venerdì 30 dicembre 2016

Ritratto di Seneca

Seneca fu un uomo dalle molte contraddizioni e per tutta la vita ricercò un’agognata tranquillità interiore con lo sforzo filosofico. Pur condividendo l’ottimismo stoico, non riusciva a pararsi gli occhi di fronti alla dissoluzione imperante e ritenne che le erbacce avevano ormai seppellito il germe del bene che alberga nell’uomo. La filosofia è l’unica materia che può salvare il genere umano, materia di cui l’etica rappresenta il frutto più pregiato. Per quanto riguarda le passioni, egli aderì alla teoria posidoniana secondo cui esistono degli stadi preliminari in cui le emozioni si presentano involontariamente dal logos e soltanto in seguito questo interviene a portare ordine, ma quelle più pericolose e da estirpare sono le emozioni vere e proprie che ci trascinano e non il semplice impallidire o il rossore dell’ira. L’apatia completa non è né possibile né auspicabile. L’uomo deve evitare più realisticamente di lasciarsi trascinare dal proprio istinto, e deve evitare che le manifestazioni esterna di tristezza divengano delle profonde affezioni. Il patire è l’atto preliminare, l’affezione lo stato secondario che si insinua nell’hegemonikon e condiziona il logos. Il momento educativo che plasma la mente del giovane è determinante. Esso permette al logos di preservare la propria libertà e solo per questa via raggiungiamo la securitas, l’atarassia e la passiva lietezza interiore. Per lui la scrittura filosofica fu sempre un fatto molto privato e fu sempre dai problemi concreti della propria vita che egli prese spunto per le proprie riflessioni. Il ritiro dalla vita politica in tarda età fece sì che egli si concentrasse sul proprio io, dando ai concetti dell’etica romana un contenuto nuovo, individualistico. La virtus non divenne più soltanto una virtù civile e guerriera, ma una virtù intima di chi è in grado di affrontare la vita e di conquistarsi la felicità. La libertà, persa quella politica, divenne libertà interiore; il populus si trasformò in una comunità apolitica dalla quale dobbiamo astarci se non vogliamo essere contaminati dalla sua immoralità. Prende maggiore forza inoltre l’ideale di humanitas, non più in senso civile e sociale come quello ciceroniano, ma con un’accezione filantropica, un sentimento che porta l’uomo a interessarsi di ciò che riguarda gli altri uomini, come testimonia, ad esempio, il suo interesse per la condizione degli schiavi e dei gladiatori. Una propensione spirituale diversa dalla compassione; si tratta piuttosto di una sorta di simpatia razionale, che ha le proprie fondamenta nel riconoscere l’umano dell’uomo. L’azione buona non dev’essere un affare, tantomeno deve essere spinta da impulsi razionali, bensì deve trovare il proprio fondamento in tale attitudine. Ciò che Seneca sottolinea è l’intenzione con cui compiamo l’atto. Oltre a Dio, soltanto la nostra coscienza può essere testimone di tale intenzione ed è dunque la nostra coscienza il tribunale a cui dobbiamo rispondere. Per la prima volta nella filosofia greco-romana la coscienza viene considerata come una forza viva e attiva, idea che nasce dall’abitudine di Seneca a meditare, ogni notte, su quanto aveva compiuto e che egli riprende in parte da Sestio e dai Pitagorici. Solo con Seneca però l’autodisciplina etica diventa un impegno totale, che dà la sua impronta alla vita dell’uomo e ne fornisce il contenuto effettivo. Una tale conoscenza di sé spinge l’uomo a migliorarsi costantemente. Altro carattere distintivo fu l’accezione data alla voluntas personale, la volontà di compiere il bene come libera decisione di noi stessi, proveniente dalla nostra interiorità, un requisito essenziale per completare l’intenzione di compiere il bene. Fu Seneca il primo a introdurre la distinzione tra buona e cattiva volontà. Essa è la spinta motrice che ci permette di trasformare in pratica la teoria e di perfezionarci e proprio mediante la volontà egli apre una breccia nell’intellettualismo della Stoà antica. Sempre Seneca introdusse una sfumatura più trascendentale di Dio, visto non più come la parte complementare della materia ma come causa sui che genera l’universo con una materia che, però, è imperfetta; non viene meno però la visione immanente della divinità, semplicemente la componente spirituale assume una preminenza maggiore rispetto a quella materiale. Dio è sommamente buono e ha dotato l’uomo della virtus adatta a sopportare e vincere le intemperie. La stessa morte non è una condanna ma la fine di ogni cosa e non deve essere temuta; superata la paura della morte, conquistiamo la forza di compiere qualsiasi azione. D’altronde proprio la morte è la grande via di uscita che permette al filosofo di preservare la propria libertà nel momento in cui essa non può più essere esercitata.


