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martedì 30 maggio 2017

Daniele Palmieri: Vivere etico. Mente animale, disobbedienza civile e vegetarianesimo

Eretica Edizioni ha pubblicato un mio nuovo libro, Vivere etico. Come da sottotitolo, esso tocca tre temi molto scottanti e attuali: la mente animale, la disobbedienza civile e il vegetarianesimo.
Sono tre temi intrinsecamente interconnessi tra loro. L'abbandono dell'approccio cartesiano e comportamentista che basava la psicologia del secolo passato ha, infatti, portato alla scoperta di un mondo mentale animale estremamente complesso e variegato, anche in quegli esseri viventi generalmente considerati (a torto) come "inferiori". Le scoperte scientifiche più recenti sulla mente animale, che tratto nei primi due saggi del testo (Quando gli animali parlano e ragionano; Genealogia del mondo sociale) mostrano come gli animali siano in grado di avere credenze, desideri, emozioni e, addirittura, una ragione e strutture sociali molto simili a quelle dell'uomo. Scoperte che devono portare necessariamente ad abbattere l'antropocentrismo imperante che ha sempre contraddistinto la nostra specie e che hanno sensibili ripercussioni sull'etica. Se, infatti, ci troviamo di fronte ad altri esseri senzienti dalla cognizione complessa, come ci è possibile ignorarli nelle nostre scelte etiche e, soprattutto, come siamo giunti a tale grado di insensibilità alla sofferenza (che ha la propria apoteosi nelle fabbriche di carne contemporanee, altresì denominate "allevamenti intensivi")? Affronto questo tema nel quarto saggio, Vivere etico, che attraverso una fenomenologia della morale descrive i processi psicologici che portano l'uomo a ignorare il dolore non solo degli animali, ma anche di altre minoranze (siano esse politiche, etniche, religiose) escludendoli così dalle proprie scelte morali. Il vegetarianesimo, così come l'agire molare consapevole, diviene una forma di disobbedienza civile (tema del terzo saggio presente nella raccolta, Disobbedire secondo ragione e coscienza) in una società sorda e muta, l'unica soluzione per salvare non solo migliaia di vite innocenti, ma anche un pianeta distrutto dallo sfruttamento incondizionato delle risorse. 

E' possibile acquistare il testo presso il sito di Eretica Edizioni: Vivere etico. Mente animale, vegetarianesimo e disobbedienza civile
Oppure direttamente da me, con dedica e autografo, contattandomi sulla pagina Facebook di Nero d'inchiostro, o su quella di Diario di un cinico gatto, o all'indirizzo email: nerodinchiostro94@gmail.com

