lunedì 27 febbraio 2017

L'Eraclito di Nietzsche

Non sono molte le personalità filosofiche che Nietszche stimò per tutta la vita; un posto privilegiato nel suo pantheon è sicuramente dedicato ad Eraclito, uno dei pochi filosofi presocratici da lui stimato, a tal punto da reputarlo un suo predecessore. A Eraclito Nietzsche dedica parole appassionate sia ne La filosofia nell'epoca tragica dei greci sia ne I filosofi preplatonici, una serie di lezioni da lui tenute sulla filosofia antica.
Secondo Nietzsche, il carattere elitario del filosofo deriva non solo dalla sua appartenenza all'aristocrazia politica, ma soprattutto dal fatto che egli si considerava l’unico possessore della verità. 
L’autoammirazione di Eraclito, però, non ha nulla di religioso, come in Pitagora che si considerava figlio di Asclepio. Si autoammira perché intorno vede soltanto stoltezza e follia, si sente come l’oracolo di Delphi e, sempre come l'oracolo, cela le sue verità "sotto il velame del li versi strani" (come dirà Dante parlando degli insegnamenti esoterici inseriti nella sua Commedia), poiché soltanto chi è in grado di riconoscere la verità è degno di vederla.
Per questo Eraclito odia tutto ciò che è popolare e volgare, come Omero ed Esiodo, che hanno formato generazioni di giovani con le loro menzogne spacciandole per verità eterne e, soprattutto, perché non sono stati in grado di riconoscere l’unitarietà degli opposti. 
Per Eraclito la vita è un movimento eterno e le regole che lo determinano sono costanti e unitarie. L’una è terribile quanto l’altra esaltante. La velocità del movimento è qualcosa di soggettivo, come nell’ipotesi del naturalista Von Bar secondo il quale la durata è soltanto la velocità con cui noi percepiamo le cose. L’immutabilità non esiste, è solo una questione di percezione. E’ la stessa percezione intuitiva di Eraclito che plasma le sue sentenze; nulla è, tutto è un continuo divenire, anche se noi percepiamo l’immutabilità di alcune cose. L’uno, che sempre diviene, è legge di per sé. L’immutablità sta nella necessità del divenire. Vi è, in questa concezione, una relazione con Anassimandro ma, rispetto a quest'ultimo, l’Uno deve avere tutte le qualità e si manifesta nella molteplicità, mentre nel primo nell’indeterminatezza. Eraclito inventa dunque una nuova cosmodicea. Questa cosmodicea avviene tramite la lotta perenne degli opposti, che in realtà formano un’unica armonia. 
L’eterno divenire ha questo duplice aspetto; da un lato terrorizza, ma dall’altro è grandioso, sublime. Altra relazione con Anassimandro è quella del fuoco; per entrambi il Sole si rinnova ogni giorno per la sua costituzione fisica, non è mai lo stesso. Terza concordanza è quella delle ipotesi delle periodiche fini del mondo, la teoria dell’eterno ritorno. Ed è il fuoco, in entrambi, a condannare tutte le cose. Tutti i dolori e gli affanni svaniscono nella contemplazione invisibile del Dio che osserva il divenire. Bene e male sono relativi al soggetto che esperisce. Il saggio si pone a un livello superiore, lo stesso livello del dio. L’universo crea e distrugge è come un fenomeno artistico o il gioco di un bambino. In Eraclito vi è una considerazione puramente estetica, non c’è un ordine morale come accade invece in Anassimandro per il quale il nascere è una colpa da espiare. Egli si considera sapiente proprio perché in grado di contemplare questo processo, ponendosi al di là delle cose e al di là della limitata prospettiva umana. La sua è un’intuizione che abbraccia tutto, come quella dell’artista e come il gioco di un artista o di un bambino è il divenire del mondo, cosa impensabile in Anassagora dove invece tutto è ordinato. Eraclito non conosce morale, poiché il destino dell’uomo è insito nel suo carattere. Non è un pessimista, lo è solo nella misura in cui non si è soddisfatti della sua visione del cosmo. Non è un ottimista perché non nega dolore e irrazionalità. Ed è proprio per questo che Nietzsche lo considera il suo primo predecessore: Eraclito è stato il primo ad andare al di là del bene e del male.

