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giovedì 26 agosto 2021

Introduzione alla lettura di Rudolf Steiner


Rudolf Steiner è stato uno dei personaggi più particolari del panorama filosofico, esoterico e mistico del XX secolo. Basta dare un occhio alla sua bibliografia, tanto quella scritta di suo pugno quanto l'immenso corpus di testi stenografati, per accorgersi della molteplicità di argomenti di cui ha trattato, che spaziano tra filosofia, mistica, esoterismo, occultismo, religione, mitologia, arte, educazione, medicina, alimentazione, perfino agricoltura. Ad una prima analisi, di fronte a questa varietà di argomenti così dissimili tra loro, si potrebbe guardare la sua figura con sospetto - e a parte anche a ragion veduta. Non sempre, difatti, Steiner ha avuto le competenze adatte per affrontare alcuni temi e spesso le sue teorie sono riprese a piene mani da movimenti complottistici e pseudoscientifici (anche se spesso in maniera estremamente semplificata). Eppure, vi è una certa tendenza, nella nostra epoca, a eliminare dalla discussione i personaggi scomodi solo perché i loro rami hanno dato vita anche a frutti bacati, ignorando così la molteplicità di buoni frutti nati in tutti gli altri rami. Così come non è razionale abbattere un albero solo per qualche frutto marcio, allo stesso modo è paradossale snobbare un pensatore solo per le derive più spinose del suo pensiero, senza nemmeno prendersi la briga di leggerlo, studiarlo, analizzarlo, comprenderlo e inquadrarlo nella sua cornice teorica. 
Questo discorso risulta fondamentale quando si parla di Steiner, tra le cui pagine si alternano vette di poesia e righe prolisse e impantanate, intuizioni geniali e teorie surreali, profondità filosofico-spirituale e bizzarre concezioni occultiste. Un groviglio di strade in cui, spesso, risulta difficile orientarsi ma che, con alcune linee guida, può trasformarsi in un viaggio dal sapore psichedelico in una concezione del mondo e del cosmo totalmente altra, che si può comprendere a pieno soltanto mettendo da parte, per un momento, la visione ordinaria della realtà e ogni pregiudizio sulla sua figura. D'altra parte se, da un lato, dai suoi rami sono nati frutti bacati, è altresì vero che le sue opere hanno avuto un grande impatto su diversi settori della cultura novecentesca, come sull'arte - l'intera teoria delle linee geometriche e della spiritualità del colore di Kandinsky, ad esempio, è basata sugli studi esoterici di Steiner -, sull'agricoltura - l'agricoltura biodinamica, spesso confusa con l'agricoltura biologica, deriva da una serie di pratiche sia agricole sia esoteriche basate sulla concezione steineriana del cosmo -, sulla pedagogia - da Steiner deriva la pedagogia Waldorf, molto diffusa in Germania e in Svizzera -, sulla rivalutazione e la diffusione degli scritti scientifici di Goethe, di cui Steiner fu uno dei principali commentatori filosofici. Ignorare Steiner significa ignorare un tassello importante per la comprensione di una fetta importante della cultura tedesca del novecento, i cui influssi sono ancora vivi ai giorni nostri e penso, dunque, sia importante affrontarlo e studiarlo quanto meno da questa prospettiva, senza necessariamente condividerne l'intero corpus dottrinario. Ho dunque intenzione di scrivere una serie di articoli per coloro che intendessero avvicinarsi al suo pensiero e alla comprensione della figura. 
Cominciando dal principio, per quanto sia un personaggio unico nel panorama della cultura, anche Steiner è figlio di una precisa corrente filosofica, esoterica, mistica e spirituale tipicamente tedesca, ed è a partire da questa cornice culturale che occorrerebbe inquadrarlo. 
Tra i predecessori di questa variegata linea genealogica possiamo citare il teologo Meister Eckhart, l'alchimista Paracelso, il mistico Jakob Bohme, l'omeopata Hahnemann, i filosofi idealisti come Hegel, Fichte, Schelling, e non ultimo, come già accennato, il Goethe scientifico, poetico e letterario. Autori di ambiti molto diversi ma collegati, oltre che dall'humus culturale della lingua tedesca di area germanica, svizzera e austriaca, da alcuni principi molto importanti. Primo tra tutti, una concezione estremamente "vissuta" del sovrasensibile, ossia l'idea che l'anima umana possa avvicinarsi al mondo invisibile non solo con la mediazione dei testi sacri o della teologia razionale, ma soprattutto attraverso un vissuto diretto, di tipo interiore, legato allo sviluppo delle potenze psichiche mediante esercizi spirituali di stampo meditativo, ascetico e contemplativo. Da tale prospettiva, la realtà metafisica non è un'idea teorica astratta costruita a tavolino, ma una realtà a se stante, tangibile quanto la materia, ma che richiede lo sviluppo dei sensi interiori necessari per poterla osservare, studiare, dissezionare, analizzare e descrivere. Così, esattamente come la scoperta dell'atomo o di altre galassie ha necessitato dell'ampliamento delle capacità visive attraverso le lenti dei microscopi e dei telescopi, allo stesso modo la realtà metafisica può essere osservata soltanto da coloro che impediscono ai loro sensi spirituali di atrofizzarsi, con un esercizio costante che li porta a svilupparsi e a fiorire.
