Se dovessi descrivere Epitteto in poche parole lo definirei come il più grande filosofo della libertà interiore.
Pensatore stoico vissuto nel II secolo a.C. che fu in grado di stregare, tra i molti, personalità così lontane nel tempo tra loro come Marco Aurelio e Leopardi, Epitteto è uno di quei pensatori riducibile a poche, chiare e poderose idee di fondo, che sono in grado di risvegliare una scintilla in quelle anime sensibili al genio filosofico.
Coerente con lo spirito socratico, Epitteto non ci ha lasciato scritti di suo pugno ma, per fortuna, il suo allievo Arriano ha conservato e pubblicato i preziosi appunti delle sue lezioni, diffuse al grande pubblico con il titolo di Diatribe, e ha compendiato il suo pensiero, cogliendone le idee principali, nel più noto Manuale.
Il secondo testo è, ad oggi, quello più venduto, letto e ristampato; fino ad ora anche io avevo assaporato la sua grandezza basandomi soltanto su di esso, uno dei miei testi filosofici preferiti, ma ora che ho avuto la possibilità di leggere e approfondire le Diatribe ho riscoperto un volto nuovo, ancora più splendente, di questa grande personalità del pensiero antico.
Come già accennato, le Diatribe sono la trascrizione di una parte delle lezioni che Epitteto teneva nella sua scuola, in particolare la parte conclusiva in cui, dopo aver esposto e studiato gli insegnamenti più scolastici, gli alunni potevano porre al maestro i loro dubbi e le loro domande. Rispetto al Manuale, dunque, più freddo e quasi dogmatico con le sue sentenze tanto profonde quanto lapidarie, le Diatribe restituiscono un'immagine molto più viva, ironica, gioiosa, mordace e socratica del filosofo, allontanando così lo stereotipo dello stoico freddo e insensibile come la pietra.
Più di ogni altro pensatore della medesima corrente, Epitteto è in grado di mostrare mediante i suoi discorsi appassionati come lo stoicismo sia da considerare anzitutto una propensione filosofica alla vita o, come lo definisce Max Pohlenz ne La Stoà, un grande movimento spirituale.
Addentrandoci nel pensiero del filosofo, la prima distinzione fondamentale che egli pone e sulla quale si base l'intera sua etica è quella tra beni che dipendono da noi e beni che non dipendono da noi; nella seconda categoria rientrano le ricchezze, la gloria, gli onori, i legami affettivi e tutti gli aspetti della vita che, volente o nolente, sono in balìa del caos. Se essi giungono in nostro possesso, è lecito assaporarli, così come è lecito tentare di guadagnarli; tuttavia, prima ancora di imbarcarsi in tale impresa e di godere di questi frutti è essenziale radicare la nostra vita nei beni che dipendono da noi, i beni interiori, altrimenti non saremo in grado di assaporarli pienamente ma ne saremo soltanto dominati.
Tra essi, i più essenziali sono il giudizio, la morale e la libertà. Una volta radicata la nostra vita su questi tre pilastri, sarà possibile affrontare l'esistenza senza il rischio di venirne schiacciati; al contrario, senza svilupparli si vivrà eternamente schiavi dei beni che non dipendono da noi.
In tale prospettiva, dunque, la filosofia è essenzialmente un esercizio di vita atto a portare alla luce quelle che sono le nostre più profonde potenzialità e il filosofo che aspira la saggezza è simile all'atleta che, per vincere le Olimpiadi, deve sforzarsi ogni giorno per resistere la fatica fino a vincerla.
Il giudizio è il primo "muscolo" da allenare. Esso ha a che fare con la rappresentazione delle cose esterne e, in particolare, il valore che diamo a esse; è quest'ultimo, infatti, che ci fa soffrire e che ci rende schiavi dei beni materiali che non hanno valore in sé, ma che hanno valore soltanto nella misura in cui noi glielo attribuiamo.
Un esempio utilizzato da Epitteto è quello della paura nei confronti dell'Imperatore. Qualsiasi uomo trovandosi di fronte all'Imperatore è portato a temerlo e ad avere, nei suoi confronti, un atteggiamento di passiva sottomissione; eppure, se all'Imperatore avviciniamo un bambino, abbastanza grande per essere cosciente ma ancora piccolo per comprendere le gerarchie sociali, quest'ultimo non avrà la minima reazione e, anzi, sarebbe in grado di avvicinarsi all'Imperatore senza battere ciglio. Com'è possibile che il bambino sia più coraggioso dell'uomo adulto? Ciò avviene proprio a causa del giudizio. Il bambino non si è ancora formato un giudizio sul concetto di Imperatore e su tutte le caratteristiche che gli vengono attribuite, poiché esse di fatti non gli appartengono "di per sé" ma sono frutto dei giudizi umani. Nel momento in cui l'adulto diventa in grado di spogliare le cose dai giudizi di valore che egli gli attribuisce, ecco che esse assumono un aspetto diverso.
L'Imperatore viene ridotto a un uomo qualunque dotato delle stesse facoltà di tutti gli uomini.
"Sì, ma lui ha il potere di esiliarti" si ribatterà.
"Devo andare in esilio: ebbene, chi mi impedisce di avviarmi ridendo, di buon animo e sereno?” (Diatribe, Rusconi Edizioni, pp. 78) risponderebbe Epitteto; chi dice, infatti, che l'esilio debba necessariamente essere vissuto con struggimento? Il giudizio errato.
"Ha anche il potere di condannarti a morte".