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Daniele Palmieri

martedì 20 dicembre 2016

I 10 principi della nobile arte dell'insulto di Liang Shiqiu

La nobile arte dell’insulto di Liang Shiqiu è un breve pamphlet, che riecheggia gli antichi testi di strategia militare cinesi, dai quali attinge a piene mani per applicare i principi dell'arte bellica a un'altra forma di scontro, lo scontro verbale.
L'arte del conflitto verbale è fondata da Shiqiu sul principio generale seguente: L’insulto si fonda sul principio etico per cui si dovrebbe rendere conto se una persona meriti o meno di essere insultato. Bisogna sempre riflettere se vale la pena o meno insultare una persona. Sulla base di questo principio occorre poi declinare le dieci strategie seguenti:
1.       Conoscere se stessi, conoscere gli altri. Bisogna ponderare la propria forza e quella altrui prima di compiere un insulto, e stare attenti che ciò che imputiamo al nostro avversario non possa esserci rivolto contro.
2.       Non insultare chi non è al nostro livello. La persona scelta deve essere di rango poco superiore al nostro; non individui troppo rozzi che non potrebbero comprendere la finezza dell’insulto, e al massimo potrebbero rispondere con la violenza, né individui dalla mente superiore, troppo intelligenti per dare peso agli insulti, i quali non li scalfiggono nemmeno. Non insultare nemmeno individui privi di valore, perché così non si fa altro che dargli valore.
3.       Sapersi fermare al momento giusto. Sferrato l’insulto, se l’altro non ribatte allora riconoscere la propria vittoria senza eccedere con ulteriori insulti, per non sembrare sadici aguzzini; se l’altro continua a ribattere, essere in grado di comprendere quando è il caso di fermarsi per non mostrarsi ridicoli.
4.       Colpire di fianco, attaccare obliquamente. L’insulto non deve mai essere esplicito, volgare e diretto, ma sottile, tagliente e obliquo come una katana.
5.       Contegno pacato. Avere sangue freddo, non mostrarsi né agitati né irati ma mantenere la propria pacatezza, apparire serenamente distaccato dalle circostanze. L’uomo ottuso è privo di contegno, il campione dell’arte dell’insulto occulta il proprio gioco.
6.       Servirsi di espressioni e maniere eleganti.  Le critiche devono rimanere velate, espresse con un linguaggio all’apparenza cordiale e raffinato; l’avversario non deve accorgersi fin dalle prime parole che tu lo stai criticando.
7.       Ritirarsi per avanzare. Ammettere senza imbarazzo i propri punti deboli, proprio per evitare che l’avversario possa accanirsi su di essi.
8.       Presupporre e stare in agguato. Stare attenti alle invettive che l’avversario ci indirizza per volgerle contro di lui; allo stesso tempo, cercare di prevedere gli insulti che potrebbe rivolgerci per poterli aggirare preventivamente per poi confutare le sue critiche, impedendogli così di contrattaccare.
9.       Fare molto con pochi argomenti. Partire da pochi argomenti di discussione per condurre l’avversario dove si desidera e poi sferrare il colpo finale.
10.   Allearsi ai lontani per attaccare i vicini. Solitamente è meglio rivolgersi singolarmente al proprio interlocutore, ma se si sente la necessità di coinvolgere nell’insulto altre persone allora far credere a tutti che lo si fa in nome dell’interesse comune. Bisogna però ponderare con attenzione se è il caso di coinvolgere anche gli altri; la strategia potrebbe volgersi contro e ci si potrebbe trovare sommersi dagli insulti di tutti.



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Daniele Palmieri

sabato 3 dicembre 2016

Machiavelli e le virtù politiche del vero leader

Il Principe di Machiavelli è la prima, grande, opera di realismo politico occidentale. Letto e commentato in ogni epoca storica, al giorno d'oggi molti lo citano ma in pochi lo hanno letto veramente; per lo più risulta filtrato dagli stereotipi che circolano ed è noto più per il famoso concetto del fine che giustifica i mezzi.
Uno degli aspetti che ha reso così famoso il testo di Machiavelli è, come già accennato, il realismo politico e il disincanto con cui l'autore fiorentino guarda le dinamiche umane. Ed è a partire da una concezione piuttosto negativa dell'antropologia umana che delinea quelle che dovrebbero essere le virtù politiche del perfetto principe, con il quale egli sarà in grado di conquistare e mantenere il potere.
Per quanto riguarda le azioni del principe per mantenere il proprio potere, è importante che questi agisca non in base a ciò che si dovrebbe fare, ma in base a ciò che deve essere fatto. Non è possibile, infatti, che un uomo buono sia in grado di reggere con l’onestà e la correttezza un regno in un mondo in cui la maggior parte degli uomini non sono né buoni né corretti. E’ necessario, per un principe, imparare a poter essere "non buono" (come scrive lo stesso Machiavelli) e a utilizzare e a non utilizzare i mezzi sporchi secondo necessità.
Le qualità e i vizi generalmente attribuiti a un principe sono: donatore o rapace, pietoso o crudele, fedele o traditore, pusillanime o effemminato, animoso o feroce, umano o superbo, casto o lascivo, intero o astuto, facile o duro, leggiero o grave, ateo o religioso. In un mondo ideale è chiaro che sarebbe auspicabile per il principe possedere tutte le virtù positive; ma viviamo in un mondo imperfetto, composto da uomini imperfetti, e di conseguenza sarà tanto meglio seguire un vizio in grado di farci mantenere il potere piuttosto che una virtù che lo metterebbe a repentaglio.
Bisogna dunque abbandonare la semplicistica dicotomia virtù e vizio; virtù sarà ciò che permette al principe di mantenere il potere e vizio ciò che lo mette a rischio.
Le virtù politiche che il principe deve possedere sono:
1) La liberalità e la parsimonia: “Et intra tutte le cose di che uno principe si debba guardare, è lo essere contennendo et odioso; e la liberalità all’una e all’altra cosa ti conduce. Per tanto, è più sapienza tenersi el nome del misero, che partorisce un’infamia sanza odio, che, per volere el nome del liberale, essere necessitato incorrere nel nome di rapace, che partorisce un’infamia con odio” (pp. 63).
