venerdì 13 dicembre 2019

Algernon Blackwood: I salici. La paura dell'ignoto oltre il velo della natura

"Il sentimento più forte e più antico dell'animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell'ignoto" scrisse H. P. Lovecraft nel celebre saggio L'orrore sovrannaturale nella letteratura. Maestro dell'orrore cosmico, Lovecraft fu in grado, con la sua penna, di generare un pantheon alieno e malefico che ancora oggi influenza non solo la letteratura, ma anche alcune branche dell'esoterismo, della magia e perfino di folli teorie complottiste. Questo perché Lovecraft riuscì abilmente a far leva sulla paura ancestrale nei confronti dello sconosciuto, dell'ignoto, di ciò che si nasconde nella penombra, in grado di terrorizzarci proprio perché fuggevole da ogni forma precisa.
Un abile scrittore come Lovecraft, tuttavia, non nasce dal nulla; come scrisse Borges, gli autori più grandi sono tali poiché in grado di crearsi i propri predecessori, e fu lo stesso Lovecraft a individuare, sempre ne L'orrore sovrannaturale nella letteratura, non solo il suo maestro ma, soprattutto, il racconto che stimolò in lui le orrorifiche fantasie cosmiche.
Si tratta de I Salici di Algernon Blackwood, che Lovecraft definì "il miglior racconto sovrannaturale di tutta la letteratura inglese".
Nato nel 1869 a Londra, Algernon Blackwood fu un giramondo e scrittore inglese e, insieme a Poe, colonna portante, sebbene meno conosciuta, della letteratura gotica e sovrannaturale. Tuttavia, rispetto al più noto scrittore americano che presto avrebbe preso piede in Francia grazie a Baudelaire e agli scrittori maledetti europei, Algernon Blackwood fu relegato alla medesima ombra oscura dalla quale proveniva l'orrore dei suoi racconti.
Difatti, mentre Poe sviscerò nelle sue opere la paura, le ossessioni, le perversioni, i crimini e l'orrore dell'animo umano, Blackwood fu, come il suo erede Lovecraft, il primo topografo dell'orrore metafisico - in grado, sì, di risvegliare le paure umane, ma in questo caso paure ataviche derivanti dall'esistenza oggettiva, e non soggettiva, di entità sovra-umane e sovra-naturali che si nascondono negli anfratti più reconditi della natura selvaggia.
I Salici, novella appena ripubblicata in Italia da Abeditore nella stupenda collana Piccoli mondi (della quale avevo già recensito Il testamento di Magdalen Blair di Crowley) è il miglior esempio non solo della produzione di Blackwood, ma dell'intera letteratura, di questa forma di timore universale.
Protagonisti della novella, due avventurieri che si imbarcano sul Danubio su una semplice canoa partendo da Vienna, alla volta di Budapest. Presto, l'ambiente civilizzato e borghese, fatto di ponti, persone, canali e negozi lascia il posto alla natura selvaggia, attraverso "un'area particolarmente solitaria e desolata, dove le acque si estendono da tutti i lati incuranti di un canale principale, e dove la terra diventa una palude per miglia e miglia, ricoperta da un vasto mare di basse siepi e salici" (Algernon Blackwood, I Salici, Abeditore, p. 7).
Il distacco rispetto al mondo civilizzato sembra ridare vita agli elementi naturali, liberi di sprigionarsi dalle catene della mondanità e dagli argini artificiali. Il Danubio stesso, svincolato dal gioco umano, sembra risvegliarsi e affermarsi sul resto del territorio come un'entità autonoma, dotata di vita, coscienza, volontà e, soprattutto, potenza. "Il Danubio" narra il protagonista "ci aveva colpito sin dall'inizio per la sua carica vitale. A partire dal suo piccolissimo ingresso gorgogliante nel mondo delle pinete [...] fino al momento in cui cominciava a giocare al grande gioco del fiume di perdersi tra le paludi deserte, incontrollato, inosservato, ci era sembrato di seguire la crescita di una creatura vivente. Assonnato all'inizio, ma che aveva poi sviluppato desideri violenti una volta diventato cosciente della sua anima, si snodava come un enorme essere fluido attraverso tutti i paesi che avevamo superato [...] finché col tempo non eravamo arrivati inevitabilmente a considerarlo come un Grande Personaggio" (Algernon Blackwood, I Salici, Abeditore, pp. 13-14).
Ma il Danubio non è l'unico spirito naturale a risvegliarsi durante la loro discesa (o ascesa?) attraverso la natura selvaggia. Presto diventa lo sfondo di un'entità onnipresente, bisbigliante, apparentemente immobile eppure sempre in movimento: i salici. Con la loro fitta rete di spesse radici, che ora si inabissano e ora riaffiorano dalla superficie delle acque, simili a silenti predatori, i salici mangiano e corrodono le sponde del Danubio, incanalandolo ora da una parte, ora dall'altra, dando vita a una miriade di isolotti destinati a svanire al sorgere della Luna, con l'innalzarsi della marea.
Con l'arrivo del tramonto, i due protagonisti sono costretti a fermarsi e si arenano proprio su una di queste isole fragili, circondata da una fitta selva di salici nodosi e contorti. Piantata la tenda, calata la notte, in balia del vento, dei rumori e dei fruscii che sembravano dotati di una propria volontà, presto la mente razionale del protagonista viene infranta da sentimenti nuovi ma, allo stesso tempo, antichi, che erano sempre rimasti sopiti a causa della zona di benessere creata dalla civiltà. Scrive Blackwood:
 