Daniele Palmieri

lunedì 29 maggio 2017

Giacomo Giarraffa: Il Cavaliere, La Morte e il Diavolo


Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo è un breve romanzo iniziatico di Giacomo Giarraffa, pubblicato da Edit@ edizioni nella collana “Orfeo”, dedicata alla narrativa esoterica di autori contemporanei (insieme al testo di Luca Valentini, Cantiche alla Musa, di cui mi occuperò presto).
Come suggerisce sia il titolo sia l’immagine in copertina, il testo è ispirato, sia nei protagonisti sia nel tema iniziatico/esoterico, all’omonima incisione di Durer e come, come in quest’ultima, nella novella aleggia la medesima nube di mistero, che rende le rispettive opere simili a un sogno e i tre protagonisti delle figure archetipiche in grado comunicare direttamente all’inconscio.
Il racconto si inserisce in quella che tradizionalmente è l’ultima delle quattro fasi della vita, in cui per l’uomo, dedicatosi ormai alla vita attiva, giunge il momento di dedicarsi alla vita contemplativa. A segnare questo passaggio, come in ogni rito iniziatico, è un momento di grande dolore. La novella si apre infatti con il protagonista, il cavaliere Ritter, che piange la morte del suo compagno d’armi, con cui era legato da un intimo legame di affetto. Si tratta della “notte oscura dell’anima”, il momento della vita segnato da un grande dolore in cui tutto sembra perdere di senso, ma che è allo stesso tempo un passaggio necessario per raggiungere una maggiore consapevolezza.
Infatti, improvvisamente, dalla notte scura, emerge una voce cupa e sibillina: “Si dice che quando un uomo muore tutto l’universo si ferma un istante, in rigorosa commozione. Io aggiungerei che si ferma in quell’istante in rispettosa devozione, se quella vita gli fosse servita a ritrovare la strada di ritorno”.
Il Cavaliere si volta, trovandosi di fronte a una figura enigmatica, ammantata da un lungo saio di lana grezza, il volto pallido e una scure alla quale si appoggia come fosse un bastone. Dato lo sbigottimento iniziale del protagonista, la fosca figura si qualifica come il guardiano di un vecchio cimitero lì nei dintorni e dopo un veloce scambio di battute, altrettanto enigmatiche, i due sono costretti a ripararsi proprio nel cimitero a causa di una tempesta che si fa sempre più forte e sempre più vicina.
Qui seppelliscono il corpo dell’amico morto e, intanto, inizia un lungo colloquio esoterico sulla vita e sulla morte. “L’essenza dell’uomo va al di là dei soli istinti, della morale, delle paure o dei sentimenti” dice l’enigmatica figura al Cavaliere, “l’uomo è fatto della stessa materia delle stelle e del sole, l’essenza dell’Uomo è il Fuoco. In vita è frammisto all’Acqua che si adatta alle vicende della vita materiale, come l’acqua che è contenuta in una caraffa ne prende le forme adattandosi a essa. Quando si è giunti alla fine della propria esistenza si avverte il freddo che attanaglia il cuore: è il Fuoco che è già evaporato, lasciando solo l’umido dell’Acqua di una esistenza intera. Quel fuoco ritorna alla sua forma originaria; una parte dell’acqua viene assorbita dalla terra insieme al corpo, l’altra rimane in mezzo a noi e va a evaporare lentamente fino a dissolversi per sempre”.
Il Cavaliere cerca di capire le parole del guardiano del cimitero, e presto si ritrova a raccontare la propria vita. Egli era un crociato, imbarcatosi in pellegrinaggio verso la guerra santa, ed è proprio sul campo di battaglia che aveva incontrato il suo migliore amico, Erin, che gli aveva salvato la vita nel momento del pericolo. Tirando le somme della propria esistenza, Ritter si accorge che tutto il suo vagabondare era sempre stata una “piccola guerra santa”; “Il discorso sul Fuoco mi risuona familiare, come una voce che riecheggia dalla nebbia dei ricordi. Più vecchia dei ricordi stessi. Il mio è un richiamo che si perde nella memoria. E’ per questo che sono sempre in viaggio, arruolandomi a volte anche in imprese pericolose come le Crociate; sono sempre alla ricerca, in cammino da sempre, come un pellegrino che si trasforma in guerriero lì dove necessario per soddisfare questa disperata ricerca”.
Tuttavia, essa è sempre stata “disperata” proprio perché volta al mondo esteriore. Ritter, vagando per il mondo, non ha mai affrontato la “grande guerra santa”, quella che si svolge nell’interiorità dell’individuo, contro i propri demoni interiori. Ed è proprio la morte del suo caro amico Erin a scatenarla, e lo stesso Cavaliere ne è consapevole: “Sono in cammino da sempre e non tornerò fino a quando non colmerò questo vuoto che mi porto dentro. Questa notte combatterò la battaglia più dura” recita la quarta di copertina.
L’esito di questa battaglia? Addentratomi fino a questo punto, lascio al lettore la curiosità di scoprirlo, anticipando solo che, dei tre personaggi della xilografia di Durer, ancora non è stato citato il Diavolo.
Per concludere la presentazione del testo, posso dire, in linea con la prefazione di Luca Valentini, che Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo è una novella esoterica in grado di dosare bene gli elementi archetipici del percorso iniziatico, condensando in poche pagine una sintetica ma precisa descrizione di quella che tradizionalmente è considerata la via “operativa” dell’iniziazione, che passa tanto dalla vita attiva quanto da quella contemplativa.

Il Cavaliere, la Morte e il Diavolo, Giacomo Giarraffa, Edit@ Edizioni.