Per quanto riguarda la liberalità, ossia la donazione di ricchezze o la tassazione sui sudditi, è meglio essere considerato misero, che partorisce un’infamia senza odio, piuttosto che scialacquare senza ritegno le proprie ricchezze per ottenere il favore del popolo, che condurrà a impoverirsi e dunque poi a diventare rapaci e dunque a partorire tra il popolo un’infamia con odio.
2) La crudeltà e la pietà: “Ciascuno principe debbe desiderare di esser tenuto pietoso e non crudele: non di manco debbe avvertire di non usare male questa pietà. […] Debbe per tanto uno principe non si curare della infamia di crudele, per tenere e’ sudditi uniti et in fede; perché con pochissimi esempi sarà più pietoso che quelli e’ quali, per troppa pietà, lasciano seguire e’ disordini, di che ne nasca occisioni o di rapine: perché queste sogliono offendere una universalità intera, e quelle esecuzioni che vengono dal principe offendono uno particulare” (pp. 64).
Il principe deve essere in grado di dosare pietà e crudeltà alla giusta maniera; è meglio essere considerati pietosi, ciò non di meno non bisogna incedere troppo nella pietà nel momento in cui essa mette a repentaglio la stabilità dello stato e occorre mostrarsi crudele con chi ne mette a repentaglio l’ordine o ne infrange oltre misura le leggi. In questo modo, infatti, si perpetrerà un male particolare ma si preserverà l’integrità dell’universale.
3) Amore e odio: “Che la trioppa confidenzia non lo facci incauto e la troppa diffidenzia non lo renda intollerabile. Nasce da questo una disputa: s’elli è meglio essere amato che temuto, o converso. Respondesi, che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma, perché elli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno d’ dua. Perché delli uomini si può dire questo generalmente: che sieno ingrati, volubili, simulatori, fuggitori d’ pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, offeronti el sangue, la roba, la vita, e’ figliuoli, come di sopra dissi, quando el bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e’ si rivoltano. E quel principe che si è tutto fondato in sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina […] E li uomini hanno meno respetto ad offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere; perché l’amore è tenuto da un vinculo di obbligo, il quale, per essere li uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto; ma il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai. Debbe non di manco el principe farsi temere in modo, che, se non si acquista lo amore, che fugga l’odio; perché può molto bene stare insieme esser temuto e non odiato; il che farà sempre, quando si astenga dalla roba de’ sua cittadini e de’ sua sudditi, e dalle donne loro: e quando pure li bisognassi procedere contro al sangue di alcuno, farlo quando vi sia iustificazione conveniente e causa manifesta; uomini sdimenticano più presto la morte del padre che la perdita del patrimonio” (pp. 65).
E’ meglio essere temuti che amati, poiché il timore è stabile in ogni condizione mentre l’amore produce falsità e piaggeria, e gli uomini che in buona sorte ti amano per avere una fetta della torta, alla prima avversità voltano le spalle allontanandosi da te. Che il timore però non sia accompagnato dall’odio; un uomo, infatti, può essere temuto senza essere odiato, nel momento in cui le sue scelte e le sue decisioni non danneggiano arbitrariamente i sottoposti e non intacchino i loro beni più personali, come la proprietà.
4) La legge e la bestia: “Dovete adunque sapere come sono dua generazione di combattere: l’una con le leggi, l’altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo delle bestie: perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Per tanto a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l’uomo. […] Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la volpe et il lione; perché il lione non si difende da’ lacci, la volpe non si difende da’ lupi. Bisogna dunque essere volpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano” (pp. 67).
E’ peculiare degli uomini il governo della legge, mentre delle bestie il governo della forza bruta. Tuttavia, per affermare il governo della legge è spesso necessario il governo della forza bruta. Il principe saprà dunque saper usare entrambi i tipi di forza, quella bestiale e quella umana. Sarà dunque forte come un leone e astuto come una volpe. La forza bruta deve essere dosata dall’intelligenza per non essere cieca e l’intelligenza deve avere il supporto della forza bruta per imporsi.
5) Simulazione e dissimulazione: “E’ necessario questa natura saperla ben colorire, et essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici li uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna troverà sempre chi si lascerà ingannare. […] A uno principe, adunque, non è necessario avere tutte le sopradescritte qualità, ma è bene e necessario parere di averle. Anzi, dirò di questo, che avendole et osservandole sempre, sono dannose, e parendo di averle, sono utile: come parere pietoso, fedele, umano, intero, religioso, et essere; ma stare in modo edificato con l’animo, che, bisognando non essere, tu possa e sappi mutare el contrario. Et hassi ad intendere questo, che uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla religione. E però bisogna che elli abbia un animo disposto a volgersi secondo ch’e’ venti e le variazioni della fortuna li comandono […]. Debbe dunque avere uno principe gran cura che non li esca mai di bocca una cosa che non sia piena delle soprascritte cinque qualità, e paia, a vederlo et udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto religione. E non è cosa più necessaria a parere di avere, che questa ultima qualità. E li uomini in universali iudicano più alli occhi che alle mani; perché tocca a vedere a ognuno, a sentire a pochi. Ognuno vede quello che tu pari, pochi sentono quello che tu s’e’; e quelli pochi non ardiscano opporsi alla opinione di molti” (pp. 69).
Il principe deve essere in grado di simulare virtù, senza essere necessariamente virtuoso, e allo stesso tempo deve essere in grado di dissimulare il vizio. Gli uomini, infatti, si basano soprattutto sull’apparenza e non è necessario essere necessariamente virtuosi se si è in grado di simularsi tali.
Machiavelli - Il principe (Garzanti edizioni)
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Daniele Palmieri