"Devo morire. Se subito, sono pronto a morire; se fra un po’, ora pranzo, perché è l’ora; poi morirò. In che modo? Come si conviene a un uomo che restituisce quel che è di altri” (Diatribe, pp. 80) ribatterebbe Epitteto; cosa cambia, infatti, morire adesso o morire tra dieci anni, se prima o poi a tutti tocca il medesimo destino? E sarà tanto meglio morire da uomo libero piuttosto che da schiavo. Anche in questo caso, a dare valore negativo alla morte è soltanto un nostro giudizio.
"Ma l'Imperatore ha anche il potere di ridurti in schiavitù".
“Ma io ti metterò i ceppi! Uomo, che dici? Metterai in ceppi la mia gamba; la mia scelta morale di fondo neppure Zeus può vincerla” (Diatribe, pp. 78) direbbe ancora Epitteto, che non può essere tacciato di mero intellettualismo poiché egli stesso aveva dovuto sopportare i ceppi della schiavitù, che la filosofia stoica gli rese sicuramente più leggeri poiché l'uomo libero è tale non in virtù di quello che possiede e del luogo in cui è costretto a vivere, ma in virtù della sua libera scelta morale. In questo ultimo passaggio entrano in gioco il secondo e il terzo concetto saliente della filosofia di Epitteto.
La libertà, per Epitteto, è uno degli impulsi più forti della vita.
“Esamina, riguardo agli animali, come applichiamo il concetto di libertà. Si allevano leoni in gabbia, si addomesticano, si nutrono, e alcuni se li portano appresso. E chi potrà dire che si tratta di un leone libero? Non è vero che quanto più comoda è la sua vita, tanto più è schiavo? Quale leone, se acquistasse la consapevolezza e la razionalità, vorrebbe essere uno di questi leoni addomesticati?” (Diatribe, pp. 429).
Nell'uomo, la libertà di cui si parla è essenzialmente libertà morale, la forma più alta di libertà a cui l'uomo può aspirare: la libera scelta personale di seguire ciò che la nostra coscienza ritiene giusto, indipendentemente da quella che è l'opinione e la volontà altrui. La scelta morale è la forma più sublime della libertà poiché non scaturisce da un impulso proveniente dall'esterno, bensì da una volontà che è soltanto interiore, non filtrata dai desideri che ci trascinano con la loro forza anche contro il nostro volere. Una scelta che se difendiamo strenuamente non potrà mai essere condizionata da nessuno, poiché essa proviene dall'interiorità della nostra anima a cui nessuno, per quanto potente, può avere accesso, soprattutto nel momento in cui ci siamo liberati dal ceppo dei giudizi di valore che attribuiamo alle cose esterne. Liberi, infatti, dalla paura di perdere ciò che inevitabilmente, un giorno, siamo destinati a lasciare, cominceremo a vivere senza alcun timore, pensando soltanto a realizzare la nostra perfezione interiore e a rispettare i nostri doveri morali verso gli altri, abbandonata ogni prospettiva egoistica (anch'essa dipendente dai giudizi di valori).
Non è certo semplice sviluppare una propensione simile alla vita; come già detto in precedenza, ci vuole esercizio; nulla si ottiene senza sforzo. L'importante è affrontare le avversità con la giusta attitudine spirituale, considerandole come l'esercizio necessario per temprare la nostra anima.
Utilizzando le parole di Epitteto:
“Lotta con te stesso, riportati alla compostezza, al rispetto e alla libertà. […] Non devi uccidere nessuno, né incatenare, né fare violenza, né andare all’agorà, ma parlare con te stesso, ossia all’uomo che è più in grado di darti ascolto, verso il quale nessuno può essere convincente più di te. E, innanzitutto, condanna quel che è avvenuto, poi, dopo aver condannato, non disperare di te e non provare i sentimenti degli uomini ignobili, i quali, dopo un primo cedimento, si lasciano andare completamente e sono, per così dire, trasportati dalla corrente; bensì, apprendi come si comportano gli allenatori. Il ragazzo è caduto. “Alzati,” gli dice l’allenatore “e ricomincia a lottare”. Qualcosa del genere provalo anche tu; sappi, infatti, che niente è più facile a guidarsi di un’anima umana. Basta volere, ed ecco: è raddrizzata; d’altronde, se solo sonnecchi è perduta. Difatti è dentro di noi che si trovano sia il danno sia il rimedio [...]
“Non ripetermi più: Come si volgerà la cosa? Perché, comunque si volga, te ne saprai servire convenientemente e l’accadimento sarà per te un successo. Chi sarebbe stato Eracle se avesse detto: “Come evitare che mi si presenti davanti un grosso leone o un grosso cinghiale o degli uomini selvaggi?” E che ti importa? Se ti si presenta davanti un grosso cinghiale, sarà più eroica la lotta che combatterai; se degli uomini malvagi, sgombererai il mondo dai malvagi. E se, così facendo, morissi? Morirai da uomo valente, nel compimento di una nobile impresa. Poiché, infatti, bisogna di certo morire, necessariamente devi essere sorpreso mentre fai qualcosa, mentre lavori i campi o zappi o commerci o ricopri la carica di console o hai un’indigestione o la diarrea. In quale occupazione vuoi essere colto dalla morte? Per quanto mi concerne, vorrei essere sorpreso mentre compio un’azione davvero umana, un’azione benefica, utile alla società e generosa” (Diatribe, pp. 499-501).
Questi sono solo tre dei molti temi affrontati dalle Diatribe, che consiglio a tutti di leggere poiché è uno di quei testi i quali, condivisi o meno dal lettore, non possono che portarlo a una maggiore consapevolezza di sé sfogliata l'ultima pagina.
Similmente ad Arriano, ho deciso dunque di compendiare alcuni dei temi principali formando una secondo, più breve, Manuale, raccogliendo le citazioni che più mi hanno colpito nel file in pdf che allego qui sotto.
Daniele Palmieri