giovedì 24 marzo 2016

Cormac McCarthy: tra natura selvaggia e violenza sacra la vera essenza dell'uomo

Se mi chiedessero chi è il più grande scrittore ancora in vita risponderei senza esitazione: Cormac McCarthy. I suoi libri sono tra i pochi lavori di autori contemporanei che, durante la lettura, mi fanno pensare: questa è Letteratura con la L maiuscola. 
In essi si ritrovano tutte le caratteristiche proprie dei classici del passato: cura stilistica, prosa ricercata, filosofia, una visione generale del mondo sottesa a ogni testo, l'indagine minuziosa dell'animo umano. Ultimo ma non meno importante: "l'impronta" dell'autore, quella caratteristica letteraria difficilmente definibile che ogni grande scrittore è in grado di imprimere nella propria opera, rendendola unica e inimitabile, qualcosa che soltanto la sua mente avrebbe potuto partorire. Quel tipo di marchio che non lascia spazio a mezzi termini: o lo ami o lo odi.
Come accennato in precedenza, all'interno dei libri di Cormac McCarthy prosa, filosofia e storia sono tre elementi inseparabili e strettamente interconnessi. Il suo linguaggio è arcaico ma allo stesso tempo asciutto e asettico, con brusche accelerate nei passaggi che evocano le asperità della natura selvaggia (tramonti, deserti, canyon, tempeste, montagne). Gli stessi personaggi diventano un tutt'uno con la natura e con la storia grazie a una caratteristica che salta subito all'occhio: l'assenza di virgolette o di altri segni di interpunzione atti a separare i dialoghi dal resto del discorso. Una scelta coraggiosa che soltanto uno scrittore di talento può essere in grado di gestire senza causare un'incomprensibile confusione.
In questo mondo impervio, retto da una legge quasi fatalistica come quella dell'universo mitologico greco, i personaggi sono piatti, impassibili, difficilmente "individuabili". Una precisa scelta letteraria e filosofica poiché McCarthy è un autore che non narra attraverso i personaggi ma che parla attraverso archetipi, perciò spesso si ha l'impressione di leggere qualcosa di evanescente, caotico, insensato, proprio come in un sogno/incubo. 
I protagonisti sono pedine in balia del destino che hanno un nome solo per essere distinte le une dalle altre, ciò che conta è la violenta mano invisibile che le muove. Difatti in una delle sue opere più belle, The Road, i due protagonisti non hanno nome, così come tutti i personaggi che incontrano. Sono semplicemente un padre e un figlio che viaggiano in un mondo distrutto da una guerra nucleare. Un padre e un figlio che sono, appunto, degli archetipi che rappresentano l'intera umanità e non "quel padre" e "quel figlio".
Proprio Uomo e Natura sono i due protagonisti sempre al centro della narrazione mcCarthyana. I personaggi si trovano spesso in balia di un mondo in rovina, di una Natura selvaggia che dà lo stesso effetto dei quadri del Romanticismo: terrorizza ma che allo stesso tempo affascina con il suo caos e la sua insensatezza. Filo conduttore che lega Uomo e Natura è l'intrinseca quanto insensata Violenza, con la V maiuscola poiché anch'essa viene rappresentata come un archetipo, forse il più importante insieme al Caos, pilastri metafisici sui quali si regge l'intero ordine cosmico.
Essa raggiunge la sua apoteosi in Meridiano di sangue, un testo che si apre con un'emblematica ed enigmatica citazione del mistico Jakob Bohme e che narra delle scorribande di un gruppo di giustizieri guidati dalla carismatica figura de "il Giudice Holden", un vero agente del caos che conosce ogni segreto della Natura e che, proprio per questo, si comporta come lei, distruggendo senza motivo ogni cosa che incontra sul proprio cammino.
In questo scenario apocalittico resta comunque spazio per la vera essenza dell'uomo, che non consiste nella violenza ma nella Speranza, che McCarthy rappresenta in Non è un paese per vecchi e in The Road con una metafora molto evocativa: il Fuoco.
Nel secondo libro essa viene citata costantemente. "Noi siamo i buoni perché portiamo il fuoco" ripete in più occasione il Padre al Figlio durante il loro viaggio attraverso il mondo distrutto, quasi fosse un mantra a cui aggrapparsi per riuscire ad andare avanti. In Non è un paese per vecchi è una metafora che viene evocata nel misterioso finale in cui lo sceriffo, protagonista del romanzo disilluso dalle violenze perpetrate dall'uomo, racconta alla moglie un sogno in cui suo padre lo conduceva attraverso la tenebre per accendere un fuoco "in mezzo a tutto quel buio e tutto quel freddo".
Il fuoco richiama l'ambiente familiare e sicuro del focolare domestico e rappresenta la luce interiore, la scintilla divina che permette all'uomo di sopravvivere alla natura selvaggia dentro e fuori di lui, poiché il Buio non potrà mai spegnere la Luce e, per quanto oscure possano essere le tenebre, anche solo una flebile fiaccola permette di rischiararle.


Daniele Palmieri

p.s.

La grande domanda è: perché McCarthy non ha mai vinto il premio Nobel per la letteratura?