venerdì 28 ottobre 2016

Nietzsche e l'agóne omerico, ovvero: l'eterna lotta per esistere

"Lo stato dei Greci. L'agóne omerico" è una raccolta, edita dalla Ar edizioni, di due brevi scritti che facevano parti un testo, Cinque prefazioni a cinque libri non scritti, che Freidrich Nietzsche aveva regalato ai coniugi Wagner nel 1873.
Pur essendo scritti del periodo giovanile, rivestono una grande importanza nella storia del pensiero dell'autore; sia perché in essi già si ritrovano, in potenza, le grandi idee che svilupperà negli anni a venire, sia perché proprio questi testi fanno da preludio alla nascita de La nascita della tragedia. Possono dunque essere definiti come il crepuscolo dei disvalori occidentali e l'alba della nascente epoca nichilista che Friedrich Nietzsche inaugurerà con la sua filosofia del martello.
Come già anticipato, Lo stato dei Greci e L'agóne omerico contengono in germe i principali temi che svilupperà, con la profondità di un abisso, nella sua produzione successiva.
La filosofia nicciana è sempre profondamente polemica e distruttrice, e anche questi testi sono inaugurati da una critica radicale ai concetti di "diritto al lavoro" e di "dignità del lavoro" dell'epoca a lui contemporanea. Per mostrare l'intrinseca contraddizione di questi ideali astratti e fumosi, Nietzsche oppone la concretezza dello spirito classico della Grecia arcaica.
Per l'uomo greco è quantomai assurdo conciliare la parola "lavoro" con le parole "diritto" e "dignità". Il lavoro, infatti, altro non è che espressione della schiavitù dell'uomo il quale, al contrario degli dèi che vivono sereni e beati, è costretto a guadagnarsi l'esistenza arando i campi, spezzandosi la schiena, lottando ogni giorno per sopravvivere; in altri termini, a vivere una vita tutt'altro che dignitosa: una vita da schiavo.
Il lavoro è l'espressione più profonda dello stato di schiavitù umana; "Senza ricorrere a siffatte allucinazioni concettuali, i greci affermano con spietata chiarezza che il lavoro è una vergogna - mentre una saggezza ovunque diffusa e rigogliosa, pur ascosa e taciturna, aggiunge che la stessa cosa-uomo è un nulla vergognoso perché l'esistere, in sé, non possiede alcun valore" scrive Nietzsche. 
Chi parla di "dignità del lavoro" e di "diritto al lavoro" o è uno stolto o un truffatore che pensa ai propri interessi, che ha bisogno di manovalanza da sfruttare proprio per poter vivere la vita ideale degli antichi greci, quella libera dalla schiavitù del lavoro. Chi parla di dignità intrinseca sta rivestendo di un manto illusorio un'esistenza che, al contrario, sembra avere tutti i caratteri contrari alla dignità; il venire al mondo è una condanna alla sofferenza, non vi è nulla di dignitoso in tutto ciò e di questo i greci erano ben consapevoli.
L'età moderna non fa altro che gettare fumo negli occhi alle persone parlandogli di diritti e dignità, le sta ingannando a perpetrare la propria esistenza in maniera mediocre, contribuendo così a mantenerle schiave della più alta forma di schiavitù, il lavoro, facendo scattare per di più un meccanismo perverso: quello di farglielo agognare e di farle vergognare nel caso in cui non possiedono un lavoro - cosa che per i greci più nobili era invece un grande vanto.
In risposta a questo mondo piatto, mediocre e illusorio Nietzsche controbatte con l'antico agóne omerico, la potenza delle forze telluriche che animava l'uomo nobile, il Genio, in grado di smarcarsi dalla folla indistinta proprio grazie alla sua spinta irrefrenabile al conflitto, al dominio, alla forza, a quello che ne l'Anticristo  Nietzsche definirà come il "grande sì alla vita", esemplificato in maniera metaforica, in questo testo, dalla duplice natura della dea Eris descritta da Esiodo: "Questi prima qualifica cattiva una Eris, ovvero la stessa Eris che induce gli uomini a una malevola lotta di reciproco annientamento, poi celebra come buona un'altra Eris che, nelle sembianze di gelosia, astio, invidia, desta gli uomini all'azione tipica non della lotta di annientamento ma di competizione. Invidioso è il Greco e percepisce questa qualità non come vizio, ma come opera di una divinità benevola". L'invidia è l'impulso fondamentale della vita, che spinge l'uomo di Genio a competere proprio perché sa che egli possiede, in potenza, tutte le doti per fare ancora meglio dei propri predecessori; se non esistesse questo impulso la vita sarebbe statica, gli uomini si crogiolerebbero nella mediocrità indistinta di un'uguaglianza che, in questo caso, non è sinonimo di "parità di diritti e di dignità" ma di "paura di emergere dalla massa", di smarcarsi per affermare la propria superiore individualità. "Il conflitto è il padre di tutte le cose, di tutte re" come sentenziò Eraclito.