In secondo luogo, l'idea che il cosmo, nella sua essenza, sia molto più simile al pensiero che alla materia e da qui la possibilità della mente di spaziare in ogni angolo dell'esistenza, dall'infinitamente piccolo all'infinitamente grande; da tale prospettiva, il pensiero o, meglio, l'Anima umana possiede una duplice natura; essa è al contempo un microscopio e un telescopio e la differente messa a fuoco del minuscolo e dell'immenso permette di scoprire un caleidoscopio di forme, figure, entità e leggi fisiche e spirituali che, in un tutt'uno inscindibile,  consentono lo sviluppo intrecciato dello spirito e della materia.
Infine, la prosa stessa di Steiner e il suo metodo teorico e pratico riflettono la medesima inventiva tipica dell'atteggiamento e della spiritualità tedesca che, in virtù di questa visione unitaria del cosmo, non concepisce la dicotomia tra discorso scientifico, discorso filosofico, discorso religioso e discorso poetico, poiché nell'Universo l'estetica ispiratrice della poesia, le leggi fisiche ispiratrici della scienza, la logica ispiratrice della filosofia e il sacro ispiratore della religione coincidono in un'unica entità dinamica, che nasce ed evolve al di là della limitata visione umana, spesso incapace di far coincidere questi discorsi contraddittori solo in apparenza.
Ciò, spesso, rende difficile la lettura delle opere di Steiner. Il primo ostacolo che si incontra quando ci si intende avvicinare alla sua figura è la sua immensa bibliografia. Ci si sente spaesati di fronte alla mole impressionante della sua Opera Omnia, che consta di oltre 400 titoli. Scegliendo un libro in base alla tematica suggerita dal titolo, si potrebbe incappare nel secondo ostacolo: la difficoltà del linguaggio e della terminologia steineriana. A dire la verità, Steiner non ha una prosa complessa come altri filosofi o mistici di lingua tedesca, eppure leggendo per la prima volta le sue opere, anche senza essere a digiuno di testi esoterici, si prova un senso di estraneità di fronte a una terminologia e a una modalità espressiva peculiare, che non si riscontra in altri scritti proprio perché frutto della libera ricerca di Steiner all'interno del "mondo dello spirito", che tenta di restituire al lettore le esperienze e le sensazioni vissute in prima persona. Per comprendere tali esperienze bisogna dunque imparare a familiarizzare per gradi con il mondo descritto da Steiner, così come per gradi si impara a conoscere la topografia di un luogo sconosciuto, e per farlo occorre tenere presente che gran parte dei testi steineriani pubblicati non sono, in realtà, scritti di suo pugno, bensì stenografie delle centinaia di conferenze che, per anni, egli ha tenuto in tutta Europa. E' sconsigliabile, dunque, avvicinarsi all'opera di Steiner attraverso i suoi testi stenografati, per una serie di motivi. Anzitutto, bisogna tenere presente che le conferenze, pur essendo volte a divulgare il pensiero antroposofico, parlavano a un pubblico che, in parte, già "masticava" il pensiero, la terminologia e il modo di esprimersi di Steiner. Di conseguenza spesso, in questi testi, ci sono molti elementi dati per scontato o, al contrario, numerose ripetizioni derivanti dallo stile orale che necessita di tornare più volte sullo stesso tema, per evitare che il pubblico perda il filo del discorso. Steiner stesso, pur condividendo la diffusione delle opere stenografate, mette in guardia il lettore sulla presenza di errori in esse contenuti; difatti, per sua stessa ammissione, queste opere, pur essendo redatte a partire dalle sue conferenze, non erano però riviste e corrette dall'autore e, di conseguenza, alcuni concetti potrebbero risultare astrusi non tanto per colpa di Steiner, quanto perché incompresi dallo stesso redattore.
Perciò, per un primo approccio con il pensiero steineriano è consigliabile cominciare con i libri scritti direttamente di suo pugno, in particolare dai quattro pilastri del pensiero antroposofico: Teosofia, l'Iniziazione, La Scienza Occulta nelle sue linee generali e La Filosofia della Libertà, con alcune incursioni anche all'interno de La mia vita, per comprendere come è cominciata e da quali principi ed esperienze si è evoluta la personale ricerca steineriana all'interno del mondo dello spirito.
Ho fatto più volte l'errore di approcciarmi a Steiner partendo dai suoi testi stenografati, salvo poi arenarmi nella tortuosità del linguaggio, della terminologia e del discorso, per poi convincermi a leggere i capisaldi del suo pensiero scritti direttamente dalla sua penna e posso confermare che vi è un abisso tra lo stile oscuro delle conferenze e la chiarezza cristallina dei suoi saggi, in grado di rendere comprensibile, a posteriori, anche i suoi testi stenografati.