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Daniele Palmieri

mercoledì 22 febbraio 2017

Daniele Palmieri: Autarchia spirituale. Un richiamo all'azione per rivoluzionare la propria vita

L'Anima edizioni ha recentemente pubblicato un mio nuovo libro, Autarchia spirituale. E' la mia quarta opera filosofica, dopo La tranquillità interiore, La filosofia è una cosa da folli e La filosofia come esercizio spirituale, e la considero, ad ora, il mio testo filosofico più maturo. Non perché sia il più completo, tutt'altro, ma perché in esso sfioro i principali temi filosofici (la coscienza, la conoscenza, l'esistenza e il suo senso, l'agire pratico etc.) che, in parte, avevo già affrontato nei testi precedenti ma che in esso tento di legare in maniera organica e coerente, cercando di individuare un filo conduttore che leghi in maniera indissolubile la speculazione filosofica all'agire pratico, sia nei confronti di se stessi sia nei confronti del mondo.
Ad ora il testo è disponibile solo in ebook sui principali store online; da maggio sarà disponibile anche in cartaceo. Qui il link per acquistarlo su Amazon, di seguito, l'incipit del libro:
 
“Autarchia” è una parola di origine greca la cui resa letterale sarebbe “bastare a se stesso”. È un termine utilizzato in senso filosofico per la prima volta dai pensatori cinici e stoici, che identificavano il sophos, il saggio, come colui in grado di dominare la propria componente spirituale, ossia di porre il fondamento della propria vita in se stesso e di vivere, di conseguenza, in assoluta autosufficienza.
Perché dovremmo recuperare tale nozione e quale potrebbe essere la sua importanza per l’uomo contemporaneo?
Quando cominciai a maturare le idee per il presente libro, il primo titolo che mi venne in mente fu “anarchia spirituale”; volevo subito rendere chiaro uno dei concetti principali che intendo trasmettere, ossia la libertà assoluta (da absoluto, sciolto da qualsiasi vincolo) che il filosofo conquista nel momento in cui raggiunge una maggiore consapevolezza di sé e del mondo.
Tuttavia, ho poi meditato sull’etimologia greca del termine anarchia, anarkhìa, che letteralmente significa “assenza di governo”, una parola che nell’antichità richiamava eventi catastrofici all’interno della città e la cui accezione “positiva” è nata soltanto a partire dal 1800, con la nascita dei primi movimenti anarchici ad opera di pensatori come Bakunin, Proudhon, Herzen. Accostare tale termine, indice di caos e disordine, alla sfera interiore per indicare il saggio in grado, al contrario, di portare ordine nella propria interiorità, significherebbe compiere un grave errore etimologico e filosofico.
Ed è proprio il primo, erroneo, titolo che, preso in esame, può aiutarci a comprendere le domande appena sollevate, sull’importanza del recupero del concetto di autarchia. Viviamo, infatti, in un’epoca di anarchia spirituale. Crollata, dopo il nichilismo otto-novecentesco, l’idea dell’esistenza di valori morali universali e oggettivi, si è lentamente abbandonato il lavoro di “direzione delle anime”, come lo definisce Focault, ossia di un’educazione volta all’interiorità degli individui che abbia il fine di sviluppare le loro virtù interiori.