In conclusione, vi sono due motivi per reperire e leggere Lo stato dei Greci. L'agóne omerico nell'edizione di Ar. Il primo, ovviamente, per il contenuto, che è quanto più distante dal comune modo di pensare e, proprio per la sua capacità di condurre il pensiero a quegli estremi a cui temiamo avvicinarci, è in grado di stimolare profonde e proficue riflessioni. Il secondo ha a che fare proprio con la cura editoriale riservata dalle edizioni di Ar nel pubblicare non solo questo testo, ma tutta la collana Alter Ego dedicata alle opere di Nietzsche, che dal testo al fronte, dalla qualità dell'impaginazione, della carta, delle note e dei commenti non ha nulla a che invidiare ad altre edizioni internazionali.

Lo stato dei Greci. L'agóne omerico - Friedrich Nietzsche, edizioni Ar

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Daniele Palmieri

domenica 23 ottobre 2016

Lo Schelling esoterico di "Clara": Natura, immortalità e mondo degli spiriti

Nello scegliere le mie letture ho la predilezione per i libri più improbabili, che difficilmente si trovano negli scaffali delle librerie e che soltanto il Libraccio è in grado di regalarmi. Penso, infatti, che per far circolare nuove idee sia essenziale rivolgersi soprattutto a quei libri poco letti e poco commentati, dove grandi intuizioni potrebbero attendere, nascoste, che qualcuno le riporti a galla.
Schelling non è certo un filosofo poco noto, sebbene nel campo dell'idealismo siano maggiormente studiati Fichte ed Hegel, almeno in Italia; tuttavia, tra i suoi scritti più pubblicati, letti e tradotti non compare di certo la breve opera incompiuta di cui intendo parlare (anch'essa riesumata da uno scaffale polveroso del Libraccio).
Si tratta di Clara, ovvero sulla connessione della natura con il mondo degli spiriti, un titolo che sembra addirsi più all'opera di un medium come Kardec che a un filosofo idealista. In effetti, i collegamenti con il mondo esoterico sono numerosi e la genesi stessa dell'opera è datata durante una profonda crisi emotiva dell'autore.
Siamo tra il 1809 e il 1810, periodo in cui Schelling vive un travagliato lutto a causa della perdita della moglie; una sofferenza così acuta che lo porterà a dire, nelle conferenze di Stoccarda: "Ci sono dei casi in cui l'intelletto non può più dominare la follia che sonnecchia nelle profondità del nostro essere. Così l'intelletto non può offrire consolazione a un certo dolore".
In tale clima spirituale e intellettuale si situa Clara, un'opera consolatoria rimasta incompiuta che in molti tratti riflette un'altra opera classica, strettamente legata alla consolazione dalla morte, ossia il Fedone di Platone.
Clara è un testo incompiuto che nelle volontà dell'autore non sarebbe dovuto nemmeno essere pubblicato (ma, per fortuna, raramente si rispettano le ultime volontà degli autori circa i loro scritti) e che, inizialmente, era stato pensato come un insieme di quattro lunghi dialoghi, ciascuno ambientato durante una diversa stagione dell'anno, di cui Schelling ha però completato solamente l'autunno e l'inverno, lasciandoci soltanto un frammento della primavera e alcune note circa punti che avrebbe dovuto sviluppare.
Protagonisti dei dialoghi sono principalmente il narratore, che riporta quanto vissuto in prima persona, un medico e, soprattutto, Clara, che dà il titolo al testo. A margine si inseriscono, a seconda dei contesti, figure secondarie come il monaco del primo dialogo o la pellegrina dell'ultimo.
Tema che fa da filo conduttore di tutti i dialoghi è la morte. Clara, amica del narratore, viene da lui raggiunta per trovare consolazione dall'inaspettata morte del marito Albert.
Fin dal principio è proprio la morte a regnare sovrana. Il primo dialogo è infatti ambientato durante il Giorno dei Morti e, mostrandosi abile narratore oltre che grande filosofo, Schelling descrive con toni toccanti il rituale cattolico con cui si commemorano i defunti, mostrando quanto sia atavico e inscindibile il legame che ci lega ai nostri cari, tale da superare i limiti del terreno. "Com'è commovente questo costume" commenta il compagno del narratore che, assieme a lui, era andato a rincuorare Clara, "e come è ricco di significato questo ornamento di fiori tardivi sulle tombe. Non è forse giusto dedicare i fiori dell'autunno ai morti che in primavera, dai loro angusti loculi, ci fanno poi dono di fiori più gioiosi, a testimonianza della vita perenne e della resurrezione eterna?".
Dopo aver contemplato il rito, il narratore e il suo compagno, che in quel momento stavano attraversando un cimitero, proseguono il cammino per raggiungere Clara presso un monastero benedettino. Mi soffermo su questi particolari perché le ambientazioni dei dialoghi non sono fine a se stesse, ma vi è un'intrinseca connessione tra la natura circostante, gli uomini e i loro discorsi filosofici. Leggere Clara è come trovarsi catapultati all'interno di un quadro di Friedrich o in un racconto gotico di Hoffman. I dialoghi sono intervallati da pregiate descrizioni di una natura allo stesso tempo maestosa e terrificante, Sublime, che è in grado di proiettare i pensieri di chi si ferma a contemplarla verso mete metafisiche più elevate. "Trovammo la città vuota e desolata; ci fermammo per qualche tempo a rinfrescarci un poco e poi cominciammo a salire verso il maestoso monastero. Appena giunti ci condussero nella biblioteca dove ci attendeva un monaco giovane e colto che [...] ci raccontò che il principe, recentemente scomparso, lo aveva inviato in viaggio e che ora era il custode di quella biblioteca [...]. Ci mostrò delle rarità affidate alle sue cure, ma più di quei tesori morti ci attirava la meravigliosa vista che oltre la vetrata spaziava sulla pianura lontana: fino ai piedi dell'altura dove ci trovavamo, essa era disseminata di città e borghi, e attraversata da un fiume impetuoso che a tratti appariva qua e là, come uno stretto nastro argentato".
All'interno del monastero fa la sua prima apparizione Clara, che fin dalle prime battute mostra tutto il suo struggimento per la morte del marito ed è proprio dalla sua profonda sofferenza che si sviluppa il discorso filosofico.
Ogni elemento, in questa situazione, è scelto dettagliatamente da Schelling; l'autunno, nella simbologia esoterica, rappresenta metaforicamente il momento della discesa verso gli inferi, punto di partenza del viaggio iniziatico che comincia, necessariamente, con la scossa di una sofferenza profonda, che sradica tutte le certezze dell'iniziato, costringendoli così a mettersi alla ricerca di nuove verità. Ed è proprio questo lo stato d'animo di Clara che, a causa della morte del marito, si sente sradicata e dà avvio a una compulsiva ricerca filosofica che possa lenire il suo dolore.