"Si trattava di un sentimento di angoscia così vago che era impossibile risalire alla sua fonte e gestirlo di conseguenza, anche se ero in qualche modo conscio che aveva a che vedere cin la consapevolezza della nostra totale insignificanza di fronte al potere incontrollato degli elementi che mi circondavano. [...] La mia emozione, da quello che capivo, sembrava collegata in modo particolare alle siepi di salici, a questi acri e acri di salici, che si ammassavano e crescevano così fittamente, che ricoprivano tutto a perdita d'occhio, spingendo sul fiume come per soffocarlo, in una formazione compatta per miglia e miglia sotto il cielo, a guardare, aspettare e ascoltare. [...] I salici avevano un collegamento sottile alla mia inquietudine perché attaccavano la mente in modo insidioso a causa del loro numero, riuscendo a rappresentare per l'immaginazione una forza nuova e potente, una forza, inoltre, non amichevole" (Algernon Blackwood, I Salici, Abeditore, pp. 24-25).
 
I salici, che sussurrano alla penombra della Luna, nel cuore della notte, si insinuano come un virus nella mente del protagonista, che per di più si sente imprigionato nel proprio terrore, non volendo né svegliare né parlare delle sue paure con il compagno, temendo che esse possano infettarlo, come un morbo contagioso, risvegliando in lui i medesimi sentimenti. Intanto i salici: "Emanavano un'essenza che tormentava il cuore. Risvegliavano un sentimento di timore, è vero, ma di timore con una punta di vago terrore. I loro ranghi serrati, che diventavano sempre più bui intorno a me mentre le ombre si addensavano, si muovevano furiosamente ma anche dolcemente nel vento, procurandomi la sensazione curiosa e sgradita che avessimo sconfinato in un mondo alieno, un mondo dove non eravamo voluti e inviati a restare - dove forse correvamo grandi rischi" (Algernon Blackwood, I Salici, Abeditore, p. 25).
 