Non è stato un evento del tutto negativo, tutt’altro. Seguendo il principio liberale di John Stuart Mill, è giusto che ciascun uomo abbia il diritto di sviluppare le proprie doti come meglio crede, sempre nel rispetto della persona altrui, senza che persone terze lo obblighino a vivere in un certo modo e a seguire dogmatici insegnamenti morali.
Da una parziale liberazione delle anime individuali si è però passati all’estremo opposto. Dal secondo dopoguerra in poi, con l’ascesa del consumismo sfrenato, la discussione sui valori e sull’etica si è assottigliata a tal punto da rendere la morale uno sbiadito fantasma, quasi un elemento di intralcio all’interno dell’economia, del mondo del lavoro, del mondo della produzione e del consumo, dove l’unica cosa che conta è il calcolo matematico dei costi e dei benefici.
Si è persa qualsiasi consapevolezza dell’ethos, ossia dell’insieme di regole interiori volte a dare una direzione precisa al proprio agire, in modo che esso non sia mai lasciato in balìa del caos ma che, al contrario, sia sempre sotto il nostro rigido controllo. Viviamo circondati da “anime anarchiche” sia perché gli uomini al potere prendono le proprie decisioni soltanto in base all’utile, senza dunque curarsi di qualsivoglia morale, sia perché gran parte della popolazione possiede soltanto una vaga idea di cosa possa essere definito morale e cosa no, una conoscenza superficiale che è per lo più il lascito della morale del “senso comune” delle generazioni precedenti. Non avendo mai meditato su tali principi, non possono sapere se essi sono validi o meno; non hanno assimilato a fondo l’importanza che un codice etico ha per la vita e spesso sacrificano le norme apprese in nome dell’utile. Queste persone sono come navi alla deriva in balìa del vento; non hanno il controllo sulla propria vita ma si lasciano trascinare lì dove le porta l’utile, lì dove le porta la casualità.
Recuperare il concetto di autarchia significa opporsi a questo mondo alla deriva e impugnare le redini della propria esistenza, per vivere una vita autentica e consapevole. Compito dell’autarca è quello di sviluppare un codice etico che sia per lui una mappa per muoversi attraverso il mondo e che gli consenta di acquisire un profondo dominio su di sé e sulla realtà circostante.
Nel presente libro ho cercato di illustrare alcune delle pratiche filosofiche, antiche e moderne, occidentali e orientali, in grado di conferire al filosofo l’autarchia spirituale, ma solo dopo aver illustrato quali siano le fondamenta teoriche su cui si fonda tale forma di lavoro filosofico; una discussione che solleverà problematiche circa la coscienza, la conoscenza, la realtà e la sua rappresentazione, l’universo e il problema filosofico fondamentale sul senso della vita. I primi problemi affrontati, che all’apparenza potrebbero sembrare più astratti, avranno, in realtà, importanti ripercussioni sull’atteggiamento che ciascun uomo dovrebbe adottare nei confronti dell’esistenza. Si augura dunque al lettore di avere una preliminare pazienza e, soprattutto, di approcciarsi a questo libro non come un insieme di teorie filosofiche, ma come un richiamo all’azione per cominciare una nuova forma di lavoro su di sé. Ogni teoria, infatti, è valida soltanto nella misura in cui può essere applicata e viene applicata, altrimenti è destinata a ingiallire insieme ai fogli di carta su cui è stata scritta".
 
Autarchia spirituale. Un richiamo all'azione per rivoluzionare la propria vita - Daniele Palmieri, Anima Edizioni
 