"Il dolore suscitato dal passato si trasformò in un'inesprimibile aspirazione verso il futuro. Al tempo stesso, v'era una sorta di violenza nel suo sforzo per oltrepassare la natura e il reale. L'idea di forze naturali oscure e nascoste di cui ella si era già nutrita nella casa paterna [...] tutto ciò aveva dovuto riempirla del sentimento della presenza, nella natura, di una forza terrificante e senza nome, verso la quale si sentiva tanto attirata da un desiderio fremente quanto respinta".
La verità filosofica di cui i dialoganti trattano ha sempre questo aspetto tetro e inquietante; ha l'aspetto di un abisso oscuro che si apre nelle viscere del terreno, in fondo al quale alberga l'eterno segreto della realtà che può essere raggiunto soltanto tuffandosi nel vuoto, senza sapere quanto profondo sarà il nostro salto.
La spaccatura nel terreno di cui i dialoganti vanno alla ricerca è quella in grado di collegare il mondo terreno al mondo degli spiriti; ammessa l'esistenza di un mondo materiale e ammessa l'esistenza di una realtà spirituale, deve esistere una realtà mediana in grado di collegare un mondo all'altro, sia per quanto riguarda la realtà esterna sia per quanto riguarda l'uomo, composto di spirito e corpo così come la realtà è composta di spirito e materia.
Il collante che tiene insieme i due opposti è l'anima, un elemento sostanziale, immutabile e immortale. Il corpo diventa dunque la polarità oggettiva e reale, lo spirito la polarità soggettiva e ideale, mentre l'anima è la coscienza unificante in grado di conciliare i due opposti, ossia di aggiungere un principio materiale al principio spirituale e un principio spirituale a quello materiale ed è proprio questa connessione triadica a conferire all'uomo l'immortalità. "Possiamo affermare che uno soltanto dei tre elementi sia in modo esclusivo il legame di tutti gli altri? Non è forse ciascuno a sua volta un mezzo di unione per l'altro? Lo spirito passa nel corpo attraverso l'anima, ma attraverso l'anima il corpo è a sua volta elevato allo spirito. L'anima non si rapporta allo spirito se in questo stesso non esiste un corpo, ed essa non si rapporto al corpo, se in esso non vi è insieme uno spirito; infatti, se l'uno dei due viene meno, essa non può essere presente come unità, ovvero come anima. Considerato nella sua interezza l'uomo sembra dunque essere una sorta di circuito vivente, in cui ogni termine scorre continuamente nell'altro e in cui nessun elemento può separarsi dall'altro". Come sintesi dei due opposti l'anima ha però la preminenza, poiché in grado di contenerli entrambi e di perpetrare così il ciclo vitale.
In tutto ciò, la morte è proprio quella fenditura che, come un processo alchemico, permette all'uomo di portare alla luce la sua intima essenza più profonda: l'anima, che per fiorire necessita di essere incubata tra spirito e corpo ma che, per nascere, necessita di essere distillata per essere separata proprio dai due elementi in cui si trova dissolta. La morte non è dunque una fine, ma proprio quel ponte di collegamento che si andava cercando tra questo e l'altro mondo; un varco che, una volta attraversato, permette di far ritorno nell'Assoluto (il Dio/Natura di Schelling) come una goccia che cade nell'oceano ma che, allo stesso tempo, è in grado di preservare la propria singolarità, proprio perché essa si porta dietro sia il principio del corpo sia quello dello spirito, e, di conseguenza, la sua volontà e la sua libertà (ed è in questo modo che Schelling giustifica l'esistenza degli spiriti, "pure volontà" in grado di agire ancora attivamente nel mondo della materia).
Fine individuale che rispecchia anche il fine dell'intero cosmo, che tende a una suprema perfezione che coincide con la liberazione delle sue forze spirituali e il ricongiungimento degli opposti; da questo punto di vista, dunque, si stabilisce una connessione tra destino individuale e destino cosmico, altra concezione di carattere esoterico che si rifà all'idea dell'uomo come microcosmo e dell'universo come macroantropo.
"Noi esseri organici possiamo morire perché ciascuno di noi è un Tutto. Ma le altre cose non sono che parti di un Tutto superiore, la terra, e possono certamente, all'interno di questo Tutto, essere mescolate e modificate in mille modi, secondo quanto esige lo sviluppo del pianeta; per loro, tuttavia, il beneficio della morte, ovvero di una totale liberazione della forma spirituale della loro vita, non si verifica fintantoché il pianeta non pervenga alla sua meta stabilita e finché sia morto esso stesso".
Queste e altre concezioni filosofiche sono in grado di risollevare l'anima di Clara dal dolore del lutto e di condurla, una volta attraversato l'inferno, lungo la strada che ascendo verso la fine del viaggio iniziatico interiore che coincide con il paradiso, da intendere, in senso metaforico, come lo stato interiore di quiete e illuminazione derivante dalla conoscenza della verità. Purtroppo, come accennato in precedenza, del percorso di Clara successivo all'autunno e all'inverno possediamo soltanto un frammento della primavera, ma già da esso è possibile evincere la diversa propensione spirituale della protagonista, più simile a un germoglio in fiore che a una foglia appassita: "La primavera ha suscitato in me questa fioritura di pensieri e di speranza; mi è nuovamente apparso con chiarezza nell'intimo che siamo figli della natura, che le apparteniamo secondo la nostra prima nascita e non possiamo mai separarci interamente da essa; se non appartenesse a Dio, nemmeno noi potremmo appartenerGli, e se essa non potesse divenire una con Dio, anche la nostra unione con Lui dovrebbe essere imperfetta e persino impossibile. No, non siamo soli! Anche l'intera Natura anela a Dio, dal quale è stata assunta come cominciamento. [...] Il fuoco divino, che ora riposa rinchiuso in essa, prenderà un giorno il sopravvento e allora consumerà tutto ciò che è entrato nella natura solo facendo violenza alla vera interiorità, ritornando così nello stadio iniziale, essa non sarà più l'opera delle sue sole forze che custodivano, prigioniere in sé, le forze divine. Lo spirituale e il divino si uniranno liberamente all'essere purificato".
 