La paura cosmica aumenta quanto, uscendo dalla tenda per controllare la situazione, il protagonista si accorge che, nella notte, le fronde dei salici sembrano assumere forme sempre diverse e che sembrano farsi sempre più vicine, quasi fossero dotate di un'oscura volontà e di una incomprensibile capacità di muoversi e di prepararsi a un agguato fatale. La situazione non migliora, il giorno a seguire, quando il protagonista evince, dal volto del compagno, che anch'egli è stato tormentato dalle medesime paure, anche se nessuno ha il coraggio di dirlo all'altro. Ma un altro elemento perturbante contribuisce all'escalation di terrore: qualcosa ha squarciato il fondo della canoa e i due protagonisti sono costretti, per ripararla, a passare un altro giorno sull'isolotto, che intanto si fa sempre più piccolo a causa della corrente.
Anche in questo caso, Blackwood si dimostra un narratore estremamente abile nel sollevare timori attraverso il non-detto e i dubbi, piuttosto che con l'esplicito e le certezze. La barca sembra squarciata da un agente dotato di volontà, la lama del loro coltello sembra essersi rovinata, eppure sull'isola non ci sono segni di passi, ad eccezione di strani e piccoli fori circolari. Nessuno dei due protagonisti vuole ammettere esplicitamente i suoi dubbi e, alla fine, lo squarcio viene ricondotto a una secca che potrebbero non aver notato prima di approdare. Costretti sull'isola, iniziano a lavorare in silenzio per riparare la fenditura, sperando di riuscire a ripararla in tempo per partire ma consapevoli che avrebbero dovuto passare in quel luogo sovrannaturale un'altra notte insonne.
 
"Ero posseduto da un senso di stupore e meraviglia che non avevo mai provato prima" dice il protagonista "Mi sembrava di avere davanti la personificazione degli elementi della natura di questa regione infestata e primordiale. La nostra intrusione aveva rimesso in moto i poteri del luogo. Eravamo noi la causa dell'interferenza, e il mio cervello si riempì di storie e leggende di divinità e spiriti che erano stati riconosciuti e venerati da uomini di tutte le epoche nella storia del mondo" (Algernon Blackwood, I Salici, Abeditore, p. 51).
 
 
Nemmeno i raggi del Sole sono in grado di scacciare la paura in quel posto alieno; presto, calato il vento, per l'intera palude sembra risuonare un suono sconosciuto, simile al vibrare di un gong o delle campane tibetane.
 