Daniele Palmieri


lunedì 20 febbraio 2017

Julius Evola: L'idealismo magico

Con "idealismo magico" si designa una branca esoterica dell'idealismo, sviluppatasi a partire dalla riflessione filosofico/poetica di Novalis, scrittore tedesco vissuto nella seconda metà del XVIII secolo.
Riprendendo l'idealismo di Fichte, secondo il quale la realtà che viviamo è esclusivamente una realtà mentale in cui all'Io (il soggetto) si oppone un non-Io (l'oggetto) da egli stesso prodotto nel processo di rappresentazione della realtà personale, Novalis identifica il rapporto tra Io e non-Io con una forma di rapporto magico. Nel momento in cui l'Io si riconosce come creatore della propria realtà, infrangendo dunque la barriera che lo divide dal resto del mondo, può instaurare un rapporto magico/poetico con l'esistenza di cui egli è il primo motore; ciò che deve fare è assumere una diversa prospettiva sulle cose. Ruolo fondamentale, in questo processo, è assunto da quella che Fichte definisce "immaginazione produttiva", la facoltà inconscia del soggetto trascendentale (l'Io) di produrre la propria realtà. Il poeta, così come il mago, è, secondo Novalis, colui in grado di intraprendere un percorso interiore per prendere il pieno controllo di tale facoltà inconscia e dunque del processo creativo della propria realtà vissuta, divenendo così consapevoli dell'Universo che alberga presso noi stessi e sprigionando l'immensa forza creatrice che a malapena sospettiamo di possedere. Sfiorando così l'Assoluto, ne diveniamo padroni.
Tra la prima e la seconda metà del '900 fu il filosofo italiano Julius Evola a riprendere e sviluppare l'idealismo magico di Novalis, sviluppandolo le idee frammentarie del poeta tedesco in un sistema filosofico organico e compiuto.
Insieme a L'uomo e il divenire del mondo, Teoria dell'Individuo Assoluto e Fenomenologia dell'Individuo Assoluto, L'idealismo magico è uno dei testi fondamentali della concezione filosofica di Evola, che pone le basi per le riflessioni successive sviluppate nei testi poc'anzi citati.
Evola, come Novalis, sviluppa il suo pensiero a partire dalla distinzione fichtiana tra Io e non-Io; secondo il filosofo italiano, siccome la realtà materiale che si trova al di fuori di noi è conoscibile soltanto mediante i sensi, che costruiscono nella nostra mente soltanto una rappresentazione di essa, l'unica conoscenza certa della realtà è quella che possiamo avere della nostra realtà interiore. In questa dimensione mentale viviamo tutta la nostra esistenza, circondati da altri esseri viventi che dimorano esattamente nella medesima bolla idealistica.
Come accennato in precedenza, la creazione della realtà vissuta avviene principalmente mediante i sensi e, finché non prendiamo il controllo della nostra interiorità, viviamo l'esistenza in maniera prettamente passiva, come un marchio di cera su cui viene impresso il marchio di uno stampino. 
L'idealismo magico nasce con lo scopo di ribaltare questa condizione. Scrive Evola:

"Ciò che distingue l'idealismo magico è il suo carattere essenzialmente pratico: la sua esigenza fondamentale è non di sostituire una intellettuale concezione del mondo ad un'altra, bensì di creare nell'individuo una nuova dimensione e una nuova profondità di vita. Certamente, esso non cade in una astratta contrapposizione di teoretico e pratico; esso già nel teoretico e nel conoscitivo come tale - e quindi in ciò in cui soltanto è dato rivelarsi a dun lettore - vede un grado di attività creatrice, però ritiene che un tale grado rappresenta solo un abbozzo, un inizio di gesto rispetto ad una fase di realizzazione più profonda che è quella della magica o pratica propriamente detta, nella quale il primo deve continuarsi e completarsi" (L'idealismo magico - Julius Evola, pp. 91).