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Daniele Palmieri

martedì 16 maggio 2017

Franco Cardini: Alle radici della cavalleria medievale

La figura del cavaliere medievale, con indosso la scintillante armatura, la lancia e la spada, a cavallo di un bianco (o nero) destriero è una delle grandi immagini archetipiche che non cesseranno mai di ammaliare l'uomo con la loro sublime (dunque terribile e incantevole) bellezza; persino nell'era della tecnica, in cui la guerra è stata completamente razionalizzata, geometrizzata e robotizzata.
Questo perché il cavaliere, benché anch'egli portatore di armi non meno temibili, preserva tuttavia un'aurea mistica; si percepisce che sul filo della sua spada e dietro la sua armatura si nasconde dell'altro. Non una furia cieca e barbarica, nemmeno il freddo calcolo della macchina, ma un valore etico che trascende l'ordinario.
Senz'altro questa è un'immagine idealizzata; anche i cavalieri, soprattutto nel medioevo, si sono macchiati di crimini terribili. Tuttavia, come scrive Huizinga ne L'autunno del medioevo: "La cavalleria non sarebbe rimasta l’ideale di vita di molti secoli, se non avesse contenuto in sé alti valori per lo sviluppo della società e se non fosse stata necessaria dal punto di vista sociale, etico ed estetico. A suo tempo, la stessa bella esagerazione aveva fatto la forza di quell’ideale. E’ come se lo spirito medioevale, colla sua crudele passionalità, non potesse essere dominato altro che mettendo l’ideale troppo in su: è quello che fece la Chiesa e che fece anche lo spirito cavalleresco. […] Ma quanto più un ideale civile esige virtù supreme, tanto maggiore è la discrepanza fra forma di vita e realtà”.
Alle radici della cavalleria medievale di Franco Cardini analizza proprio l'origine del fascino sovrastorico del cavaliere, e con una approfondita analisi storica e filosofica ne ricostruisce la nascita, la diffusione, i principi e le contraddizioni.
Il quadro che ne esce, alla fine della trattazione, è quello: “del cavaliere medievale come di un uomo eccezionalmente ben armato per il suo tempo, nonché dotato di un prestigio che gli proveniva tanto dalla sua alta qualificazione militare quanto da un sistema di rappresentazioni mentali collettive che scorgeva nell’uomo a cavallo il simbolo di valori eroico-sacrali specialmente connessi alla vittoria sulle forze del male e al complesso di credenze relative all’Aldilà, al viaggio nel mondo dei defunti, alla sopravvivenza dell’anima”.
La sua natura simbolica nasce infatti da una lunga tradizione religiosa e, benché nel comune sentire essa sia quasi automaticamente collegata a una religiosità cristiana, che porta subito alla mente i romanzi del ciclo arturiano, o la figura del pio cavaliere che combatte in nome di Dio, essa affonda le proprie radici in un passato ben più lontano. Ed è scavando nel profondo terreno del mito e della storia, in cerca di tali radici, che Franco Cardini conduce il lettore tra le popolazioni definite "barbariche" e il loro complesso di valori e simbologie pagane. Non è un caso, infatti, se gli ideali cavallereschi nascono e si sviluppano in un'età storica successiva alla caduta dell'Impero Romano, quando etnie molto diverse per cultura e religione cominciano a insediarsi nei territori Latini. Da un lato, il venir meno di un potere fortemente centralizzato come la macchina Statale Romana cambia radicalmente l'assetto della guerra. In Europa non vi è più uno Impero che ha il potere politico e finanziario di creare un esercito stabile di professionisti del conflitto come era quello dell'Urbe. In secondo luogo, le stesse popolazioni che si insediano hanno una concezione culturale radicalmente diversa della guerra, dai tratti non solo politico-strategici ma anche mistico e sacrali. Emblematico, da questo punto di vista, è il popolo dei Longobardi. Discesi, come racconta Paolo Diacono ne La storia dei Longobardi, dalla lontana Scandinavia, essi portano con loro gli antichi culti pagani degli dèi Nordici. Dèi guerrieri, come Thor/Wotan con il suo poderoso martello, che premiano i caduti in battaglia tra le colline del Walhala dove, paradossalmente, il più grande onore è continuare a combattere (di giorno) e godere dei piaceri dell'alcool insieme ai propri fratelli e ai nemici (di notte). Non a caso, sempre per i Longobardi ma, in generale, per i popoli Germani, era considerata disonorevole la morte di vecchiaia nel proprio letto; il più grande onore era morire in battaglia al fianco dei propri fratelli.