Schelling - Clara, ovvero sulla connessione della natura con il mondo degli spiriti, Guerini e Associati Edizioni.

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Daniele Palmieri

martedì 18 ottobre 2016

Le Diatribe di Epitteto: lo stoicismo e la libertà interiore

Se dovessi descrivere Epitteto in poche parole lo definirei come il più grande filosofo della libertà interiore.
Pensatore stoico vissuto nel II secolo a.C. che fu in grado di stregare, tra i molti, personalità così lontane nel tempo tra loro come Marco Aurelio e Leopardi, Epitteto è uno di quei pensatori riducibile a poche, chiare e poderose idee di fondo, che sono in grado di risvegliare una scintilla in quelle anime sensibili al genio filosofico.
Coerente con lo spirito socratico, Epitteto non ci ha lasciato scritti di suo pugno ma, per fortuna, il suo allievo Arriano ha conservato e pubblicato i preziosi appunti delle sue lezioni, diffuse al grande pubblico con il titolo di Diatribe, e ha compendiato il suo pensiero, cogliendone le idee principali, nel più noto Manuale.
Il secondo testo è, ad oggi, quello più venduto, letto e ristampato; fino ad ora anche io avevo assaporato la sua grandezza basandomi soltanto su di esso, uno dei miei testi filosofici preferiti, ma ora che ho avuto la possibilità di leggere e approfondire le Diatribe ho riscoperto un volto nuovo, ancora più splendente, di questa grande personalità del pensiero antico.
Come già accennato, le Diatribe sono la trascrizione di una parte delle lezioni che Epitteto teneva nella sua scuola, in particolare la parte conclusiva in cui, dopo aver esposto e studiato gli insegnamenti più scolastici, gli alunni potevano porre al maestro i loro dubbi e le loro domande. Rispetto al Manuale, dunque, più freddo e quasi dogmatico con le sue sentenze tanto profonde quanto lapidarie, le Diatribe restituiscono un'immagine molto più viva, ironica, gioiosa, mordace e socratica del filosofo, allontanando così lo stereotipo dello stoico freddo e insensibile come la pietra.
Più di ogni altro pensatore della medesima corrente, Epitteto è in grado di mostrare mediante i suoi discorsi appassionati come lo stoicismo sia da considerare anzitutto una propensione filosofica alla vita o, come lo definisce Max Pohlenz ne La Stoà, un grande movimento spirituale.
Addentrandoci nel pensiero del filosofo, la prima distinzione fondamentale che egli pone e sulla quale si base l'intera sua etica è quella tra beni che dipendono da noi e beni che non dipendono da noi; nella seconda categoria rientrano le ricchezze, la gloria, gli onori, i legami affettivi e tutti gli aspetti della vita che, volente o nolente, sono in balìa del caos. Se essi giungono in nostro possesso, è lecito assaporarli, così come è lecito tentare di guadagnarli; tuttavia, prima ancora di imbarcarsi in tale impresa e di godere di questi frutti è essenziale radicare la nostra vita nei beni che dipendono da noi, i beni interiori, altrimenti non saremo in grado di assaporarli pienamente ma ne saremo soltanto dominati.
Tra essi, i più essenziali sono il giudizio, la morale e la libertà. Una volta radicata la nostra vita su questi tre pilastri, sarà possibile affrontare l'esistenza senza il rischio di venirne schiacciati; al contrario, senza svilupparli si vivrà eternamente schiavi dei beni che non dipendono da noi.
In tale prospettiva, dunque, la filosofia è essenzialmente un esercizio di vita atto a portare alla luce quelle che sono le nostre più profonde potenzialità e il filosofo che aspira la saggezza è simile all'atleta che, per vincere le Olimpiadi, deve sforzarsi ogni giorno per resistere la fatica fino a vincerla.
Il giudizio è il primo "muscolo" da allenare. Esso ha a che fare con la rappresentazione delle cose esterne e, in particolare, il valore che diamo a esse; è quest'ultimo, infatti, che ci fa soffrire e che ci rende schiavi dei beni materiali che non hanno valore in sé, ma che hanno valore soltanto nella misura in cui noi glielo attribuiamo. 
Un esempio utilizzato da Epitteto è quello della paura nei confronti dell'Imperatore. Qualsiasi uomo trovandosi di fronte all'Imperatore è portato a temerlo e ad avere, nei suoi confronti, un atteggiamento di passiva sottomissione; eppure, se all'Imperatore avviciniamo un bambino, abbastanza grande per essere cosciente ma ancora piccolo per comprendere le gerarchie sociali, quest'ultimo non avrà la minima reazione e, anzi, sarebbe in grado di avvicinarsi all'Imperatore senza battere ciglio. Com'è possibile che il bambino sia più coraggioso dell'uomo adulto? Ciò avviene proprio a causa del giudizio. Il bambino non si è ancora formato un giudizio sul concetto di Imperatore e su tutte le caratteristiche che gli vengono attribuite, poiché esse di fatti non gli appartengono "di per sé" ma sono frutto dei giudizi umani. Nel momento in cui l'adulto diventa in grado di spogliare le cose dai giudizi di valore che egli gli attribuisce, ecco che esse assumono un aspetto diverso. 
L'Imperatore viene ridotto a un uomo qualunque dotato delle stesse facoltà di tutti gli uomini.
"Sì, ma lui ha il potere di esiliarti" si ribatterà.
"Devo andare in esilio: ebbene, chi mi impedisce di avviarmi ridendo, di buon animo e sereno?” (Diatribe, Rusconi Edizioni, pp. 78) risponderebbe Epitteto; chi dice, infatti, che l'esilio debba necessariamente essere vissuto con struggimento? Il giudizio errato.
"Ha anche il potere di condannarti a morte".
"Devo morire. Se subito, sono pronto a morire; se fra un po’, ora pranzo, perché è l’ora; poi morirò. In che modo? Come si conviene a un uomo che restituisce quel che è di altri” (Diatribe, pp. 80) ribatterebbe Epitteto; cosa cambia, infatti, morire adesso o morire tra dieci anni, se prima o poi a tutti tocca il medesimo destino? E sarà tanto meglio morire da uomo libero piuttosto che da schiavo. Anche in questo caso, a dare valore negativo alla morte è soltanto un nostro giudizio.
"Ma l'Imperatore ha anche il potere di ridurti in schiavitù".
Ma io ti metterò i ceppi! Uomo, che dici? Metterai in ceppi la mia gamba; la mia scelta morale di fondo neppure Zeus può vincerla” (Diatribe, pp. 78) direbbe ancora Epitteto, che non può essere tacciato di mero intellettualismo poiché egli stesso aveva dovuto sopportare i ceppi della schiavitù, che la filosofia stoica gli rese sicuramente più leggeri poiché l'uomo libero è tale non in virtù di quello che possiede e del luogo in cui è costretto a vivere, ma in virtù della sua libera scelta morale. In questo ultimo passaggio entrano in gioco il secondo e il terzo concetto saliente della filosofia di Epitteto. 
La libertà, per Epitteto, è uno degli impulsi più forti della vita.
“Esamina, riguardo agli animali, come applichiamo il concetto di libertà. Si allevano leoni in gabbia, si addomesticano, si nutrono, e alcuni se li portano appresso. E chi potrà dire che si tratta di un leone libero? Non è vero che quanto più comoda è la sua vita, tanto più è schiavo? Quale leone, se acquistasse la consapevolezza e la razionalità, vorrebbe essere uno di questi leoni addomesticati?” (Diatribe, pp. 429).
Nell'uomo, la libertà di cui si parla è essenzialmente libertà morale, la forma più alta di libertà a cui l'uomo può aspirare: la libera scelta personale di seguire ciò che la nostra coscienza ritiene giusto, indipendentemente da quella che è l'opinione e la volontà altrui. La scelta morale è la forma più sublime della libertà poiché non scaturisce da un impulso proveniente dall'esterno, bensì da una volontà che è soltanto interiore, non filtrata dai desideri che ci trascinano con la loro forza anche contro il nostro volere. Una scelta che se difendiamo strenuamente non potrà mai essere condizionata da nessuno, poiché essa proviene dall'interiorità della nostra anima a cui nessuno, per quanto potente, può avere accesso, soprattutto nel momento in cui ci siamo liberati dal ceppo dei giudizi di valore che attribuiamo alle cose esterne. Liberi, infatti, dalla paura di perdere ciò che inevitabilmente, un giorno, siamo destinati a lasciare, cominceremo a vivere senza alcun timore, pensando soltanto a realizzare la nostra perfezione interiore e a rispettare i nostri doveri morali verso gli altri, abbandonata ogni prospettiva egoistica (anch'essa dipendente dai giudizi di valori).
Non è certo semplice sviluppare una propensione simile alla vita; come già detto in precedenza, ci vuole esercizio; nulla si ottiene senza sforzo. L'importante è affrontare le avversità con la giusta attitudine spirituale, considerandole come l'esercizio necessario per temprare la nostra anima.
Utilizzando le parole di Epitteto:
“Lotta con te stesso, riportati alla compostezza, al rispetto e alla libertà. […] Non devi uccidere nessuno, né incatenare, né fare violenza, né andare all’agorà, ma parlare con te stesso, ossia all’uomo che è più in grado di darti ascolto, verso il quale nessuno può essere convincente più di te. E, innanzitutto, condanna quel che è avvenuto, poi, dopo aver condannato, non disperare di te e non provare i sentimenti degli uomini ignobili, i quali, dopo un primo cedimento, si lasciano andare completamente e sono, per così dire, trasportati dalla corrente; bensì, apprendi come si comportano gli allenatori. Il ragazzo è caduto. “Alzati,” gli dice l’allenatore “e ricomincia a lottare”. Qualcosa del genere provalo anche tu; sappi, infatti, che niente è più facile a guidarsi di un’anima umana. Basta volere, ed ecco: è raddrizzata; d’altronde, se solo sonnecchi è perduta. Difatti è dentro di noi che si trovano sia il danno sia il rimedio [...]
“Non ripetermi più: Come si volgerà la cosa?  Perché, comunque si volga, te ne saprai servire convenientemente e l’accadimento sarà per te un successo. Chi sarebbe stato Eracle se avesse detto: “Come evitare che mi si presenti davanti un grosso leone o un grosso cinghiale o degli uomini selvaggi?” E che ti importa? Se ti si presenta davanti un grosso cinghiale, sarà più eroica la lotta che combatterai; se degli uomini malvagi, sgombererai il mondo dai malvagi. E se, così facendo, morissi? Morirai da uomo valente, nel compimento di una nobile impresa. Poiché, infatti, bisogna di certo morire, necessariamente devi essere sorpreso mentre fai qualcosa, mentre lavori i campi o zappi o commerci o ricopri la carica di console o hai un’indigestione o la diarrea. In quale occupazione vuoi essere colto dalla morte? Per quanto mi concerne, vorrei essere sorpreso mentre compio un’azione davvero umana, un’azione benefica, utile alla società e generosa” (Diatribe, pp. 499-501). 

Questi sono solo tre dei molti temi affrontati dalle Diatribe, che consiglio a tutti di leggere poiché è uno di quei testi i quali, condivisi o meno dal lettore, non possono che portarlo a una maggiore consapevolezza di sé sfogliata l'ultima pagina.
Similmente ad Arriano, ho deciso dunque di compendiare alcuni dei temi principali formando una secondo, più breve, Manuale, raccogliendo le citazioni che più mi hanno colpito nel file in pdf che allego qui sotto.