In ogni caso, l'Iniziazione è forse il testo privilegiato per compiere i primi passi nel pensiero steineriano. Il testo, infatti, tenta di rispondere alla domanda: Come si conseguono conoscenze dei mondi superiori? Descrivendo fin da subito, in maniera chiara e concisa, non solo qual è il metodo operativo di Steiner ma, soprattutto, quali sono gli esercizi spirituali che consentono all'uomo di provare le sue stesse esperienza, senza dover fare affidamento alla fede cieca nelle sue parole.
Questo è l'aspetto più importante, a mio parere, per comprendere l'esperienza mistica e spirituale di Steiner. Benché spesso sembra di trovarsi di fronte alle parole di un mistico e di un profeta, che descrive una realtà spirituale totalmente altra, vi è in Steiner la volontà di trasmettere al lettore le modalità in cui vivere le medesime esperienze. Mentre la realtà del mistico e del profeta rimane ancorata alle loro visioni soggettive, alle quali non resta che prestare fede, Steiner non nasconde i suoi segreti operativi e descrive in maniera minuziosa come esercitare i sensi interiori vedere ciò che egli vede. Solo assumendo questa prospettiva sarà possibile comprendere realmente il contenuto filosofico, esoterico e spirituale dell'opera steineriana, senza bollarlo in maniera semplicistica come un pensatore bizzarro o un folle.
Perciò, idea cardine dell'opera è che: "In ogni uomo esistono facoltà latenti per mezzo delle quali può acquistarsi conoscenze sui mondi superiori. Il mistico, lo gnostico, il teosofo parlano sempre di un mondo degli spiriti, che sono per loro altrettanto reali quanto quello che si può vedere con gli occhi fisici e toccare con mani fisiche. Chi li ascolta può sempre dirsi che anch'egli può avere le esperienze di cui si parla se sviluppa in sé talune forze che ancora dormono in lui. Si tratta soltanto di sapere come occorra adoperarsi per sviluppare tali facoltà" (Rudolf Steiner, L'Iniziazione, Editrice Antroposofica, p. 15).
Gli esercizi che Steiner propone, inoltre, non sono da lui inventati di sana pianta, ma attingono all'antica tradizione occidentale, tanto pagana quanto cristiana. Ciò lo distingue dall'altro grande movimento della sua epoca, di cui Steiner stesso fece parte per un certo periodo prima di separarsene, ossia la Teosofia. In controtendenza rispetto alla Teosofia, infatti, Steiner tentò di riscoprire le radici misteriche occidentali degli insegnamenti occulti, senza volgersi quasi esclusivamente a oriente, come i teosofi. Questo perché, dal suo punto di vista, le scuole esoteriche sorte in Occidente e in Oriente sono le depositarie della sapienza vissuta del mondo spirituale, delle "officine dell'anima" volte a tramandare non soltanto un insieme di nozioni teoriche sui mondi superiori, ma soprattutto un insieme di pratiche per esperire in maniera diretta il mondo invisibile, attraverso lo sviluppo dei sensi psichici attraverso il superamento delle "prove spirituali", che insieme formano il cammino dell'iniziato. Citando Steiner:
"La scienza dello spirito parla di quattro qualità che il discepolo deve acquisire nel cosiddetto cammino delle prove, per accedere alle conoscenze superiori. La prima è la capacità di scindere nei pensieri il vero dalla parvenza, la verità dalla semplice opinione. La seconda qualità è la valutazione giusta del vero e del reale, rispetto alla parvenza. La terza capacità consiste nell'esercizio delle sei qualità: controllo del pensiero, controllo delle azioni, perseveranza, tolleranza, fede e imperturbabilità. La quarta è l'amore per la libertà interiore(Rudolf Steiner, L'Iniziazione, Editrice Antroposofica, p. 110).
Contrariamente alle persone dalla scarsa conoscenza dell'opera steineriana, che spesso lo tacciano di occultismo, superstizione medievale se non addirittura satanismo, le prove di cui si parla non consistono in strani riti magici, ma nell'esercizio delle basilari facoltà interiori. "Ci si deve rendere chiaramente conto" scrive Steiner "che si deve partire dai sentimenti e dai pensieri con ci si vive di continuo, e che si tratta soltanto di dar loro una direzione diversa da quella abituale. Ognuno deve dirsi anzitutto che nel mondo dei propri sentimenti e pensieri stanno nascosti i misteri più alti, ma che finora non li ha potuti percepire. In ultima analisi tutto si risolve nel fatto che l'uomo porta con sé di continuo corpo, anima e spirito, ma che è chiaramente cosciente soltanto del proprio corpo, non della propria anima e non del proprio spirito. Invece il discepolo diventa cosciente della propria anima e del proprio spirito, come gli uomini lo sono di solito del corpo. Questa è la ragione per cui importa dare ai sentimenti e ai pensieri la giusta direzione. Allora si sviluppano le percezioni per ciò che è invisibile nella vita ordinaria(Rudolf Steiner, L'Iniziazione, Editrice Antroposofica, p. 47).