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venerdì 18 marzo 2016

Hadot e il recupero della filosofia come esercizio spirituale

Molte persone associano la parola "filosofia" a quella materia strana, dal linguaggio astruso e poco comprensibile, che si occupa di problemi inestricabili e che si pone domande che non potrà mai risolvere. Di conseguenza il "filosofo" viene visto come quel personaggio alienato dal mondo, intento a riflettere sui massimi sistemi, la cui massima aspirazione è quella di figurare nei talk show televisivi come un pezzo d'arredo dalla sorprendente capacità di starnazzare come tutti gli altri partecipanti, ma con un linguaggio un po' più forbito.
Purtroppo è la filosofia stessa che, più o meno volontariamente, è andata a cacciarsi in questa situazione, a causa di alcuni atteggiamenti predominanti degli "addetti ai lavori" (perlomeno, di quelli più noti al grande pubblico) che in parte giustificano tutti questi pregiudizi.
L'opera filosofica (e filologica) di Pierre Hadot è volta proprio a "purificare" la filosofia da queste "deviazioni dialettiche", che rendono quello che dovrebbe essere il più importante esercizio di vita un mero esercizio eristico e sofistico.
E lo fa ripartendo dall'epoca d'oro della filosofia, che coincide proprio con il suo fiorire: il pensiero antico. Nelle sue opere principali, Esercizi spirituali e filosofia antica, Che cos'è la filosofia antica? e La filosofia come modo di vivere, lo storico della filosofia rilegge in un'ottica completamente diversa i filosofi greci e latini, allontanandosi dalla fossilizzata visione dei manuali accademici e restituendo ai pensatori classici la vitalità che era loro propria. La nuova prospettiva di Hadot è tanto semplice quanto geniale: la filosofia, per i filosofi antichi, non era un'astratta costruzione di sistemi teorici, ma un modo di vivere. Mentre Platone scriveva i suoi Dialoghi, Aristotele le sue lezioni per il Liceo, Epicuro le lettere a Meneceo e ai suoi amici, Marco Aurelio i propri Ricordi, la loro finalità non era quella di formulare un sistema filosofico astratto, che fossilizzasse in un testo scritto la loro visione generale del mondo. Essa esisteva, senz'altro, nelle menti di Platone, Aristotele, Epicuro o Marco Aurelio, ma rimaneva soltanto presupposta alle loro opere che erano scritti contingenti, legati all'esigenza pratica di trasmettere i propri insegnamenti a un gruppo di allievi, di alleviare i dolori di un amico, di riportare le discussioni avvenute durante le lezioni, di meditare costantemente sui principi fondanti della propria vita. In tutti questi casi la scrittura filosofica ha un unico fine: quello di trovare uno stile di vita consapevole che permetta al filosofo di vivere in maniera autentica, senza lasciarsi condizionare né dai luoghi comuni né dalla massa né dal potere.
Una maniera di vivere che non poteva certo coincidere con il semplice discorso filosofico astratto. Quest'ultimo è, appunto, soltanto un "discorso" e in quanto tale è destinato a rimanere una vacua parola se ad esso non segue una pratica costante che permetta al filosofo di diventare tutt'uno con il proprio pensiero, ossia di vivere seguendo principi filosofici ben precisi, senza mai abbandonarli.
Secondo Hadot, iniziatore di questo genere di "vita filosofica" è stato Socrate, un pensatore che, pur non avendo scritto nulla, ha avuto un impatto rivoluzionario sulla storia della filosofia occidentale, proprio perché nella sua figura vita e filosofia sono un tutt'uno. Come scrive il filosofo francese in Che cos'è la filosofia
antica?: "Socrate è un pensatore esistente prima ancora di essere un filosofo che medita sull'esistenza", un pensatore che rese la sua stessa vita un insegnamento filosofico, tramite l'esempio della propria integrità morale.
La sua fu una vera e propria rivoluzione filosofica. Nessun pensatore, prima di lui, aveva avuto lo stesso impatto sulla vita di una città né era stato in grado di metterne in discussione in maniera così profonda le consuetudini.
Una saldezza d'animo che, secondo Hadot, derivava da un continuo esercizio spirituale volto a temprare la propria psyché per prepararla a ogni avversità.
E' Platone stesso a rappresentare Socrate immerso in profonde sessioni di meditazione, durante le quali si ritirava in se stesso senza essere minimamente scalfito dal mondo esterno; oppure mentre esorta i discepoli ad esercitarsi a morire, poiché soltanto chi ha superato la paura della morte può godere davvero di ogni momento della vita; infine, a conoscere e a prendersi cura della propria psyché, la vera essenza di ciascun uomo che nasconde l'unica chiave per la felicità personale.
Come anticipato in precedenza, pur non aver teorizzato nulla di preciso Socrate fu il più grande dei maestri, e lo dimostrano le innumerevoli ed eterogenee scuole filosofiche che i suoi discepoli fondarono in seguito alla condanna a morte.
Platone e il platonismo (da cui deriveranno Aristotele e l'aristotelismo), Diogene e il cinismo, Aristippo e la scuola cirenaica (che porranno le basi per lo stoicismo e l'epicureismo). In ciascuna di esse v'è una stretta correlazione tra pensiero e vita. Le stesse "scuole" non erano semplici luoghi di studio, ma vere e proprio fucine spirituali. Il filosofo non vi entrava per imparare aride nozioni, ma lo faceva per cambiare radicalmente condotta di vita. Era una vera e propria conversione laica, poiché scegliere la scuola stoica piuttosto che quella platonica, cinica, pitagorica o aristotelica significava iniziare a vivere secondo principi ben determinati e plasmare la propria psyché tramite assidui esercizi spirituali (di cui ho parlato nell'articolo La filosofia come esercizio di vita).
Secondo Hadot, il declino di tale concezione avvenne con l'avvento del cristianesimo che, se nelle fasi iniziali della sua diffusione assimilò la visione classica ponendosi come la condotta di vita filosofica perfetta, quando si affermò come religione predominante surclassò e represse le diverse scuole, non potendo tollerare modi di vivere diversi da quello cristiano.
Inoltre, fu sempre il cristianesimo ad allontanare la filosofia dalla vita quotidiana, rendendola succube delle istanze teologiche e facendo vertere la discussione teorica su problemi sempre più astratti e lontani dal mondo "terreno" quali l'esistenza di Dio, la trinità, gli universali, la natura di Cristo e simili.
Uno iato tra discorso filosofico e vita che si inasprì con un altro passaggio importante per l'evolversi della filosofia, ossia la nascita delle università. Benché importanti centri di cultura, in esse la filosofia divenne una materia tra le altre e il "filosofo" non più la persona che viveva seguendo determinati principi, bensì un professionista il cui compito era quello di formare altri professionisti, una concezione che si propagò nel tempo anche quando la filosofia recuperò la propria indipendenza dalla teologia e quando le università si affrancarono dal dominio religioso, laicizzandosi.
Tale visione è quella che, ancora al giorno d'oggi, va per la maggiore. Dall'ottocento in poi i principali filosofi furono soprattutto professori universitari e i più noti, come Hegel, Heidegger, Husserl (per citare alcuni nomi), contraddistinti da un linguaggio spesso verboso e incomprensibile, molto diverso da quello semplice, chiaro e diretto dei filosofi antichi che permetteva a chiunque di avvicinarsi alla materia (e non è semplice retorica, giacché molte scuole filosofiche del passato, come quella stoica ed epicurea, erano aperte a uomini e donne, liberi e schiavi). Una triste "usanza" ancora viva nel XXI secolo, soprattutto in Italia dove i "filosofi" più conosciuti sono popolatori di talk show, fabbricatori di supercazzole, scribacchini di libri vuoti con lo stesso concetto ripetuto all'infinito, e individui dalla dubbia condotta morale che si permettono di copiare testi altrui (per lo più di dottorandi) spacciandoli per propri.
Con ciò non si vuole certo mettere in discussione l'importanza dell'insegnamento filosofico (il che sarebbe paradossale, visto che Hadot stesso era un professore di filosofia e io stesso ho studiato filosofia in università), tuttavia si vuole fare una netta e importante distinzione tra discorso filosofico fine a se stesso e discorso filosofico preparatorio alla vita. Il primo è materia da setta esoterica chiusa su se stessa e, riformulando un esempio di Wittgenstein, ha senso soltanto finché ci si trova seduti in un salotto a discutere, ma sembra perdere ogni attinenza con il reale quando si abbandona la poltrona e si esce all'aria aperta. Questo tipo di discorso relega la filosofia all'ambiente universitario, la rende materia da élite, un affronto alla stessa pratica filosofica che è nata, appunto, come un richiamo all'azione atto a rivoluzionare gli schemi tradizionali tramandati dalla consuetudine, dal potere, dalle convenzioni.
Al contrario, il discorso filosofico preparatorio alla vita è un'estensione della vita stessa. Esso è profondamente radicato nell'esistenza, il suo compito è quello di fornire all'uomo gli strumenti spirituali per affrontare le asperità della vita mediante la conoscenza, rendendo così il suo animo inossidabile come l'acciaio.
Ma nel momento in cui i filosofi (o presunti tali) rimangono trincerati nei corridoi accademici, la filosofia (e, di conseguenza, il filosofo) appassisce, come un fiore lasciato senz'acqua. E' questo, in sostanza, il messaggio più importante dell'opera di Hadot.

