Seneca fu un uomo dalle molte contraddizioni e per tutta la vita ricercò un’agognata tranquillità interiore con lo sforzo filosofico. Pur condividendo l’ottimismo stoico, non riusciva a pararsi gli occhi di fronti alla dissoluzione imperante e ritenne che le erbacce avevano ormai seppellito il germe del bene che alberga nell’uomo. La filosofia è l’unica materia che può salvare il genere umano, materia di cui l’etica rappresenta il frutto più pregiato. Per quanto riguarda le passioni, egli aderì alla teoria posidoniana secondo cui esistono degli stadi preliminari in cui le emozioni si presentano involontariamente dal logos e soltanto in seguito questo interviene a portare ordine, ma quelle più pericolose e da estirpare sono le emozioni vere e proprie che ci trascinano e non il semplice impallidire o il rossore dell’ira. L’apatia completa non è né possibile né auspicabile. L’uomo deve evitare più realisticamente di lasciarsi trascinare dal proprio istinto, e deve evitare che le manifestazioni esterna di tristezza divengano delle profonde affezioni. Il patire è l’atto preliminare, l’affezione lo stato secondario che si insinua nell’hegemonikon e condiziona il logos. Il momento educativo che plasma la mente del giovane è determinante. Esso permette al logos di preservare la propria libertà e solo per questa via raggiungiamo la securitas, l’atarassia e la passiva lietezza interiore. Per lui la scrittura filosofica fu sempre un fatto molto privato e fu sempre dai problemi concreti della propria vita che egli prese spunto per le proprie riflessioni. Il ritiro dalla vita politica in tarda età fece sì che egli si concentrasse sul proprio io, dando ai concetti dell’etica romana un contenuto nuovo, individualistico. La virtus non divenne più soltanto una virtù civile e guerriera, ma una virtù intima di chi è in grado di affrontare la vita e di conquistarsi la felicità. La libertà, persa quella politica, divenne libertà interiore; il populus si trasformò in una comunità apolitica dalla quale dobbiamo astarci se non vogliamo essere contaminati dalla sua immoralità. Prende maggiore forza inoltre l’ideale di humanitas, non più in senso civile e sociale come quello ciceroniano, ma con un’accezione filantropica, un sentimento che porta l’uomo a interessarsi di ciò che riguarda gli altri uomini, come testimonia, ad esempio, il suo interesse per la condizione degli schiavi e dei gladiatori. Una propensione spirituale diversa dalla compassione; si tratta piuttosto di una sorta di simpatia razionale, che ha le proprie fondamenta nel riconoscere l’umano dell’uomo. L’azione buona non dev’essere un affare, tantomeno deve essere spinta da impulsi razionali, bensì deve trovare il proprio fondamento in tale attitudine. Ciò che Seneca sottolinea è l’intenzione con cui compiamo l’atto. Oltre a Dio, soltanto la nostra coscienza può essere testimone di tale intenzione ed è dunque la nostra coscienza il tribunale a cui dobbiamo rispondere. Per la prima volta nella filosofia greco-romana la coscienza viene considerata come una forza viva e attiva, idea che nasce dall’abitudine di Seneca a meditare, ogni notte, su quanto aveva compiuto e che egli riprende in parte da Sestio e dai Pitagorici. Solo con Seneca però l’autodisciplina etica diventa un impegno totale, che dà la sua impronta alla vita dell’uomo e ne fornisce il contenuto effettivo. Una tale conoscenza di sé spinge l’uomo a migliorarsi costantemente. Altro carattere distintivo fu l’accezione data alla voluntas personale, la volontà di compiere il bene come libera decisione di noi stessi, proveniente dalla nostra interiorità, un requisito essenziale per completare l’intenzione di compiere il bene. Fu Seneca il primo a introdurre la distinzione tra buona e cattiva volontà. Essa è la spinta motrice che ci permette di trasformare in pratica la teoria e di perfezionarci e proprio mediante la volontà egli apre una breccia nell’intellettualismo della Stoà antica. Sempre Seneca introdusse una sfumatura più trascendentale di Dio, visto non più come la parte complementare della materia ma come causa sui che genera l’universo con una materia che, però, è imperfetta; non viene meno però la visione immanente della divinità, semplicemente la componente spirituale assume una preminenza maggiore rispetto a quella materiale. Dio è sommamente buono e ha dotato l’uomo della virtus adatta a sopportare e vincere le intemperie. La stessa morte non è una condanna ma la fine di ogni cosa e non deve essere temuta; superata la paura della morte, conquistiamo la forza di compiere qualsiasi azione. D’altronde proprio la morte è la grande via di uscita che permette al filosofo di preservare la propria libertà nel momento in cui essa non può più essere esercitata.
Daniele Palmieri