Il primo esercizio proposto da Steiner per sviluppare la consapevolezza interiore dell'anima e dello spirito consiste nella seguente visualizzazione, che citeremo per intero in modo da rendere partecipe il lettore del metodo pratico operativo dell'esperienza esoterica steineriana. Scrive l'autore: "Ci si ponga dinanzi il piccolo seme di una pianta. Di fronte a questo oggetto insignificante, si tratta di sviluppare con intensità giusti pensieri e, con essi, determinati sentimenti. Anzitutto ci si renda chiaramente conto di che cosa in realtà si vede con gli occhi. Si descriva la forma, il colore e tutte le altre proprietà del seme, e poi si facciano le seguenti riflessioni: da questo seme, se piantato a terra, nascerà il complesso organismo di una pianta. Ci si rappresenti la pianta costruendola nella propria fantasia, e poi si pensi: le forze della terra e della luce più tardi faranno realmente scaturire dal seme ciò che ora mi rappresento con la fantasia. Se avessi davanti a me un oggetto artificiale che imitasse quel seme con tale perfezione che i miei occhi non potessero distinguerlo da un seme vero, nessuna forza della terra e della luce ne farebbe scaturire una pianta. Chi comprende con chiarezza e sperimenta interiormente questo pensiero potrà anche col giusto sentimento formare il seguente altro pensiero: Nel seme già riposa nascosta, come forza dell'intera pianta, ciò che più tardi ne crescerà e nell'imitazione artificiale questa forza non c'è, nondimeno per i miei occhi entrambi sembrano uguali. Il vero seme contiene dunque qualcosa di invisibile che non esiste nell'imitazione. Su ciò che è invisibile occorre volgere il sentimento e i pensieri. Si pensi: ciò che è invisibile si trasformerà più tardi in pianta visibile che mi apparirà con forma e colore. Ci si fermi su questo pensiero: ciò che è invisibile diventerà visibile. Se non potessi pensare, on mi si potrebbe neppure palesare fin d'ora ciò che diventerà visibile soltanto più tardi. Va sottolineato con precisione: ciò che così si pensa deve anche essere intensamente sentito. Nella calma, senza intromissione disturbatrice di altri pensieri, bisogna sperimentare il pensiero sopra accennato, e lasciarsi il tempo necessario perché il pensiero e il sentimento che ad esso si ricollega, si possano imprimere in certo qual modo nell'anima(Rudolf Steiner, L'Iniziazione, Editrice Antroposofica, pp. 47-48).
Questo lungo passo è emblematico del metodo steineriano. Come è possibile notare, la riflessione filosofica sulla natura della realtà e del pensiero - a tratti simile a quella cartesiana - non sfocia però nella metafisica astratta, nella riflessione teorica fine a se stessa, bensì in un impulso spirituale volto a trasformare l'invisibile in visibile, cambiando radicalmente la struttura interiore della percezione umana. Perciò L'Iniziazione è il testo privilegiato per cominciare ad approfondire Steiner. Per tutta l'opera Steiner non descrive la sua visione del mondo, ma trasmette al lettore i suoi esercizi di esperienza dell'invisibile, affinché questi possa compiere le prime esplorazioni, con i suoi passi, nella dimensione occulta.

Daniele Palmieri

giovedì 19 agosto 2021

In difesa della Wilderness. 5 libri per riscoprire la Natura Selvaggia


Qualche giorno fa, di ritorno dal Mar Baltico e dalla Foresta Nera, stavo camminando per le strade di Milano. A un certo punto, sotto il caldo torrido dell'estate, acuito dalle temperature infernali provenienti da cemento, vetro e asfalto, mi sono guardato attorno e ho provato una sensazione di angoscia e claustrofobia. Palazzi, asfalto, negozi, rumore, ferro, acciaio, automobili, smog, cemento, pavé, rotaie, semafori; l'intero paesaggio ha iniziato a sembrarmi totalmente innaturale. C'era qualcosa di inquietante, se non addirittura disturbante, in tutto ciò che mi circondava. All'inizio non riuscivo a comprendere cosa avesse provocato questa sensazione di costrizione e prigionia, poi, guardandomi ancora attorno, ho capito: in qualsiasi direzione posassi lo sguardo, non vi era un'area verde. Non un cespuglio, non un albero, non un prato o un'aiuola. Ovunque volgessi lo sguardo, in qualsiasi direzione, non vi era traccia di vita naturale - e la totale assenza di una "via di fuga vegetale", dopo oltre dieci giorni passati a stretto contatto con la natura, era stata percepita dal mio inconscio come una situazione di pericolo, come l'approdo in una terra del tutto aliena e ostile, dalla quale avrei dovuto fuggire al più presto.