Daniele Palmieri

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domenica 13 marzo 2016

Il Philobiblon di Riccardo de Bury: un'appassionata lode d'amore ai libri


"Da quello che abbiamo detto, deduciamo un corollario che a noi piace, ma che pochi, crediamo, sono disposti ad accettare: è evidente che nessuna ristrettezza debba impedire l'acquisto dei libri, quando si abbia il necessario per farlo [...] perché se il prezzo dei libri è determinato solo dalla saggezza, che rappresenta un tesoro infinito per gli uomini, e se il valore dei libri è tale da non potersi esprimere a parole, come si deduce dalle premesse fatte, come potremmo definire caro il prezzo, quando quel che si acquista è un bene infinito?Perciò i libri bisogna comprarli con piacere e venderli malvolentieri, come ci esorta Salomone: "La verità comprala e la Sapienza non venderla"
[Riccardo de Bury - Philobiblon]

Un libro scritto in lode ai libri che, con un geniale argomento, giustifica ogni singolo centesimo speso in libri (lavando la coscienza degli assidui frequentatori di librerie). Cosa potrebbe chiedere di meglio un appassionato bibliofilo (come me)?
Dovrebbe bastare questo breve passaggio a spingere ogni lettore che si rispetti ad aggiungere alla sua libreria il Philobiblon, un'orazione in lode ai libri scritta da Riccardo de Bury, bibliofilo inglese e abile ricercatore di tomi rari vissuto nel XIV secolo, il cui intento era quello di esortare le alte cariche ecclesiastiche a fondare una biblioteca liberamente consultabile presso l'università di Oxford.
Tuttavia il Philobiblon non è solo questo, ma molto di più: è un testo dalle molte facce, a tratti di un'attualità spaziante. Con una prosa semplice, lineare ma allo stesso tempo enfatica, a tratti irriverente e spesso ironica, a metà tra il serio e il faceto, Riccardo de Bury conduce il lettore nel mondo delle antiche biblioteche medievali tanto care a Borges e Umberto Eco, delineando l'universo variegato di monaci, studenti, ricercatori, libri rari e preziosi che ruotava intorno a esse.

Nell'ottica del monaco benedettino inglese il Libro rappresenta il sacro scrigno della Sapienza, bene prezioso più di ogni altro poiché permette di conservare e trasmettere ai posteri le conoscenze apprese dalle grandi menti del passato, che inevitabilmente andrebbero perdute se non esistessero le pagine bianche su cui imprimerle con l'inchiostro nero. Il Libro diventa così un'estensione della mente dell'uomo, che gli permette di ampliare i suoi confini e di avere una conoscenza infinita, sempre a portata di mano, ed è chiaro che, come riporta la citazione precedente, esso è un oggetto dal valore inestimabile, poiché non v'è nulla che valga come la Sapienza, la quale permette all'uomo di avvicinarsi alla mente di Dio.

Ne consegue che l'amore dei bibliofili nei confronti dei libri non potrà mai essere smisurato, così come non sono insensati i loro sforzi nel difendere e conservare questo oggetto tanto fragile quanto prezioso. Da questo punto di vista, Riccardo de Bury ne ha per tutti e si scaglia, senza esclusione di colpi, contro ogni nemico della carta stampata: la cieca guerra che distrugge ogni cosa che incontra sul suo cammino, i monaci che al sacro calice dei libri preferiscono quello del vino, gli ordini mendicanti  avidi di guadagno che ritengono l'acquisto di libri spesa inutile, gli studenti lazzaroni che non comprendono quale grande fortuna sia sfogliare le pagine di un codice, le persone che non hanno alcun rispetto nei confronti dei tomi delle biblioteche e che li rovinano addormentandovisi o mangiandovi sopra, strappandone i bordi bianchi per rubare la carta (all'epoca bene caro), sfogliando le pagine con le mani sporche e unte, lasciandoli aperti a prendere polvere o aprendoli senza ritegno rovinandone la rilegatura; insomma, tutte azioni che, a centinaia di anni di distanza, fanno ancora rabbrividire gli appassionati bibliofili che tengono in gran cura ogni singolo volume della propria libreria.

Tuttavia, l'aspetto più sorprendente del Philobiblon di Riccardo de Bury non è certo la passione nei confronti del libro come oggetto materiale, bensì l'intento umanistico che sta alla base dell'intera orazione. Come anticipato in precedenza, la finalità del bibliofilo inglese era quella istituire una biblioteca nell'università di Oxford poiché, per lui, i libri sono il simbolo dell'essenza stessa dell'uomo. La biblioteca diventa dunque un luogo di incontro spirituale, che deve racchiudere, preservare e difendere ogni testimonianza del pensiero umano, finanche i testi contrari alle sacre scritture, per permettere la trasmissione del sapere. Un sapere che deve essere alla portata di tutti e che deve essere condiviso pubblicamente, poiché ciò che accomuna l'uomo a Dio è proprio il Verbo, la Parola.
In definitiva, il Philobiblon è una testimonianza preziosa, che tutti dovrebbero leggere. Non soltanto, dunque, i bibliofili per ritrovare una testimonianza molto vicina alla loro passione e per saperne di più sulla storia del libro, ma ogni persona per sfatare il pregiudizio di un medioevo all'insegna dell'ignoranza e, soprattutto, per comprendere il valore di una delle invenzioni più importanti della storia, che nessun altro veicolo di informazioni potrà mai eguagliare.

Riccardo de Bury, Philobiblon, edito in Italia da La vita felice (casa editrice milanese per veri bibliofili!).

Daniele Palmieri

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venerdì 11 marzo 2016

La tranquillità interiore, una breve introduzione filosofica alla felicità

La felicità è un viaggio, il viaggio che ognuno di noi compie attraverso l'esistenza per trovare un senso alla propria vita.
La tranquillità interiore, come da sottotitolo, è una breve introduzione filosofica alla felicità, che traccia soltanto uno dei molti percorsi possibili, seguendo le indicazioni dei grandi pensatori del passato (Platone, Socrate, Cartesio, Epitteto, Marco Aurelio e molti altri).
E' un testo che non vuole fornire risposte certe, tanto meno "cure" all'infelicità precostituite, ma che vuole incamminarsi insieme al lettore in una ricerca che da sempre accomuna tutti gli uomini di tutte le epoche.
Nelle righe seguenti potete leggere un breve estratto del testo, tratto dall'introduzione e dai primi capitoli.