Mediante un lavoro magico/filosofico sulla propria interiorità, l'individuo deve essere in grado di condurre i principi dell'idealismo magico a forze che agiscono nel suo interno e a esigenze che lo spingano verso una realizzazione pratica, coerente e concreta.
Ciò può avvenire, come ogni percorso esoterico/iniziatico, soltanto attraversando diverse fasi.
La prima è la consapevolezza dello iato soltanto apparente tra Io e non-Io; difatti, finché continueremo a credere che la realtà esterna non dipende da noi, saremo perpetuamente schiavi di essa. Si tratta, dunque, di porre il proprio Io al centro, come un punto cardine attorno al quale deve ruotare l'intera esistenza. Bisogna dunque percepire l'oggetto non come un ostacolo, ma come una neg-azione, una "azione negativa" che inizialmente si oppone a noi ma che, in virtù del controllo che abbiamo su di essa, che possiamo trasformare in una forza positiva.
Il secondo passo è definito da Evola come "la prova del fuoco"; siamo circondati da non-Io, sia fisici sia sociali (come diritti, doveri, morale etc.), che limitano il nostro campo di azione condizionandoci. Agire contemporaneamente nei confronti di ognuna di queste singole neg-azioni sarebbe un compito lungo e faticoso; ciò che bisogna intraprendere è un'azione drastica, una negazione totale della neg-azione che a noi si oppone: la prova del fuoco, l'incendio catartico e purificatore che rade al suolo ogni cosa (metaforicamente, s'intende) lasciando illeso soltanto l'Io. Si tratta di attuare una trasmutazione alchemica; il fuoco, infatti, mentre brucia le impurità lascia illesi soltanto i metalli più pregiati e, in questo modo, rende consapevoli dell'oro nascosto nelle profondità delle nostre miniere interiori.
Infine vi è l'ultimo passo: dopo la distruzione totale, per ricostruire la propria esistenza, può avvenire soltanto il movimento a essa completamente opposto, l'amore incondizionato. Se l'individuo vuole acquisire il potere assoluto sulle cose, deve prestare attenzione a non confondere tale dominio con la schiavitù. Il dominio dispotico è la catena del sovrano. Come scrive Evola:

"L'azione violenta ed appassionata contro delle cose testimonia che esse hanno a priori per l'Io una realtà e, a dir vero, proprio come antitesi, e non riesce quindi a superare l'antitesi ma solo a riconfermarla e a negare il piano dell'assoluta autodeterminazione. Violentando le cose, si va in realtà a violentare solo l'Io [...]. Il principio fondamentale della magica è che per avere realmente una cosa, occorre volerla non per l'Io ma per sé stessa, ossia amarla; che desiderare è precludersi la via alla realizzazione; che la violenza è il modo del debole e dell'impotente, l'amore e la dolcezza quello del forte e del signore. E' la profonda dottrina del Taoismo: non volere avere per avere, dare per possedere, cedere per dominare, sacrificarsi per realizzare; è il famoso concetto del wei-wu-wei o agire senza agire [...] ciè dell'agire che non travolge e perde a sé la centralità dell'Io, ma che si svolge dentro un Io che non ci si immedesima, che in esso si tiene distaccato e fermo come il suo Signore, che dunque propriamente non vuole, ma piuttosto abbandona e dona" (Julius Evola - L'idealismo magico, pp. 100).

L'amore incondizionato è dunque la forza magica in grado di liberare l'Io liberandolo dalla schiavitù sua delle cose sia di sé stesso, innalzandolo a un livello superiore di esistenza, il medesimo Assoluto che Novalis andava ricercando e in cui risiede la chiave del processo creativo della realtà. Come Dio, infatti, crea il mondo per un atto di amore assoluto e incondizionato, allo stesso modo l'Io magico crea la propria realtà per amore di essa e si relazione con il prossimo non per esserne schiavo, né per renderlo schiavo della propria volontà di potenza, ma per amarlo e dunque elevarlo a sua volta. Solo l'amore, infatti, possiede la forza creatrice di opporre alla neg-azione una realtà alternativa che non sia la mera distruzione dell'ostacolo.
In ultima analisi, al termine di questo processo la vita interiore dell'Io diviene del tutto simile all'opera d'arte dadaista, a cui, non a caso, è dedicato l'ultimo capitolo del libro. Ciò che l'opera d'arte dada compie è anzitutto un processo creativo fine a se stesso, a partire da oggetti dati che vengono composti secondo una forma nuova e ambigua, creata dal nulla dall'immaginazione e dalla creatività dell'artista: la medesima operazione che l'Io deve compiere con gli oggetti sensibili della realtà. Allo stesso tempo, la grande potenzialità dell'opera d'arte dadaista risiede nel fatto che anche per essere osservata necessita del medesimo processo creativo; il suo significato, infatti, non è reso esplicito, così come la sua immagine deve essere rintracciata all'interno della composizione. Lo spettatore non è dunque reso passivo, come la cera con lo stampino, ma è a lui richiesto uno sforzo creativo nel momento della percezione, affinché egli sia in grado di dare alle forme percepite un senso e un significato che, però, egli trae dalla propria interiorità: ancora una volta, la medesima operazione che l'Io deve compiere nei confronti dell'esistenza.