Nel frattempo, in Italia e del mondo, si parlava dei violenti roghi che stavano bruciando (e che stanno bruciando tutt'ora) ettari ed ettari di foreste, le cui foglie, probabilmente, non vedranno più luce di fronte a questa avanzata inarrestabile dell'antropizzazione degli ambienti naturali che da oltre due secoli sta fagocitando ogni spazio libero. E, se nei secoli passati, i grandi disastri erano narrati nelle cronache storiche come punizioni divine, dal significato simbolico, dovute a qualche colpa dell'umanità, proprio ora che gran parte delle responsabilità di ciò che sta avvenendo dipende dalle mani umane, ci si volta dall'altra parte e ci si lava la coscienza cercando di ignorare il problema, incapaci di cogliere la punizione metaforica - ma anche terribilmente concreta - che questi fenomeni eccezionali, sempre più frequenti, incarnano. 
Questa cecità selettiva nei confronti dell'inquinamento e della distruzione della Natura non è un fenomeno recente ma si protrae da quasi 200 anni, per la precisione a partire dalle grandi rivoluzioni industriali del 1800 e del 1900 che, in nome di un fantomatico e mostruoso Progresso Economico, hanno sacrificato sull'altare del Dio Denaro tanto i diritti umani quanto i grandi spazi naturali, ormai totalmente soggiogati all'idea che il significato e il valore di un terreno o di un'area naturale risieda esclusivamente nelle risorse che da essi è possibile trarre. 
Ed è interessante notare come profetiche voci di dissenso abbiano iniziato a sollevarsi fin dalla metà del 1800, a dimostrazione di come il "problema ambientale" non sia un'invenzione moderna o una paura infondata dei "gretini", per citare il terribile neologismo inventato per screditare le fondamentali lotte ambientaliste, ma un problema dalle radici storiche estremamente profonde, nei confronti del quale qualsiasi forma di potere ha sempre scelto di voltare lo sguardo dall'altro lato perché considerato un impiccio per l'economia. Guai, infatti, a ostacolare il Dio Progresso.
In questo articolo, ho dunque deciso di presentare cinque letture a tutti coloro che vogliano da un lato evadere da queste prigioni di cemento in cui si sono trasformate le nostre città e che dall'altro lato vogliano approfondire le radici storiche del problema ambientale.
Filo conduttore dei cinque libri che suggerirò è la cosiddetta "Wilderness", parola inglese che letteralmente indica le terre selvagge, incontaminate, ma che dal punto di vista metaforico esprime qualcosa di più profondo: la meraviglia atavica che si prova di fronte ai vasti spazi vergini, alla Natura indomita e senza tempo di quei luoghi in cui ancora non sono riusciti a penetrare i tentacoli della civiltà, espressione di una Terra illibata da millenni. Luoghi sempre più rari da trovare, ora che rifiuti, inquinamento e cambiamenti climatici stanno devastando l'interno pianeta, e che alcuni coraggiosi pionieri dell'ambientalismo hanno sempre cercato di tutelare fin dalla prima metà dell'ottocento.
Partiamo in ordine cronologico.
I primi libri che suggerisco (che considereremo con un unicum, essendo
entrambi legati allo stesso autore) sono legati alla figura di John Muir. Si trattano di Andare in montagna è tornare a casa e Potevo diventare milionario, ho scelto di essere un vagabondo. La vita di John Muir. Il primo è una raccolta di scritti dello stesso John  Muir, il secondo una biografia a lui dedicata da Alexis Jenni ed entrambi sono stati pubblicati in Italia da Piano B Edizioni. John Muir è stato il pioniere della Wilderness americana. Indomito vagabondo delle terre selvagge, è stato uno dei primi pensatori a denunciare i danni causati dalla civilizzazione sfrenata e a lui si deve il concetto di "salvaguardia" degli ambienti Naturali, l'idea che alcune zone debbano essere protette da qualsiasi forma di sfruttamento umano per preservarne gli equilibri, la vita vegetale e animale e, in una sola parola, la "Wilderness" primordiale. "Così la vita di John Muir" scrive Alexis Jenni per delinearne un poetico ritratto "lunghe camminate in luoghi non occupati dall'uomo. Qui incontra eremiti, uomini decisi a

uscire dal mondo, che si installano là dove non c'è vicinato, per parlare solo alle marmotte e agli uccelli. Con loro passava qualche ora, condivideva un pasto, un fuoco da campo, chiacchierava volentieri ma sapeva anche ascoltare, raccontava storie, ascoltava le loro, poi riprendeva il suo cammino. [...] Muir vuole andare, sempre avanti, più lontano. Questo è tutto. E osservare. Tutto il resto, tutto ciò che di solito è la vita di un uomo, la ricchezza, la comodità, la protezione, è sacrificato a questa libertà
" (Potevo diventare milionario, ho scelto di essere un vagabondo, Alexis Jenni, Piano B Edizioni). Questo "lieve vagabondaggio" sulla terra lo accompagnerà per tutta la vita, tra montagne, laghi, fiumi e valli, sempre in cerca della Wilderness originaria che, come un profeta, cercò di incarnare nei suoi ritorni alla civiltà per dar voce, quasi fosse uno Spirito della Natura, a quelle terre vergini e ataviche che la civiltà rischiava e rischia tutt'ora di distruggere.