COME LEGGERE QUESTO SCRITTO


Raramente, nell’introduzione di una trattazione, ci si imbatte in indicazioni fornite dall’autore su come leggere il testo in questione. Eppure, in questo scritto, mi sento in dovere di farlo.
Sarà perché la felicità è un argomento molto delicato. Ognuno ha la propria idea di “felicità”, spesso influenzata dal proprio vissuto, dalla propensione e dalla sensibilità personale.
Negli ultimi anni sono molti gli scritti che promettono di far conoscere il segreto della felicità. Da un lato, ciò è sintomatico di una società infelice, nonostante l’abbondanza di beni materiali di cui siamo circondati. Dall’altro, però, credo che questi testi mentano, poiché nessuno conosce il vero segreto della felicità e, di conseguenza, nessuno può insegnarlo.
Esistono molte strade, ognuna di esse valida, e ciascuno di noi deve scegliere quella che più lo attrae, sempre nel rispetto della vita e della felicità altrui.
Quanto dico potrebbe sembrare in contrasto con quanto mi accingo a trattare. E lo è, se si legge questo breve testo come uno scrigno che contiene il vero segreto della felicità.
In così poche pagine io non prometto nulla di tutto ciò.
Descrivo soltanto la mia personale esperienza della felicità, che magari può coincidere con la sensibilità di qualcun altro, oppure stimolare spunti di riflessione in chi non la condivide. Quest’ultimo è l’interesse principale della presente trattazione, che avrà raggiunto il suo risultato soltanto se avrà stimolato ulteriori dubbi e domande.
Dall’altro lato, bisogna approcciarsi a questo testo tenendo presente lo spirito con cui è stato scritto.
Esso nasce come una sorta di lunga missiva dedicata a una mia amica che aveva bisogno di qualche consiglio sulla felicità. Similmente a molti testi dell’antichità, come la Lettera a Meneceo di Epicuro, La tranquillità d’animo di Plutarco, le Lettere a Lucilio di Seneca, è stato scritto, dunque, per rispondere a esigenze pratiche della vita, per trovare una risposta filosofica a problemi concreti (e per questo alcuni argomenti sono solo accennati in maniera concisa). Allo stesso tempo, proprio come i testi sopra citati, esso è in realtà rivolto principalmente a me stesso. Si tratta di una forma di meditazione con la quale ho tentato di rendere in maniera sistematica i principi con cui regolo la mia vita, per portare chiarezza tra le mie idee.
Essendo stato scritto ben due estati fa, è un testo che, per certi versi, percepisco ancora come acerbo rispetto a una maturazione che ancora è in corso. Nel tempo che è passato ho cambiato il modo di vedere certe cose e, nei limiti del possibile, ho corretto alcune posizioni in cui non mi rispecchiavo più, ho eliminato certi concetti e ne ho aggiunti altri. Probabilmente, se leggerò questo testo tra un anno ancora, avrò molto altro in cui mettere mano, poiché la felicità è un sentiero che battiamo costantemente e che ci costringe, in un modo o nell’altro, a cambiare di continuo le proprie convinzioni.
Detto questo, lascio il Lettore alle pagine seguenti, rinnovando l’augurio di trovare più domande che risposte.

Con affetto,


D. P.


I

LA FELICITÁ, OVVERO LA TRANQUILLITÁ INTERIORE

[La felicità]


Tutti aspirano alla felicità. Eppure essa pare così sfuggevole, a tal punto da farci creder d’inseguire un’ombra.
Schopenhauer e Leopardi giunsero a conclusioni molto simili tra loro; la felicità è impossibile da raggiungere poiché, realizzato il nostro fine dopo un faticoso percorso, ecco che subentra la noia e subito ripartiamo alla ricerca di qualcosa d’altro, illudendoci, ancora una volta, di poter giungere alla meta finale[1].
Tale verità è innegabile, ma lo è soltanto sino al punto in cui inseguiamo beni effimeri, di alcun valore, o finché chiamiamo felicità qualcosa che in realtà felicità non è.
Come sostiene Aristotele ne l’Etica Nicomachea, la vera felicità è quella che si rincorre di per se stessa[2]. Riutilizzando il linguaggio precedente, è la reale meta del nostro viaggio, il punto di arrivo da cui non sentiamo il bisogno di separarci.
Tuttavia, pur avendo indicato qual è la vera natura della felicità, occorre comprendere non solo come raggiungerla, ma anche se esiste una meta simile, giacché altrimenti ogni parola su questo argomento sarebbe spesa invano e tutta la Filosofia Antica perderebbe ogni significato[3].
E, per farlo, non c’è altro modo che mettersi in viaggio.

[La tranquillità interiore]

Epitteto, un filosofo stoico del I secolo d.C., nel suo Manuale fece un’importante distinzione: da un lato, pose i beni che non sono in nostro potere, dall’altro quelle che lo sono[4].
Ciò che non è in nostro potere, per definizione, è impossibile da cambiare, dunque non bisogna preoccuparsene; al contrario, sulle cose che sono in nostro potere abbiamo pieno controllo ed è solo tramite esse che potremo realizzarci[5].
Sempre secondo il filosofo greco, nella prima categoria rientrano il corpo, le ricchezze, gli onori e tutto ciò che dipende dal mondo esteriore; nella seconda la ragione, il desiderio, la repulsione e tutto ciò che cade sotto l’egida della nostra volontà.
Per la seguente trattazione, ci avvarremo della distinzione di Epitteto, ma con alcune differenze.
Difatti, ritengo che il corpo, entro certi limiti, sia da considerare come un bene sottoposto al nostro controllo e, al contrario, che le emozioni possano essere annoverate tra le facoltà che non possiamo influenzare direttamente.
Per ora, però, non ci addentreremo in ulteriori dettagli giacché delle motivazioni che mi portano a tale distinzione discuteremo più avanti.
Alla luce di tali considerazioni, come possiamo raggiungere e definire la felicità?
Per essere raggiungibile, essa deve dipendere da noi poiché se dipendesse solo da ciò che non è in nostro potere sarebbe come voler approdare ad un porto lasciandosi trascinare dalle correnti.
Dunque, è d’importanza fondamentale la prima categoria di beni; ma, al contrario del filosofo Stoico, non ritengo adeguato concentrarsi soltanto su essi, poiché con il giusto approccio è possibile non modificare, ma trarre vantaggio da quello che ci accade intorno. Tuttavia, pure su questo punto ritorneremo in seguito.
Perciò, definiremo la felicità come uno stato di perfetto equilibrio tra l’interiorità e l’esteriorità e, siccome essa è una condizione soggettiva, che interessa la nostra persona, chiameremo tale stato di assoluto equilibrio tranquillità interiore.
Ed ora, definita con precisione la meta, non resta che metterci in viaggio per tentare di raggiungerla.

II

I BENI CHE DIPENDONO DA NOI


Siccome ogni viaggio comincia da un punto di partenza, sarà bene cominciare la trattazione da quello a noi più prossimo, ossia dal mondo dell’interiorità, da ciò che dipende dall’Io. Ma chi è questo Io?

