numi", appunto, "volontà", potenze primordiali che si manifestano con segnali e messaggi, come il volo degli uccelli, e che retrostanno alla forza degli elementi e degli eventi cosmici (senza però mai coincidere con essi). Di volta in volta questo "nume" prende un nome differente. Un nome in cui, però, non si esaurisce tutta la sua forza, ma che è solo un vano tentativo, da parte del sacerdote, di coglierne una parte, di incanalarla ora a protezione della città, ora nella forza dei soldati, ora nel portare giustizia sociale. Il nome rappresenta dunque un aspetto di una divinità che non si esaurisce in quell'epiteto. Come suggeriscono anche Ancillotti e Cerri nel chiarire una loro scelta di traduzione nelle invocazioni alle divinità: "Traduciamo "Invoco Te come Tefro Giovio" perché il nome della divinità chiamata non è in caso vocativo, ma si trova nello stesso caso dell'oggetto del verbo "invocare", cioè "Te"; tale nomee allora può essere inteso come complemento di denominazione, o apposizione se si vuole, ma non come complemento di invocazione. Perciò il teonimo non è la divinità, ma un appellativo della divinità. Come dire che il divino può presentarsi sotto diverse denominazioni (=funzioni)"(Le tavole iguvine, Augusto Ancillotti, Romolo Cerri, Edizioni Jama Perugia, p. 80).


Ancora oggi, le tavole dimorano nel luogo che gli diede i natali: Gubbio. Come custodi silenti, testimoni di un passato ormai trascorso ma, in realtà, sempre presente, sono esposte in eleganti cornici di legno nel Palazzo dei Consoli di Gubbio, e i loro caratteri misteriosi sussurrano i nomi e le potenze di divinità mai del tutto sopite.
Per chi volesse approfondirne la storia, consiglio il testo che ho utilizzato da base per il presente articolo: Le tavole iguvine, Augusto Ancillotti, Romolo Cerri, Edizioni Jama Perugia, oppure il loro lavoro maggiore: Le tavole di Gubbio e la civiltà degli umbri.

Daniele Palmieri

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