Il secondo libro
è di un autore per certi versi analogo a John Muir, sebbene lievemente più "civilizzato, ossia Aldo Leopold. Si tratta di Pensare come una montagna. A Sand Country Almanac, anch'esso edito da Piano B Edizioni (a cui si deve il merito di tradurre in Italia alcune opere fondamentali dell'ambientalismo internazionale). Prima ancora di presentare l'autore, le prime righe del suo testo ne compendiano alla perfezione lo spirito e la lotta: "Ci sono uomini che possono vivere senza natura selvaggia e uomini che non ci riescono. Questi saggi raccontano le gioie e i dilemmi di uno che non può farne a meno. Come il vento e i tramonti, la natura selvaggia è sempre stata data per scontata, finché il progresso non ha iniziato la sua opera di devastazione. Oggi ci troviamo di fronte alla questione se un più "elevato" tenore di vita possa compensare la scomparsa di tutto ciò che è naturale, libero e selvaggio. Per noi, che siamo una minoranza, l'opportunità di osservare delle oche è più importante di guardare la televisione e la possibilità di trovare una pulsatilla è un diritto altrettanto inalienabile della libertà di parola" (Pensare come una montagna, Aldo Leopold, Piano B Edizioni, p. 17). Insieme a Muir, Aldo Leopold è stato uno dei "fondatori" dell'ambientalismo americano, per non dire internazionale. Considerato, insieme a Walden di Thoreau, uno dei classici della letteratura naturalistica, A Sand Country Almanac è, come suggerisce il titolo, un almanacco, simile agli almanacchi popolari, che attraverso pensieri, suggestioni sparse, eventi di vita, riflessioni, meditazioni, racconti e brevi saggi cerca di trasmettere la passione per la Natura indomita, sempre nel tentativo di sensibilizzare l'uomo sulla connessione intrinseca che lega la sua sopravvivenza alla conservazione della Wilderness. In quest'opera le descrizioni poetiche della Natura in tutta la sua potenza e in tutto il suo splendore si alternano alle drammatiche denunce dei disastri dovuti all'inquinamento industriale e antropico, sia di un altro grande problema, ancora estremamente attuale, quello del turismo di massa che cerca di trasformare la Natura in un immenso parco giochi. Leopold fu uno dei primi a sottolineare che il fine dell'ambientalismo non sia quello di creare delle aree naturali dove l'uomo possa svagarsi in pace, ma di cercare un sano equilibrio tra il mondo civilizzato e la Natura e, soprattutto, di riscoprire il legame etico che collega la vita alla Terra. "Noi abusiamo della Terra perché la consideriamo come una merce che ci appartiene" scrive Leopold "E' solo quando vediamo la Terra come una comunità a cui appartenere, che iniziamo a trattarla con amore e rispetto. Non c'è altro modo in cui la terra possa sopravvivere all'impatto dell'uomo meccanizzato, né per noi di mietere la messe estetica che essa, sotto l'egida della scienza, è in grado di offrire alla cultura. La terra come comunità è il principio base dell'ecologia, ma che essa sia qualcosa da amare e rispettare è un'estensione di natura etica" 
(Pensare come una montagna, Aldo Leopold, Piano B Edizioni, p. 18).