"Un suono non-umano, un suono che va oltre l'umanità" lo definisce il compagno del protagonista, cercando di dargli una connotazione. I due si accorgono che questo suono sembra provenire dai salici, dagli acri e acri di salici che avvinghiano tutto il territorio. Alla fine, la pressione psicologica esplode e il protagonista rompe il muro di silenzio. "Non posso più nasconderlo" dice, "non mi piace questo posto, con l'oscurità e i rumori e le terribili sensazioni che mi provoca" e il suo compagno, che fino ad allora aveva dissimulato un atteggiamento razionale, gli risponde impallidito, rivelandogli che "Non si tratta di una condizione fisica da cui potremmo scappare via [...]. Dobbiamo stringere i denti e aspettare. Ci sono forze, qui, che potrebbero uccidere un'orda di elefanti in un secondo nello stesso modo in cui tu o io potremmo schiacciare una mosca. L'unica nostra possibilità è restare perfettamente immobili. Forse la nostra irrilevanza ci salverà" (Algernon Blackwood, I Salici, Abeditore, p. 103-104).
L'acqua, il vento, la sabbia, il Dabubio, perfino gli stessi Salici si scoprono essere soltanto lo scenario, il portale, di una condizione ignota, che va al di là non soltanto della natura, ma del sovrannaturale stesso. "Tu pensi che si tratti dello spirito degli elementi" dice il compagno del protagonista, "e io pensavo che forse potessero essere gli dei. Ma ora ti dico che non è nessuna delle due. Queste sarebbero entità comprensibili, perché hanno relazioni con gli uomini, che sia per venerazione o per i sacrifici, mentre questi esseri che sono con noi ora non hanno assolutamente nulla a che fare con la specie umana, ed è pura casualità che il loro spazio venga in contatto con il nostro in questo posto" (Algernon Blackwood, I Salici, Abeditore, p. 105).
Né il Danubio né i Salici in quanto entità fisiche o sovrannaturali sono coloro che li stanno tormentando, ma entità-altre, ancor più metafisiche, inconcepibili dalla mente umana, che nei salici hanno trovato rifugio donandogli quella vita perversa che, ora, sembra agognare un sacrificio.
Le entità sovra-sovrannaturali di cui parla Blackwood sono inconcepibili per la mente umana e si possono comprendere solo parlando dell'appartenenza, da parte dell'autore, alla setta esoterica della Golden Dawn. Fondata da Mathers, la Golden Dawn fu il crogiuolo dell'esoterismo novecentesco, congrega iniziatica in cui si formarono Waite, Crowley, Yeats, Bram Stoker e, appunto, lo stesso Blackwood. Al centro degli insegnamenti iniziatici della Golden Dawn vi era la pratica della magia cerimoniale, basata sugli antichi grimori medievali come il Libro di Abramelin, Le Chiavi di Salomone, il Drago rosso, testi che promettono di far entrare il mago in contatto con entità angeliche e demoniache che, spesso, sono descritte con simboli e fattezze totalmente alieni rispetto al linguaggio e alle conoscenze comuni. Non è dunque azzardato ipotizzare che, nel descrivere tale orrore metafisico e queste zone di confine, in cui mondo materiale e sovrannaturale si compenetrano, Blackwood si sia ispirato non solo alle dottrine di tali grimori, ma a esperienze da lui vissute in prima persona durante i riti celebrati dalla Golden Dawn. In uno o più di questi riti, Blackwood potrebbe aver percepito il medesimo terrore cosmico, descritto ne I Salici, di trovarsi vicini a entità eteree, in grado di intaccare la materia e la mente umana, utilizzandole allo stesso tempo come portali e vittime cerimoniali.
Non a caso, la soluzione che il compagno del protagonista propone per liberarsi di Loro è quella di un sacrificio. Ma la reazione scomposta del protagonista, che per un momento cerca di liberarsi di queste paure apparentemente irrazionali, attira l'attenzione delle entità e presto si trovano braccati da ombre sfuggevoli, che emettono il perpetuo ronzio, e che li circondano fino a possedere la mente del protagonista.
"Non riuscivo a capire cosa stesse accadendo. Ero consapevole solo di un'avvolgente e agghiacciante sensazione di paura che liberava i miei nervi dalla loro protezione di carne, che li torceva da una parte e poi dall'altra e li rimpiazzava tremando. Avevo gli occhi chiusi, qualcosa in gola mi stava strozzando; la sensazione che la mia coscienza si stesse espandendo, estendendosi nello spazio, lasciò lentamente posto alla sensazione che stessi perdendo tutto, che stessi per morire" scrive Blackwood, descrivendo sensazioni estremamente simili a quanto descritto non solo da coloro che hanno vissuto paralisi notturne o viaggi fuori dal corpo, ma soprattutto dagli "invasati dalle divinità" durante le funzioni di magia cerimoniale.
Alla fine, tuttavia, il protagonista riesce a sfuggire, per un soffio, all'atroce destino di essere risucchiato da entità para-naturali. Svenendo, sottrae loro il nutrimento dei suoi pensieri e viene recuperato dai salici dalle braccia del suo compagno. Quando il pericolo sembra passato, anche il suo compagno subisce la medesima possessione e questa volta è il protagonista a salvarlo mentre questi, come ipnotizzato, si stava immergendo tra le acque del Danubio dicendo "di voler andare da Loro e prendere la strada dell'acqua e del vento".
Con il sorgere dell'alba la piena sembra essersi abbassata e il varco spaziotemporale tra le due dimensioni sembra essere venuto meno. I due protagonisti, riparata la barca e sopravvissuti alla terribile esperienza, si preparano a prendere il largo. Ma, prima di lasciarsi alle spalle il terrore cosmico, che probabilmente li tormenterà per tutta l'esistenza, scoprono il sacrificio versato grazie al quale si sono salvati: il corpo morto di un contadino, ghermito dalle radici dei salici, che presto fu trascinato via dalla corrente, simile a un involucro vuoto la cui anima era stata risucchiata da un'entità più grande.
 
Algernon Blackwood, I Salici, Abeditore
 
Daniele Palmieri
 
 

1 commento:

  1. Molto bella questa recensione. Considero "I salici" un grande classico della letteratura weird insieme a "Il grande dio Pan" di Machen e "La casa sull'abisso" di Hodgson. Purtroppo tutti molto poco conosciuti.

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