Julius Evola, L'idealismo Magico, Fratelli Melita Editori

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Ho parlato di Juliues Evola anche in:




Daniele Palmieri

venerdì 17 febbraio 2017

Giordano Bruno, l'eroe di Campo de' Fiori

Giordano Bruno, filosofo nolano, visse in quel periodo travagliato quanto intellettualmente fecondo che si situa tra la fine del '500 e l'inizio del '600, l'alba della rivoluzione scientifica. Il suo pensiero si pone proprio in questo limbo di transizione; in lui confluiscono infatti le arti magiche, occulte, esoteriche dell'umanesimo e le più recenti ipotesi astronomiche di Copernico, di cui Bruno tenta, per la prima volta, di trarre le conseguenze filosofiche. L'abbandono del geocentrismo e della concezione tolemaica dell'universo pone l'uomo in una posizione completamente diversa. Egli non si trova più al centro del Creato, non è più il fine a cui tende ogni cosa, ma al contrario è soltanto un atomo tra gli altri, che vive in un universo infinito fatto di infiniti mondi e la cui vita è un fugace sogno che svanisce alla sua morte. Utilizzando una poetica metafora dello stesso Bruno, l'anima umana non è che il minuscolo frammento di uno specchio più grande andato in frantumi; morire significa riporre tale frammento nella cornice originaria, di fianco agli altri.
Pur immerso in questo Universo sconfinato, l'uomo possiede però la facoltà di elevarsi, come già aveva insegnato Pico della Mirandola nella sua mirabile Orazione sulla dignità dell'uomo. Proprio le infinite manifestazioni dell'Universo e le innumerevoli entità in esso contenuto, per quanto inizialmente spiazzanti e labirintiche, sono sinonimo di altrettante infinite possibilità per l'uomo in grado di conoscerle e, di conseguenza, controllarle con il proprio lume naturale. E' questo il senso dell'Arte Magica e dell'Alchimia, di cui Bruno era un seguace sostenitore; la Magia è l'arte filosofica per eccellenza che permette all'uomo di conoscere i nessi causali che generalmente sfuggono all'occhio comune e, di conseguenza, di manipolarli a proprio piacimento per barcamenarsi nell'esistenza. Alla passività della preghiera Bruno oppone l'attiva conoscenza intellettuale, la più alta delle virtù che l'uomo deve coltivare per poter vivere, insieme alle antiche ed eroiche virtù pagane, come l'operosità, la fortezza, la magnanimità e tutte quelle manifestazioni dell'agire umano che, oltre all'attività intellettuale, presuppongono la messa in atto di un agire pratico che invece veniva soppiantato, nel cattolicesimo, da una inerme contemplazione del divino e dalla rassegnazione nei confronti del proprio essere un abietto peccatore. 
Proprio la sua spregiudicatezza nei confronti di ogni dogma lo porterà a essere perseguitato dai Cattolici in Italia, dai Luterani in Germania, dai Calvinisti in Svizzera, dagli Anglicani in Inghilterra finché, fidatosi di una persona sbagliata, fu catturato e imprigionato in Italia dalla Chiesa Cattolica. 
Recatosi a Venezia, infatti, per dare lezioni di filosofia a un certo Giovanni Mocenigo, fu tradito da quest'ultimo che si mostrò inetto e inerme dei confronti dei suoi insegnamenti e decise così di denunciarlo alle autorità papali. Ebbe dunque inizio un lungo processo, durato circa sette anni, in cui inizialmente Bruno tenterà di dissimulare i propri insegnamenti per poi, invece, affermarli a gran voce una volta compreso che il suo destino era segnato. 
Paradossalmente, è proprio la deposizione di denuncia di Giovanni Mocenigo, rilasciata il 23 maggio 1592, a fornire uno spaccato in grado di mostrare la spregiudicatezza di pensiero del filosofo nolano; disse, infatti, Mocenigo agli inquisitori:

"Io, Giovanni Mocenigo, dinuncio per obligo della mia conscienza, e per ordine del mio confessor, aver sentito dire a Giordano Bruno nolano, alcune volte c'ha ragionato in casa mia:1) Che è bestemia grande quella de cattolici il dire che il pane si transustanzii in Carne;2) Che lui è nemico della Messa;3) Che niuna religione gli piace;4) Che Cristo fu un tristo, e che se faceva opere triste di sedur populi, poteva molto ben predire di dover esser impicato;5) Che non vi è distinzione in Dio di persone, e che questo sarebbe imperfezion in Dio;6) Che il mondo è eterno, e che sono infiniti i mondi, e che Dio ne fa infiniti continuamente, perché dice che vuole quanto che può;7) Che Cristo faceva miracoli apparenti e ch'era un mago, e così gli appostoli, e ch'a lui daria l'animo di far tanto, e più di loro;8) Che cristo mostrò di morir mal volentieri, e che la fuggì quando che puoté; 9) Che non vi è punizione di peccati, e che le anime create per opera della natura passano da un animal in un altro, e che come nascono gli animali brutti di corruzione, così nascono anco gli uomini, quando doppo i diluvii ritornano a nasser;10) Ha mostrato dissegnar di voler farsi autor di una nuova setta sotto nome di nuova filosofia11) Ha detto che la Vergine non può aver parturito e che la nostra fede Cattolica è piena tutta di bestemie contra la maestà di Dio;12) Che bisognerebbe levar la disputa e le entrate alli frati, perché imbratano il mondo;13) Che son tutti asini, e che le nostre opinioni son dottrine d'asini;14) Che non abbiamo prova che la nostra fede meriti con Dio e che il non far ad altri quello che non vorresti fosse fatto a noi non basta per vivere;15) E che se ne ride di tutti i peccati e che si meraviglia di come Dio supporti tante eresie di cattolici".

Ed è sempre la sua eroica fine ad esserci narrata dalle pagine del processo, in particolare in quelle del Giornale dell'Arciconfraternita di s. Giovanni Decollato in Roma, che scrisse:

"Giordano Bruno [...] tanto perseverò nella sua ostinazione che da ministri di giustizia fu condotto in Campo di Fiori, e quivi spogliato nudo e legato a un palo fu bruciato vivo, aconpagniato sempre dalla nostra Compagnia cantando le litanie, e li confortatori sino a l'ultimo punto confortandolo a lasciar la sua ostinazione con la quale finalmente finì la sua misera ed infelice vita".

Così misera e infelice che, mentre loro erano impegnati a bruciare un uomo per ciò in cui egli credeva, quello stesso uomo, senza timore, al momento della sentenza rispose ai suoi inquisitori: avete più paura voi a pronunciare questa sentenza che io nell'ascoltarla. E, anche in questo caso, Bruno si mostrò più avanti dei suoi inquisitori, che, per timore di dover sentire altre verità, gli chiusero la lingua in una morsa per evitare che la sua voce si levasse dalle fiamme. Le medesime fiamme per le quali oggi, 17 febbraio 2017, è ancora ricordato come uno dei più grandi pensatori della storia dell'uomo.

Daniele Palmieri

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