LA PSYCHÉ

[Conosci te stesso]

Il primo passo, apparentemente il più semplice, è in realtà il più complesso.
Infatti, come potremmo presumere di conoscere la meta e la strada da percorre se non sappiamo nemmeno chi si è messo in viaggio? Se è grave viaggiare senza documenti, i quali non contengono nulla su di noi, figuriamoci muoversi senza conoscere l’identità di quel noi.
Nelle opere platoniche riecheggia spesso, per bocca di Socrate, il motto impresso sul tempio dell’oracolo di Delphi: Conosci te stesso.
Leggere tale monito tra gli effluvi, gli incensi e i profumi inspirati dalla sacra pizia, invasata dallo spirito del Dio alla luce delle flebili e tremolanti candele doveva essere un’esperienza mistica, bastevole di per se stessa per afferrare il significato di tale concetto all’istante, come una vera e propria rivelazione.
Purtroppo però, dovremo accontentarci delle mie misere parole, che mai potranno esplicare fino in fondo il significato di questo monito così semplice ma allo stesso tempo così complesso.
Come uno zoppo che necessita di una stampella per camminare, mi aiuterò con le parole del più grande filosofo di tutti i tempi: Platone[6].
L’ateniese scrisse un intero dialogo su questo argomento, l’Alcibiade I[7], che ha come protagonisti il saggio Socrate e il giovane, bello, spregiudicato e ambizioso Alcibiade.
Quest’ultimo, appena ventenne, è ai primordi della sua carriera politica e si considera l’uomo più adatto per la polis[8] di Atene. Socrate, però, tramite la sua arte maieutica[9], dimostra non solo che egli non conosce la Giustizia, ma che manca del requisito essenziale per qualunque impresa si voglia intraprendere: la conoscenza di sé.
La sua importanza è illustrata con un ragionamento semplice quanto geniale (d’altronde, tutte le grandi intuizioni hanno queste due caratteristiche).
Prendersi cura di qualcosa vuol dire occuparsi non di ciò che le sta intorno, ma della cosa stessa.
Facendo un esempio pratico, un medico per curare una malattia non si occuperà dei vestiti del paziente, bensì del suo fisico.
Allo stesso modo, per migliorare se stessi non si deve badare ai beni esteriori – ossia alle cose che ci circondano – ma al vero noi.
Per farlo, però, bisogna conoscere questo noi, come un medico deve necessariamente sapere chi è l’ammalato per poterlo curare.
Bisogna chiedersi: chi sono io?
Rispondere non è per nulla semplice. Al termine della prima lezione di filosofia della mia vita, in terza superiore, il professore diede come compito un tema, la cui traccia era proprio: chi sono io?
Inutile descrivere quanto fossimo spaesati io e i miei compagni; non solo perché non comprendevamo il senso della domanda, ma perché non sapevamo cosa scrivere.
Chi sei tu? Mi domandava il foglio bianco, senza che io riuscissi a rispondergli.
D’altronde, lo stesso Platone, per bocca di Alcibiade, ammette che “rispondere mi è sembrata molte volte una cosa da tutti, altre volte tremendamente difficile”. [10]
Tuttavia, il filosofo ateniese non si lascia scoraggiare come facemmo all’epoca noi liceali e, tramite Socrate, esprime la seconda geniale intuizione di tale dialogo.
Per conoscere se stessi occorre concentrarsi sul nostro nucleo, sulla nostra reale essenza: l’anima (in greco, psyché).
Questo concetto, ideato per la prima volta da Socrate e poi teorizzato e sviluppato da Platone, fu rivoluzionario; per la prima volta, l’uomo si accorse di avere una propria psyché, diversa per ciascuno di noi, l’unico elemento che ci distingue l’uno dall’altro[11].
Chi sono io? Io sono la mia psyché; senza di essa non sono nulla.
Raggiungere tale consapevolezza è il primo passo verso qualsiasi forma di conoscenza, il primo passo sul cammino che conduce alla tranquillità interiore[12].
Tuttavia, con un solo passo non si può arrivare molto lontani; per raggiungere la nostra meta, occorre camminare ancora molto.
Non basta aver preso consapevolezza del proprio io, occorre capire quali caratteristiche lo differenziano dagli altri e, per farlo, nel prossimo paragrafo analizzeremo le parole di un altro pilastro della filosofia mondiale. [...]

La tranquillità interiore. Breve introduzione filosofica alla felicità, edito da Eretica Edizioni, pp. 11-24.


Di seguito, il sommario completo:


Daniele Palmieri
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[1] Per il primo si veda Il mondo come volontà e rappresentazione, per il secondo lo Zibaldone oppure si legga e si analizzi la sua opera poetica.
[2] Aristotele, Etica Nicomachea, Libro I, cap. X.
[3] Difatti, mentre l’uomo moderno s’interroga su come diventare ricco e famoso, quello antico, molto più assennato, si domandava come essere felice. E, curiosa coincidenza, i due oggetti delle nostre brame poc’anzi citati venivano sovente scartati da tutti i pensatori – o, comunque, considerati per quello che sono: beni apparenti ed effimeri, fantasmi.
[4] Epitteto, Manuale, a cura di Martino Menghi, BUR, Milano 2011
[5]  Mi sento in dovere di sottolineare, a scanso di equivoci, che Epitteto attua questa distinzione per quanto riguarda i beni che l’uomo deve o non deve considerare per il raggiungimento della felicità; per cui, “non preoccuparsi delle cose esterne” significa “non dipendere da esse”, giammai “chiudere gli occhi innanzi dinnanzi a ciò che accade e preoccuparsi solo di se stessi”. Al contrario, Epitteto, come tutti gli Stoici, ha sempre sottolineato l’importanza di una vita attiva, alla ricerca del perfezionamento non solo della propria condizione, ma anche e soprattutto di quella altrui.
[6] "The safest general characterization of the European philosophical tradition is that it consists of a series of footnotes to Plato"
Whitehead, Process and Reality, pp. 39, Free Press, 1979.
[7] Alcibiade I per differenziarlo dall’Alcibiade II, dialogo tramandato come platonico ma molto probabilmente spurio.
[8] Traslitterazione dal termine greco che significa città; si tenga presente, però, che la polis greca non è paragonabile alle odierne città. Essa, infatti, era un vero e proprio stato, con il proprio ordinamento politico, le proprie usanze e le proprie tradizioni. L’epoca delle polis greche è forse la più affascinante della storia antica; fu durante questo periodo che si posero le basi della cultura e della filosofia occidentale.
[9] L’arte maieutica di Socrate consiste nel porre continue domande all’interlocutore su temi che egli pensa di conoscere; costretto a enunciare una definizione da essa l’interrogato, incalzato dai quesiti del filosofo, trarrà conclusioni contraddittorie che dimostreranno la sua ignoranza.
[10] Platone, Alcibiade Primo/Alcibiade Secondo, BUR, pp. 131, Bergamo 2006
[11] Per approfondire questo argomento, si vedano il vol. 2 e il vol. 3 (rispettivamente, su Sofisti/Socrate e Platone) della sua Storia della filosofia greca e romana di Giovanni Reale edita da Bompiani.
[12] Non a caso, quando il filosofo neoplatonico Giamblico si occupò dell’ordine in cui sottoporre i dialoghi di Platone agli studenti della propria Accademia pose l’Alcibiade al primo posto, come propedeutico all’intero iter conoscitivo.

giovedì 10 marzo 2016

La tranquillità interiore. Breve introduzione filosofica alla felicità. (Daniele Palmieri)

La tranquillità interiore. Breve introduzione filosofica alla felicità.