“Come si ottiene e si gestisce questo furor divino che, come qualunque altra forza divina, l’uomo possiede solo a suo rischio e spesso con sua pena? La via per giungervi passa attraverso un regime di concentrazione, di purificazione, di maturazione; è, in altri termini, una via iniziatica durante la quale ci si prepara ritualmente e spiritualmente, una via irta di tabù specie alimentari e sessuali” scrive Franco Cardini per sottolineare il valore sacrale della guerra in tali popolazioni.
Questa mistica del combattimento, che all'apparenza potrebbe sembrare soltanto retorica, era in realtà sorretta da un profondo e sentito senso religioso, come dimostrano le sepolture dei Longobardi (che è possibile ammirare nel museo archeologico di Cividale del Friuli). Vi era, infatti, una così grande simbiosi spirituale tra il guerriero, le sue armi e il proprio cavallo, che tutti questi elementi venivano seppelliti con il defunto, nonostante il loro grande valore economico, proprio perché le armi possedevano un valore sacrale: esse erano consegnate solo agli uomini degni di usarle, dopo precisi riti di iniziazione, e cavallo e spada dovevano guidare il guerriero anche nell'al di là.
Come scrive Franco Cardini: “Anche la spada, come il cavallo, era un’arcana compagna. Forgiata da quell’artigiano-mago che era il fabbro, tutti gli elementi convergevano nella sua lavorazione: la terra da cui il metallo veniva tratto, il fuoco che serviva a piegarlo ai voleri dell’uomo, l’aria che lo raffreddava, l’acqua che lo temprava. […] La spada stessa è di per sé sacra: ce lo confermano le fonti tanto epiche quanto giuridiche germano-pagane […]. La sacralità della spada viene, ancora una volta, dal mondo delle steppe: ne sono stati tramite i Germani e i popoli iranici del nord” .
Grande disonore per i profanatori di tombe che osavano rubare a un morto oggetti così preziosi. Allo stesso tempo, proprio questa mistica è ciò che definisce culturalmente tali popoli come "popoli-esercito", organizzati secondo strutture tribali che, definite come "barbare" dagli occhi dei Romani, sono in realtà caratterizzate da un forte senso di uguaglianza tra gli uomini liberi e da una distribuzione di potere orizzontale, in cui il capo tribù è un primo inter pares. Questo a causa del forte senso di fratellanza guerriera, accompagnato al fatto che a rendere un uomo libero, tra i popoli nordici, è proprio la sua abilità di combattere e la sua possibilità di permettersi le armi.
Come accennato in precedenza, però, lo spirito della cavalleria non è animato esclusivamente da valori "barbarici"; c'è dell'altro dietro e, sebbene in essi affondi le proprie radici, vi è un'indubbia influenza cristiana che ha catalizzato tali forze, indirizzandole verso altri principi. A contatto con il mondo cristiano, che fin dall'epoca di Agostino aveva cominciato ad affrontare il conflitto tra vita cristiana e necessità della guerra, ecco che: “Nelle radici storico-religiose del cristianesimo la Chiesa alto-medievale, sollecitata dal contatto con popolazioni che facevano della guerra il centro della loro esperienza sociale e religiosa nonché dai problemi di apostolato che questa situazione sollevava, rinvenne non già le giustificazioni d’un compromesso, ma anzi le basi se non altro simboliche di un’autonoma valutazione spirituale positiva dell’uomo che combatte e del combattere. Del