Con il terzo libro ci inoltriamo nell'epoca presente. L'autore è Gary Snyder, poeta e ambientalista contemporaneo, e il testo in questione è La Pratica del Selvatico,
edito da Fiori Gialli Edizioni. Come il libro di Leopold, La Pratica del Selvatico è una raccolta di saggi, un vero e proprio invito all'azione per recuperare, appunto, la "pratica della natura", per riavvicinare l'azione dell'uomo a quella terra da cui le città lo hanno tagliato fuori. Le sue parole descrivono alla perfezione il concetto di "Wilderness". Scrive l'autore nel libro: "L'uso che Milton fa del termine Wilderness coglie la vera condizione di energia e ricchezza che si trova così spesso nei sistemi selvatici. Una distesa di dolcezze richiama i miliardi di piccole aringhe e sgombri nell'oceano, i chilometri cubi di krill, i semi delle piante erbacce della praterie [...] tutte la incredibile fecondità dei piccoli animali e piante che nutrono la rete della vita. Ma, da un altro punto di vista, wilderness ha implicato chaos, eros, lo sconosciuto, i reami del taboo, l'habitat sia dell'estatico che del demonico. In entrambi i sensi è un luogo di potere archetipico, insegnamento e sfida" (La Pratica del Selvatico, Gary Snyder, Fiori Gialli Edizioni, p. 22). Per Snyder il "selvatico" è lo stato originario della vita, rappresenta la libertà originaria di ogni essere vivente, il lato indomito che la civiltà, per sua stessa essenza, necessita di domare. Un dominio in parte necessario, ma che si fa dispotico sia nei confronti dell'uomo sia nei confronti della Natura quando comincia a tiranneggiare esigendo il controllo assoluto, per mezzo dello sfruttamento. Tagliare del tutto i ponti con la Natura, così come sta avvenendo nelle nostre città, significa privare l'uomo di questa libertà originaria, renderlo schiavo dei suoi comfort privandolo della capacità di soddisfare i suoi bisogni primari se non per mezzo delle cose che egli può fare e acquistare all'interno della società e della cultura umana. La Pratica del Selvatico consiste nel recupero di questa libertà originaria, che però non deve essere ricercata solo per l'ebrezza del brivido e dell'emozione forte - altra ricerca "negativa", frutto del turismo di massa e del consumismo naturale. "Il galateo del mondo selvatico" scrive Snyder "non richiede solo generosità, ma una specie di rude e allegra capacità di tollerare i disagi con buon umore, di comprendere la fragilità di tutti e una certa umiltà. L'abilità di raccogliere velocemente le more, l'istinto di seguire una pista, di sapere dove si può fare una buona pesca, di saper leggere la superficie del mare o il cielo, queste cose non si conquistano soltanto con la fatica. Andare in montagna richiede le stesse qualità. Per queste azioni ci vuole allenamento, il che richiede una certa dose di sacrificio e intuizione e bisogna svuotarsi di se stessi. Alcuni hanno avuto grandi visioni soltanto dopo essere arrivati a non avere più niente. [...] Per chi vuole cercarla direttamente, entrando nel tempio primordiale, la wilderness può essere un maestro terribile, che dilania all'istante gli inesperti e i distratti. E' facile commettere gli errori che porteranno al punto di non ritorno. In senso pratico, una vita dedita alla semplicità, al giusto coraggio, al buon umore, alla gratitudine, al lavoro e al gioco senza riserve, e tanto cammino, ci portano vicino al mondo effettivamente esistente e alla sua interezza. La gente delle culture della Wilderness raramente va in cerca di avventure. Se rischiano deliberatamente è per ragioni spirituali, piuttosto che economiche" solo affrontando la Natura con questo spirito "Le lezioni che impariamo dal mondo selvatico diventano galateo di libertà. Possiamo godere della nostra umanità, del suo cervello favoloso e della sua sessualità vibrante, le sue ambizioni sociali e i suoi malumori ostinati e considerarci né più né meno come gli altri essere nel Grande Spartiacque. Possiamo accettare gli altri come esseri uguali a noi, che dormono a piedi nudi sulla stessa terra. Possiamo rinunciare alla speranza di diventare eterni e smettere di combattere la sporcizia. Possiamo tenere alla larga le zanzare e i parassiti senza odiarli. Senza aspettative, attenti e sufficienti, riconoscenti e premurosi, generosi e diretti" (La pratica del Selvatico, Gary Snyder, Fiori Gialli, pp. 34-36)
Dopo aver dato il monopolio letterario ad autori americani, è giusto concedere un po' di spazio ad autori nostrani. E lo faccio con due giovani e promettenti voci letterarie e ambientaliste nostrane.