Quest'anno sarà denso di progetti e pubblicazioni e, dopo "La panchina e altre poesie d'Amore", ecco la mia seconda pubblicazione del 2016: "La tranquillità interiore. Breve introduzione filosofica alla felicità", edito da Eretica Edizioni.
E' un breve saggio divulgativo di un'ottantina di pagine che accompagna il lettore in un viaggio alla ricerca della felicità.
Al contrario di molti altri testi sull'argomento però non promette ponti d'oro né ha la pretesa di svelare il reale segreto della felicità, per una semplice ragione: nessuno lo possiede (e può possederlo), poiché ognuno compie il proprio viaggio attraverso l’esistenza e soltanto noi possiamo scoprire il sentiero da seguire per vivere a pieno la nostra vita. Questo libro è come una piccola mappa da viaggio: seguendo alcune indicazioni dei grandi pensatori del passato (Platone, Socrate, Cartesio, Epitteto, Marco Aurelio e molti altri), traccia soltanto uno dei tanti percorsi possibili verso la felicità, nella speranza di sollevare, lungo il cammino, più domande che risposte.

Lo potete trovate sul sito della casa editrice a 9 euro e 90 anziché 13: http://www.ereticaedizioni.it/?product=daniele-palmieri-la-tranquillita-interiore
Presto, appena mi arriveranno le copie, potrete ordinarlo anche da me!


Daniele Palmieri

mercoledì 9 marzo 2016

Ernst Junger e la battaglia come esperienza interiore

Ho già trattato di Ernst Junger qualche giorno fa, parlando del suo Trattato del Ribelle. Oggi mi occuperò di un altro suo testo, forse ancora più brillante: La battaglia come esperienza interiore.
A metà tra discorso filosofico, diario di guerra e testo letterario, La battaglia come esperienza interiore è un libro difficilmente catalogabile secondo i criteri classici.
In esso Ernst Junger narra la sua esperienza in trincea durante gli anni della prima guerra mondiale. E lo fa in maniera cruda e realistica ma, allo stesso tempo, onirica e poetica, con una prosa incalzante ed evocativa in grado di trascinare il lettore al suo fianco sul campo di battaglia.
Proprio questo è l'intento dell'autore: far vivere al lettore la guerra in prima persona, senza parlare degli eventi storici che ha vissuto ma limitandosi al resoconto interiore di essi. Il discorso infatti si sviluppa in una serie di capitoli incisivi, simili a brevi flussi di coscienza, fatti di suoni, sensazioni, pensieri, odori, sentimenti, immagini. Leggere questo testo è come vivere un incubo nitido, sembra di sguazzare nel fango della trincea, di essere sfiorati da una carica di proiettili, di percepire l'odore del sangue e della decomposizione e di essere assordati dal boato delle granate.
Senza farsi influenzare né dal romanticismo d'acciaio futurista che esaltava il conflitto, il suono delle mitragliatrici e delle bombe, né dal pacifismo che vedeva la guerra come qualcosa di "innaturale", ne La battaglia come esperienza interiore Junger si pone al di là del bene e del male, descrive la guerra in maniera lucida, realistica, disincantata, con un discorso che non è né morale né immorale ma amorale e che, proprio astenendosi da ogni giudizio, riesce a coglierne la vera essenza.
Svincolata da qualsiasi motivazione logica, la guerra non è causata dagli stati, dai trattati non rispettati o dalle alleanze internazionali, tantomeno essa ha un fine. La guerra esiste poiché esiste l'uomo e l'unico fine della guerra è la guerra stessa. Il conflitto armato è l'espressione delle pulsioni primitive che la società vorrebbe estirpare ma che, profondamente radicate in noi, riesce soltanto a reprimere, respingendole nei meandri bui della nostra anima. Pulsioni violente che, a forza di essere represse, si accumulano fino a esplodere e la guerra altro non è che la manifestazione del nostro lato selvaggio che, per quanto possa essere rinnegato, fa sempre parte di noi. Da questa prospettiva, ogni giustificazione o motivazione della guerra è soltanto a posteriori, ciò che cambia col passare dei secoli è soltanto il progresso tecnologico e, di conseguenza, le diverse modalità con cui l'uomo si affronta in battaglia. Ma se il nemico viene ucciso a mani nude, con una pietra, con una lancia, con una spada, con un fucile o con una bomba il risultato non cambia, così come non cambia la motivazione più profonda che spinge il soldato a uccidere per non essere ucciso.
Il circolo vizioso della guerra è in continuo divenire e le pause tra un conflitto e l'altro sancite dai trattati di pace sono soltanto momentanee, così come sono momentanei i momenti di quiete sul campo di battaglia prima dell'infuriare delle mitragliatrici.
Come l'oltreuomo nietzschiano, consapevole della morte di Dio, deve essere in grado di oltrepassare la linea al di là del bene e del male per trovare un proprio senso alla vita, il soldato idealizzato da Junger, consapevole dell'ineluttabilità della guerra, deve riuscire ad andare oltre la guerra per poter sopravvivere. Il soldato jungeriano diventa colui che è in grado di assaporare ancora più a fondo la vita proprio perché si trova, ogni giorno, di fronte all'orrore, al polemos metafisico che fa girare la ruota dell'esistenza. In questo scenario devastante i piccoli momenti di quiete della vita, anche (anzi, soprattutto) quelli più semplici vanno gustati e goduti a piccoli sorsi poiché, seppur brevi, riescono a dare un senso all'orrore prima che la guerra, con il suo canto da sirena, richiami a combattere.

Ernst Junger, La battaglia come esperienza interiore, edito in Italia da Piano B Edizioni.
Se questo articolo ti è piaciuto, dai un occhio alle mie pubblicazioni.