combattere inteso, è bene dirlo, non come equivocamente ridotto a funzione dell’uccidere, che è anzi funzione collaterale e non necessitante; bensì inteso e assunto nel suo significato centrale e sostanziale, secondo cui l’uomo che combatte è l’uomo che si oppone a quello che per lui, per il gruppo nel quale è inserito, per il tempo nel quale vive, costituisce un male ed è pertanto figura della presenza del Male nel mondo. La tragica realtà della guerra, lungi dal venire in blocco respinta nel nome di un’ideale e arbitraria utopia che non tenga conto delle cose, viene viceversa qualificata come segno d’una realtà ben più alta e ben più tragica, in forza della quale la storia dell’umanità – dalla Caduta alla Redenzione e al Giudizio – e quella d’ogni uomo è una grande guerra spirituale, di cui le miserie delle guerre mondane sono solo un pallido riflesso” .
Si afferma il principio della "guerra giusta", sia interiore sia esteriore, contro il male che alberga nel mondo. Principio che, sebbene anch'esso verrà abusato per compiere le peggiori nefandezze, dall'epoca medievale fino ad oggi, ha comunque come altra faccia della medaglia quello di aver posto le basi dell'etica di guerra. E' soltanto in epoca medievale, infatti, che comincia a nascere un codice etico-cavalleresco per evitare l'apoteosi del conflitto e per regolare, ad esempio, il trattamento da un lato dei prigionieri che, nelle epoche precedenti, erano considerati come carne da macello, e dall'altro del nemico stesso, da trattare con rispetto anche se combatte nel fronte opposto al proprio (principio della cosiddetta "guerra senza odio", fondamento dell'etica dei templari così come delineata da Bernardo di Chiaravalle nella Lode alla nuova milizia).
Scrive Cardini: “Il cavaliere, fino all’XI secolo, era “invincibile” se non da chi fosse armato come lui. Raramente rischiava di morire sul campo; più consueto semmai era che venisse catturato e dovesse pagare un riscatto. Gli insigniti della dignità cavalleresca erano una specie di “internazionale” che si riconosceva nella comune educazione e nel comune immaginario nutrito di poesia epica e di romanzi arturiani: nella logica di una “internazionale” del genere, il cavaliere nemico sconfitto era un “fratello d’arme” che aveva diritto a esser trattato il meglio possibile, secondo un rigoroso cerimoniale”.
Così come è in quest'epoca che si passa dall'immagine del miles, esperto della guerra utilizzato come strumento per combattere, all'immagine del libero cavaliere errante, educato quanto nell'uso delle armi quanto in quello dell'intelletto, dai modi cortesi, il cui fine è quello di aiutare il prossimo e difendere i deboli.
Citando ancora le parole di Huizinga: “L’abbandono del gretto egoismo nell’eccitazione del pericolo, la profonda commozione dinanzi al valore del camerata, la gioia della fedeltà e del sacrificio. Questo mondo primitivo di sentimenti ascetici è la base sui cui l’ideale cavalleresco si innalzò a nobile idea di perfezione virile, affine alla kalokagathia greca: una intensa aspirazione a una vita bella, l’energia animatrice di una serie di secoli… ed anche la maschera, dietro la quale si poté nascondere un mondo di avidità e di violenza”.
Per concludere la presente recensione, Alle radici della cavalleria medievale di Franco Cardini è senz'altro un testo adatto quanto agli amanti della storia quanto a quelli della filosofia, tanto ampie sono le sue vedute e le fonti utilizzate, che spaziano, appunto, dai documenti storici all'insieme di miti, leggende e tradizioni folkloristiche che non possono che risvegliare quegli animi sensibili alla voce del passato. Penso sia un testo fondamentale in un'epoca come la nostra, dilaniata dagli orrori del terrorismo, la paura di guerre catastrofiche e, allo stesso tempo, accompagnata dalla perdita di qualsiasi valore, per riscoprire un mondo altro, seppur idealizzato, in grado di risvegliare sentimenti più nobili.