Così, il quarto libro è di Francesco Boer, scrittore e fondatore del blog Alchimia dei Simboli, Troverai più nei boschi, edito da Il Saggiatore. Ho già avuto modo di parlarne in un articolo a esso dedicato, ma ci tenevo a riparlarne in questa lista perché il libro di Boer recupera un aspetto fondamentale del rapporto con la natura: la connessione simbolica e spirituale. Spesso si pensa alla battaglia ambientalista esclusivamente in termini "scientifici"; i dati, le informazioni, le rilevazioni che dimostrano il nesso causa-effetto tra l'attività umana e l'inquinamento, i cambiamenti climatici, la moria degli animali selvatici e la distruzione degli ambienti naturali. Ma raramente ci si sofferma sul significato simbolico che questa distruzione rappresenta per la psiche e la spiritualità umana. Per millenni l'uomo, anche nelle grandi città del passato, ha vissuto immerso in una natura indomita. Ampi spazi naturali circondavano i paesi; lunghi spostamenti in territori selvaggi e irti di pericoli naturali separavano una comunità dall'altra e questa connessione simbolica di incontro/scontro con il selvatico ha sempre dato vita a miti, riti, usanze, folklore, leggende, emozioni; in altri termini, la Wilderness ha sempre fatto parte dell'esperienza umana, almeno finché la Natura Selvaggia, con l'avanzare della civilizzazione, non è stata ridotta ad aree lontane, a un paesaggio di sfondo, a un lontano ricordo. Quando l'uomo ha abdicato alla Natura, ha messo da parte anche questa connessione originaria con il simbolo - il luogo d'incontro tra la sua interiorità e lo spazio selvaggio. Ma, come scrive Boer: 
"Il simbolo è la via che ci permette di intuire la fratellanza fra coloro che sembrano estranei. Grazie a questa rotta, possiamo tracciare un sentiero al tempo stesso nuovo e antico: la relazione che concilia l'essere umano e la natura. Non è un rapporto di dominio, con ci l'uomo tenta di ergersi sopra l'ambiente in cui vive, per sfruttarlo e renderlo schiavo. Ma non è nemmeno un asservimento dell'uomo, né si tratta di denigrarlo di fronte a un'immagine idealizzata della natura. E' piuttosto un confronto alla pari [...] è riconoscere la propria unicità ma anche comprendere che le diversità sono il canale per comunicare" (Francesco Boer, Troverai più nei boschi, Il Saggiatore, pp. 14-15). Il simbolo è una forma di comunicazione in grado di connettere l'uomo al Pianeta e la Natura, apparentemente muta, ci ha sempre comunicato tramite simboli. Sempre citando Boer: "La natura ci parla tramite i simboli. Un prato, un bosco, un fiume: non sono soltanto luoghi esteriori, ma spazi dell'anima. Il simbolo non è solo lì fuori, ma non è nemmeno una nostra elaborazione mentale. La sua vera essenza è nel rapporto, nell'assonanza che fa vibrare all'unisono il cuore e il mondo esterno. Grazie a questa empatia, a questa grande compassione, l'essere umano può accedere a una relazione con la natura che altrimenti gli rimarrebbe preclusa" (Francesco Boer, Troverai più nei boschi, Il Saggiatore, pp. 14-15). Dimenticare questo linguaggio significherebbe condannare a morte un'intera regione del nostro spirito.
Concludiamo con il quinto libro, una delle disamine più complete pubblicate in

Italia sui problemi inerenti al cosiddetto Antropocene, l'epoca geologica dell'umano, e sul tentativo di invertire la rotta restituendo alla Natura - ma anche all'interiorità umana - il Selvatico a essa sottratto. Si tratta di Into the (Re)Wild di Natan Feltrin, testo autopubblicato dall'autore, filosofo e ambientalista italiano, fondatore di Wild Matters, che da molti anni a questa parte ha preso parte a diversi progetti legati alla fauna e alla flora selvatiche. Into the (Re)Wild è il primo testo pubblicato in Italia sul concetto di Rewilding, l'idea di decostruire parte della civiltà "in sovrabbondanza" per restituire alla Natura, vegetale e animale, gli spazi impropriamente sottrattigli. Questa operazione procede di pari passo a una "Rewilding" interiore, analogo alla Pratica del Selvatico descritta da Snyder. "Il Rewilding" scrive Feltrin "è un movimento che mira al ripristino delle condizioni necessarie affinché la natura - gli ecosistemi - sia in grado di autodeterminarsi senza il controllo costante di una sola specie. [...] Il rewilding è un'occasione di ripensamento del nostro rapporto con la natura, di restituzione agli altri viventi, di ricostruzione alle connessioni ecologiche perdute e di disobbedienza all'imperativo genocentrico che vorrebbe favorissimo la nostra specie a scapito di qualunque istanza etica" (Natan Feltrin, Into the (Re)Wild, pp. 29-30). Non bisogna tuttavia confondere questo tentativo di "riparazione" con una restaurazione originaria. Non si tratta di una volontà malinconica e romantica di tornare a un non meglio precisato passato primitivo; si parla anzitutto di sopravvivenza, sia della nostra sia delle altre specie del pianeta, minacciate dalla macchina ormai fuori controllo del progresso umano. "L'idea non è quella di tornare nel pleistocene" scrive Feltrin "bensì di ricreare le condizioni ecologiche più sane e dinamiche di cui siamo a conoscenza, ovvero il rapporto co-evolutivo della comunità Cenozoica prima che la nostra specie - e non il clima - causasse l'estinzione della megafauna". Un processo, quello dell'Antropocene, che nell'ottica dell'autore è ben precedente alla meccanizzazione della civiltà odierna e che è cominciato con la colonizzazione della terra da parte dell'Homo Sapiens fin dalla Preistoria umana. Si tratterebbe, dunque, di un cambio di rotta radicale, un vero e proprio salto evolutivo-cognitivo che dovrebbe portare l'uomo a ridefinire totalmente la sua posizione sulla Terra, giacché fin dalla sua comparsa l'Homo Sapiens pare aver destabilizzato l'intera ecologia del pianeta per plasmarla a sua immagine e somiglianza.

Daniele Palmieri

Immagine: dipinto di Nicholas Roerich, 1930.