Daniele Palmieri

domenica 6 marzo 2016

La filosofia come esercizio di vita

Lo stretto legame tra filosofia e vita delle scuole ellenistiche e romane

Marco Aurelio, imperatore e filosofo stoico
Per le scuole Ellenistiche e Romane accostarsi alla Filosofia significava sconvolgere il proprio stile di vita; era una vera e propria conversione laica che permetteva di passare da una vita inautentica a una vita autentica. Passaggio possibile solamente acquisendo la consapevolezza delle proprie azioni e dei propri desideri; si poteva così cominciare a vivere, ossia comprendere per cosa vale la pena farlo e agire di conseguenza.[1] Un agire che diventa essenzialmente agire etico, poiché l’azione etica è l’unica che possa dipendere dalla nostra volontà. Con l’acuirsi della consapevolezza dell’altro e di un Mondo dai confini indefiniti, si passa da una prospettiva egocentrica e antropocentrica a una cosmopolitica e universale, che spianerà la strada all’ideale di humanitas importato dalla Grecia nell’Impero Romano dal circolo degli Scipioni.[2]
Tuttavia, questa variazione di prospettiva non è per nulla semplice, poiché essa rivoluziona la concezione che si ha non solo del Cosmo, ma anche della realtà interiore e della realtà sociale, in particolar modo dei nostri doveri verso gli altri e delle nostre esigenze.
Il cambiamento non può essere conquistato da un giorno all’altro, ma richiede inevitabilmente un esercizio costante volto a plasmare lo spirito del singolo e a fargli acquisire il pieno controllo delle proprie facoltà razionali.
Ciò è possibile tramite l’acquisizione di principi etici che non devono mai abbandonare il filosofo per l’intero decorso della sua esistenza; perciò essi devono essere semplici e immediati e devono rifarsi a un principio comune, fondamento e allo stesso tempo fine della propria vita. Tali principi devono permettere al filosofo di possedere in ogni momento il pieno controllo delle proprie facoltà, dimodoché le sue azioni siano sempre dettate non dall’impulso ma dalla libera volontà.[3] È lo stesso concetto che si trova già espresso ne l’Etica Nicomachea di Aristotele, in cui il Filosofo sostiene che l’uomo virtuoso è colui il quale agisce liberamente scegliendo la virtù, non perché costretto dalla legge, ma poiché comprende che essa è la migliore tra le scelte possibili; l’uomo virtuoso, di conseguenza, è felice poiché il suo fine è la virtù in sé e non il proseguimento della virtù per scopi egoistici.
Una vigilanza del genere implica un controllo assiduo sul momento presente, poiché la pratica della virtù è tale soltanto se esercitata con costanza e non a intervalli irregolari.[4]
Ed è qui che entrano in gioco gli esercizi spirituali prescritti dallo Stoicismo. Purtroppo, non sono stati tramandati trattati sistematici che descrivano con precisione questo tipo di esercizi; tuttavia, è possibile rifarsi alla testimonianza di Filone di Alessandria, che ne L’erede delle cose divine elenca le diverse fasi da percorrere.[5]
Le prime fasi, che possiamo riunire in un unico gruppo, sono composte dalla ricerca, dall’esame approfondito, dalla lettura, dall’ascolto e dall’attenzione. Come è possibile notare, i primi esercizi sono prettamente “passivi”, dedicati all’apprendimento dello stile di vita della Stoà mediante uno studio approfondito, sia tramite la lettura e una comprensione profonda dei libri della scuola sia ascoltando e prestando attenzione alle parole dei maestri. È il primo gradino dell’iniziato alla Filosofia, apparentemente il più semplice ma in realtà molto importante; la Sophia tramandata dalla scuola deve penetrare nella propria vita e legarsi indissolubilmente a essa. Ogni branca del sapere trasmesso è tesa al perfezionamento interiore, la cui immagine più esplicativa è quella, sempre dello Stoicismo, che vede la Filosofia come un organismo in cui la Logica sono le ossa, la Fisica il corpo e l’Etica la mente. Assumendo tale prospettiva, il novizio che studia gli insegnamenti della Stoà comincia a irrobustire le ossa e il corpo, requisito essenziale per riuscire a sviluppare una mente in grado di dirigere in maniera compiuta le sue azioni.
Il secondo gruppo comprende invece il dominio di sé, l’indifferenza verso le cose indifferenti, la meditazione, la terapia delle passioni, il ricordo di ciò che è bene e il compimento dei doveri. Si entra nella parte più importante dell’esercizio spirituale dello Stoicismo; l’allievo è tenuto a mettere in atto ciò che ha appreso mediante una pratica continua che lo porti ad avere il perfetto controllo sulle proprie azioni.
Il dominio di sé si rivela, dunque, l’aspetto essenziale dell’insegnamento, e ogni sforzo è teso in tale direzione. Dominio che si deve attuare innanzitutto prendendo le redini della parte della nostra anima più incontrollabile: le passioni.
Sia nello Stoicismo sia nell’Epicureismo la Filosofia è un pharmakos volto a lenire il dolore provocato dalle passioni, un male spirituale molto più grave del male fisico, poiché se quest’ultimo ci è assegnato dalla sorte, il primo siamo noi a volerlo e, allo stesso tempo, è nostro dovere estirparlo. Se prima non si guarisce da questa malattia è impossibile poter agire moralmente all’interno della comunità, per poter migliorare non solo se stessi ma anche il mondo sociale che ci circonda.
Tale guarigione vuole stimolare un senso di felicità più profondo, indipendente dai beni esterni e da tutto ciò che è fugace, una semplice ma autentica gioia di esistere, che aiuta l’uomo a liberarsi delle proprie paure infondate e dalle preoccupazioni che gli sottraggono non soltanto il tempo, ma soprattutto la forza vitale.[6]
In questa direzione, diventa di primaria importanza un esercizio citato in precedenza: la meditazione, da non confondere con la meditazione propugnata da un certo orientalismo semplificatore che ne ha ormai stereotipato la pratica.
La meditazione all’interno dello Stoicismo e, in generale, delle scuole di vita, si attua in modalità completamente diverse dal concetto comune di meditazione.
Essa si pratica in due modi: con un perpetuo soliloquio con se stessi e con la contemplazione consapevole della natura.
Per quanto riguarda il primo esercizio, una delle descrizioni migliori è quella che dà Seneca nel De ira:
«Io mi avvalgo di questa possibilità, e mi metto sotto processo ogni giorno. Quando hanno portato via la lucerna e mia moglie, che conosce la mia abitudine, tace, io scruto l’intera mia giornata e controllo tutte le mie parole e azioni, senza nascondermi nulla. […] Diamo pace al nostro animo, quella pace che deriva dalla continua meditazione dei dettami salutari, dalle azioni buone e da una mente intenta a desiderare solo la virtù. Pensiamo a soddisfare la nostra coscienza, senza preoccuparci della fama.»[7]

Esso consiste in un continuo dialogo interiore, per riportare alla mente i principi della scuola e vagliare la propria psyché per assicurarsi dei risultati raggiunti. In questa prospettiva la scrittura stessa diviene una forma di meditazione, un diario personale espressione di un continuo ruminare (utilizzando un termine nietzschiano), con lo scopo di assorbire gli insegnamenti filosofici e vagliare i propri progressi. Emblema di tale forma di esercizio sono le Lettere a Lucilio, sempre dello stesso Seneca, che prima ancora di essere lettere indirizzate all’amico erano meditazioni che il filosofo romano riservava a se stesso.
La funzione propedeutica della scrittura si rivela in forma ancora più accentuata nei Ricordi di Marco Aurelio, che rappresentano un prezioso esempio di come la meditazione filosofica scritta fosse un esercizio precisamente strutturato.[8]
Scrive infatti Hadot:

«I pensieri di Marco Aurelio […] ci conservano un notevole esempio di un genere letterario che doveva essere molto frequente nell’antichità, ma che il suo stesso carattere destinava a scomparire facilmente: gli esercizi di meditazione affidati a un testo scritto. Come vedremo ora, le formule pessimistiche di Marco Aurelio non sono l’espressione delle opinioni personali di un imperatore deluso, sono esercizi spirituali praticati secondo metodi rigorosi.»[9]

Difatti, oltre al vaglio dei propri progressi, un secondo esercizio di scrittura meditativa, ricorrente nei Ricordi, consiste nell’isolare col pensiero un momento di continuità temporale, anche un semplice avvenimento di vita quotidiana, per poi passare dalla parte al tutto. Lo scopo è inquadrare tale avvenimento in una visione complessiva del cosmo, prendendo così coscienza sia della vanità delle cose sia dell’importanza di cogliere al meglio il momento presente:


«Nulla può accadere a nessun uomo che non sia vicenda pertinente all’ordine umano. Del resto a un bove nulla può accadere che non sia bovino; a una vigna nulla che non appartenga all’ordine delle viti; né a una pietra cosa estranea all’ordine petrigno.

Conseguenza: se a ciascuna cosa accade sempre quello che rientra nell’ordine suo normale e nell’ordine naturale, per quale motivo dovresti tu fare il difficile?

Vedi bene che la comune natura non intende recarti nulla che tu non possa sopportare.»[10]
 Ed è proprio l’esercitarsi alla sopportazione la terza finalità del continuo soliloquio con se stessi; paventarsi possibili disgrazie future, avere ben chiara in mente la loro realizzazione come se si stessero svolgendo in questo momento per essere spiritualmente preparati una volta che diverranno realtà e abituarsi così alla fugacità.
Citando le parole di Epitteto riportate nel Manuale:

«Non dire mai di nessuna cosa: “l’ho persa”, ma “l’ho restituita”. È morto tuo figlio? È stato solo restituito. È morta tua moglie? È stata solo restituita. “Mi è stato tolto il podere”: no, anche questo è stato solo restituito. “Ma chi me l’ha portato via è un malvagio”: che cosa ti importa attraverso chi, colui che te lo aveva dato, ne ha chiesto la restituzione. Finché te lo concede, abbine cura come di una cosa altrui, come fanno i viaggiatori in una locanda.»[11]

Al di là del soliloquio con se stessi vi è la contemplazione della natura, che nella visione filosofica antica consisteva nello studio della fisica e degli eventi naturali.
Lungi dall’essere un semplice interesse di eruditismo o, come nei giorni nostri, un mero strumento in mano allo scientismo, lo studio della fisica era un gradino di elevazione spirituale, che proprio nella sua componente contemplativa permetteva all’animo di nobilitarsi, di astrarsi dalle questioni volgari quotidiane per innalzarsi a un livello di coscienza superiore. Come scrive Seneca in una lettera a Lucilio:

«Perché mai, tu dici, ti piace consumare il tempo in codesti problemi che non ti tolgono alcun tormento dell’animo, che non annullano alcun desiderio importuno? Quanto a e, affronto e porto avanti preferibilmente quei temi con cui l’animo si placa, e analizzo dapprima me stesso, poi l’universo. Nemmeno ora perdo tempo, come tu credi: di fatti, tutti questi argomenti, purché non vengano sminuzzati e distorti da varie sottigliezze, elevano e confortano l’animo, che, oppresso da un greve fardello, desidera liberarsene e tornare a quegli elementi di cui era stato parte integrante.»[12]

La contemplazione consapevole della natura e la dissoluzione razionale della propria psyché in essa (e non più estatica come nei culti misterici) libera l’uomo dalle sue catene e allo stesso tempo infonde in lui il piacere della conoscenza, nonché il piacere estetico delle bellezze naturali, dell’ordine intrinseco del cosmo espressione del Lògos divino che regola ogni cosa. In quest’ottica, gli esempi principali sono il De rerum naturae di Lucrezio e le Naturales quaestiones di Seneca.
Dalla meditazione e dalla contemplazione si passa poi all’esercizio della vita attiva, nel già citato controllo di sé, nell’indifferenza verso ciò che è caduco e soprattutto nel compimento dei propri doveri.[13]
Quest’ultimo passo è fondamentale; senza l’applicazione concreta nelle azioni la filosofia resta un vano esercizio. Sarà proprio la capacità dello Stoicismo nel dettare ben precise condotte di vita a far diventare tale filosofia la scuola dove si formerà l’intera classe dirigente dell’Impero Romano. Difatti, il proprio dovere consiste essenzialmente nell’agire morale ne confronti del prossimo e, di conseguenza, in una vita impegnata al perfezionamento degli altri e di sé, con la partecipazione alla vita pubblica. In tale prospettiva il dovere viene prima del diritto e, anzi, il diritto è una diretta conseguenza del dovere.
Soltanto l’uomo che agisce seguendo la libera ma necessaria volontà morale adempie al proprio dovere e, di conseguenza, comprende qual è il suo ruolo nella società e cosa ha il diritto di fare e di volere.
Una volta indirizzato su questa strada, il compito del filosofo è appena cominciato; gli anni dinnanzi a lui sono lunghi e il suo compito è praticare gli insegnamenti con costanza, senza mai sviare dalla strada né perdere di vista i propri punti fermi, soprattutto senza perdere la capacità di meravigliarsi poiché:

«a un uomo saggio rimarrà sempre qualcosa da scoprire, da portare alla luce, qualche verità in cui l’animo possa spaziare.»[14]


Daniele Palmieri
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[1] P. Hadot, La filosofia come esercizio spirituale, Giulio Einaudi Edizioni,  pp. 32.

[2] Cfr. ibidem, pp. 33.

[3] Cfr. ibidem, pp. 34.

[4] Cfr. ibidem, pp. 35.

[5] Cfr. ibidem, pp. 34.

[6] Cfr. ibidem, pp. 39.

[7] Seneca, De ira, III 36, 3; 41, 1, trad. di A. Marastoni in Tutte le opere, a cura di G. Reale, Bompiani (2000), pp. 115, 117.

[8] P. Hadot, La fisica come esercizio spirituale, in Esercizi spirituali di filosofia antica, Einaudi, pp. 119-133.

[9] Cfr. ibidem, pp. 123.

[10] Marco Aurelio, Ricordi VIII, 46, trad. di Enrico Turolla, Biblioteca Universare Rizzoli (1997), Milano 2004, pp. 329.

[11] Epitteto, Manuale 12, trad. di Martino Menghi, RCS MediaGroup S.p.A., Lavis (TN) 2012, pp. 14.

[12] Seneca, Lettere a Lucilio VII 65, a cura di Fernando Solinas, Mondadori (1994), Torino 2011, pp. 180.

[13] P. Hadot, Esercizi spirituali, in Esercizi spirituali di filosofia antica, Einaudi, pp. 39.

[14] Seneca, Lettere a Lucilio XVII 109, a cura di Fernando Solinas, Mondadori (1994), Torino 2011, pp. 464.