Alle radici della cavalleria medievale, Franco Cardini, Il mulino Edizioni
L'autunno del medioevo, Huizinga, Bur edizioni

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Daniele Palmieri

sabato 6 maggio 2017

Paolo Diacono: Storia dei Longobardi

Siamo nell'VIII secolo d. C. quando Carlo Magno, rex francorum e, da poco tempo, anche rex longobardorum, chiede a Paolo Diacono, monaco, storico e poeta, di redarre una storia di quel misterioso popolo che egli ha appena soggiogato sotto il suo dominio: i Longobardi.
Nasce così la Storia dei Longobardi, testo fondamentale per molteplici ragioni.
Anzitutto, come poc'anzi accennato, è uno dei pochi resoconti organici della storia del popolo longobardo, a partire dalle sue origini mitiche in Scandinavia fino al regno di Liutprando (agli inizi dell'VIII secolo, prima della conquista di Carlo Magno); secondariamente, è uno spaccato sulla nascita di una nuova conformazione politica: l'Italia. Proprio i Longobardi, infatti, che dominarono su gran parte territori italiani dal Nord al Sud, influenzando fortemente la cultura delle popolazioni native, possono essere considerati gli antenati sia del nostro popolo sia dell'Italia così come la conosciamo oggi.
Infine, è una storia del popolo longobardo visto dall'interno; visione di parte, certamente, che rischia di inficiarne l'attendibilità storica. Eppure, una voce contrastante rispetto alla maggior parte delle altre fonti storiche coeve, in cui il popolo Longobardo è sempre visto come il grande nemico e, dunque, ammantato di caratteristiche negative.
Passando al testo di Paolo Diacono, è impossibile riassumere o anche solo recensire  la Storia dei Longobardi senza sminuirne il valore storico e letterario. Si tratta di un testo complesso, dalla prosa semplice e asciutta ma, allo stesso tempo, con sbalzi epico-cavallereschi. Paolo Diacono è un cattolico, per di più "collaborazionista" con la corte di Carlo Magno, eppure, anche quando bolla le antiche leggende pagane come storie di poco conto, traspare sempre l'amore per i costumi del suo popolo a tal punto che il suo cristianesimo sembra soltanto una crosta, sotto la quale ribolle ancora il vivo magma del paganesimo longobardo. D'altronde, anche quando il popolo si convertì alla religione cristiana, non furono dimenticate le antiche virtù guerriere tanto che basta visitare il Tempietto Longobardo a Cividale del Friuli per vedere gli affreschi di santi che reggono tra le mani la spada longobarda, oggetto sacro per gli Arimanni (gli uomini liberi e in armi). 
Essendo impossibile parlare dettagliatamente dell'intero testo, visto che gli eventi storici narrati da Paolo Diacono si susseguono molto velocemente, mi soffermerò solo su un episodio che narra l'origine mitica del popolo prima ancora che discendesse in Italia.
Il mito ha a che fare l'etimologia stessa del nome Longobardi e la genealogia di tale popolo il quale, quando ancora abitava la regione settentrionale che "quanto più è lontana dal calore del sole e gelida per il freddo della neve, tanto più è salubre per i corpi degli uomini e adatta alla propagazione delle stirpi", si chiamava popolo dei Winili. 
I Winili, come la maggior parte dei popoli nordici, era un "esercito di popolo" che viveva prevalentemente di nomadismo, migrando di anno in anno in cerca di territori più favorevoli e di risorse. Usciti dalla Scandinavia guidati dai due capi-tribù Ibore e Aione, e arrivati in una regione chiamata Scoringa, si stabilirono qui per alcuni anni fino a quando non furono minacciati dai Vandali, all'epoca condotti da Ambri e Assi. Quest'ultimi opprimevano tutte le popolazioni del luogo, schiacciandole con le loro richieste di tributi e le loro minacce di guerra. Ricevuti i messaggeri dei Vandali che volevano costringere anche il popolo dei Winili a piegarsi, "Ibore e Aione, spinti dalla madre Gambara, decidono che è meglio difendere con le armi la libertà piuttosto che disonorarla col pagamento di tributi. Mandano ambasciatori ai Vandali dicendo che combatteranno ma non si sottometteranno".
I Winili sono dunque rappresentati, fin da subito, come un popolo fiero e guerriero; tuttavia, vi era tra di loro un grave problema: "Certo, i Winili erano allora nel fiore della giovinezza, ma esigui di numero, in quanto erano solo la terza parte della popolazione di un'isola non particolarmente estesa".
A questo punto, Paolo Diacono narra quella che, da cattolico, definisce "favola ridicola" ma della quale, evidentemente, da Longobardo era troppo affascinato per non riportarla: "I Vandali Sarebbero andati da Godan [Odino] per chiedere la vittoria sui Winili, e il dio rispose che avrebbe dato la vittoria al popolo che per primo avesse visto al sorgere del sole. Allora Gambara andò da Frea, moglie di Godan, per chiedere la vittoria per i Winili. Frea diede questo consiglio: le donne dei Winili, sciolti i capelli, dovevano aggiustarli sul viso come fosse barba e di primo mattino dovevano unirsi agli uomini e disporsi in modo da essere viste da Godan nel luogo in cui egli era solito guardare da una finestra verso oriente. Così fecero. Godan vedendole al sorgere del sole, disse: "Chi sono quelle lunghe barbe [lang-bard]?". Allora Frea suggerì di concedere la vittoria a coloro cui aveva dato un nome. Così Godan diede la vittoria ai Winili. [...] I Longobardi, dapprima chiamati Winili, in seguito furono così chiamati per la lunghezza della barba mai toccata da ferro. Infatti nella loro lingua lang significa lunga e bard significa barba. [....] Pertanto i Winili, detti anche Longobardi, attaccata battaglia con i Vandali, combattendo alacremente per la gloria della libertà, ottengono la vittoria".

Paolo Diacono - Storia dei Longobardi, citazioni tratte dall'edizione San Paolo

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Daniele Palmieri