Epitteto, Diatribe (Download)

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Daniele Palmieri

martedì 27 settembre 2016

Discorso sulla felicità (Daniele Palmieri)

"Discorso sulla felicità" è una meditazione semplice e diretta che ha come tema la ricerca di una felicità autentica, con la consapevolezza che il più grande esercizio per raggiungere la felicità consiste nell'aprire gli occhi per accorgerci che siamo già felici e che, spesso, siamo soltanto troppo ciechi per accorgercene.

Il breve testo è disponibile, gratuitamente, su Amazon e in tutti gli altri store online in formato ebook, ed è la trascrizione di una conferenza che ho tenuto il 10 settembre 2016 presso la Libreria Esoterica di Milano.
Qui il link al download.

Daniele Palmieri

venerdì 23 settembre 2016

Tolstoj: La morte di Ivan Il'ic. Il morire come rinascita

La morte di Ivan Il'ic, uno dei racconti lunghi più noti di Tolstoj, ha una trama apparentemente semplice. 
Ivan Il'ic è un uomo per bene, che ha sempre avuto una vita impeccabile.
La sua dedizione gli ha permesso di raggiungere le posizioni gerarchiche più elevate all'interno della complessa burocrazia statale russa e sembra che la vita gli abbia dato tutto ciò che un uomo (o, perlomeno, un uomo russo del 1800) possa desiderare: una moglie, una bella casa, un dignitoso impiego statale e uno stile di vita agiato, tra i salotti della vita borghese dell'alta società.
Un giorno, tuttavia, Ivan Il'ic contrae una malattia cronica e tutto il castello che si era costruito fino ad allora crolla; il misterioso morbo lo mangia dall'interno e lentamente ma inesorabilmente lo conduce alla morte.
Come accennato in precedenza, La morte di Ivan Il'ic ha una trama lineare, senza intrecci complessi e senza alcun colpo di scena. Tuttavia, proprio le trame semplici sono le più difficili da narrare; l'autore, infatti, deve essere abile ad imprimere il proprio marchio sul racconto rendendolo così unico e inimitabile.
Il marchio di un grande autore come Tolstoj è il profondo messaggio filosofico che egli è in grado di inserire tra le righe dei racconti, e La morte di Ivan Il'ic non fa eccezione.
La trama, dunque, passa in secondo piano; ciò che conta non è la storia in sé, ma il modo in cui essa è narrata e il messaggio che vuole trasmettere.
Quest'ultimo risiede nella diversa prospettiva che la morte imminente apre nella mente di Ivan Il'ic e nel travaglio interiore che lo accompagnerà per tutta la seconda metà del racconto.
Il punto di svolta è proprio la presa di coscienza, da parte di Ivan, dell'ineluttabilità del suo destino. La malattia, insinuatasi tra le sue certezze come un lieve crepa, diventa un baratro quando essa si trasforma nella consapevolezza di una morte imminente. Tuttavia, più che la morte in sé, a tormentarlo è una domanda sollevatasi da questo abisso oscuro: posso essere soddisfatto della vita che ho vissuto?
A una prima lettura superficiale si potrebbe pensare che Ivan Il'ic non abbia nulla di cui lamentarsi; in fin dei conti, ha raggiunto tutti i suoi obiettivi, ha avuto lavori e stipendi dignitosi, si è sposato e ha messo su famiglia. Eppure, voltandosi indietro e tirando le somme della propria esistenza, Ivan Il'ic si accorge che non riesce a essere soddisfatto di come ha vissuto. La morte ha sfilato un velo rivelando una verità che egli stesso aveva sempre nascosto: tutta la sua vita non è stata che una grande menzogna. Egli non è mai stato padrone della sua esistenza, poiché ha sempre vissuto assecondando gli stereotipi della società. Ivan Il'ic non ha scalato la gerarchia della burocrazia statale perché pensava che uno stipendio elevato e un posto prestigioso potessero renderlo felice, ma solamente perché la società pensa che i soldi e un posto in vista facciano la felicità. Egli non ha preso moglie perché amava quella donna, né perché fosse intimamente convinto dell'importanza del matrimonio, ma soltanto perché la società vuole che raggiunta una certa età si prenda moglie e si metta su famiglia. Egli non frequentava i salotti dell'alta borghesia perché si dilettava all'interno di quell'ambiente raffinato, ma perché secondo la società le "persone dabbene" devono frequentare quei luoghi. In poche parole, Ivan Il'ic ha sempre posto la propria vita nelle mani della società; lui non ha mai vissuto, poiché la società ha vissuto al posto suo. Di conseguenza, egli ha sprecato la sua vita.
La morte diventa un'amara rivelazione e lo stesso Ivan Il'ic diventa un'incarnazione di tale rivelazione. A testimoniarlo, l'ostracismo con cui lo trattano la moglie, gli "amici", il dottore e, in generale, tutte le persone a lui attorno, che condividevano la medesima finzione sociale e che, trovandosi di fronte a un evento che mette in mostra la fragilità di tutta la menzogna, tentano in ogni modo di negare l'evidenza. La parola "morte" diventa tabù, nessuno osa pronunciarla; fino all'ultimo si nega l'ineluttabilità della malattia cronica e tutti, in primis la moglie, cercano di convincere Ivan che quel male passerà presto. Allo stesso tempo, però, tutti iniziano a evitarlo, quasi corressero il rischio di essere contagiati; sanno che la morte è in grado di far crollare tutto il loro castello di carte con un solo soffio e proprio per questo la negano, continuando a vivere nella menzogna e tenendola distante.
Tuttavia, è proprio in questo lento morire che Ivan scopre il vivere autentico, rappresentato dalla figura di Gerasim, un ragazzo di origine contadine che lo accudisce durante la malattia.
Benché Gerasim sia povero, abbia un lavoro umile e non possieda tutti i privilegi di Ivan, egli è sempre allegro, positivo e il suo sorriso è sempre genuino. Non c'è nulla di "falso" nella sua semplice vita e nel suo atteggiamento, e questo perché, benché egli non sia ricco materialmente, ha però un bene molto più prezioso: la libertà interiore. Non vive seguendo le etichette della società, di conseguenza non deve trascinarsi dietro le pesanti catene dell'apparenza; il suo animo è libero di sollevarsi.
Non a caso Gerasim è l'unico ad accettare la verità della morte e a chiamarla per nome, anche e soprattutto di fronte al diretto interessato; non a caso, è soltanto nell'autenticità di quel rapporto che Ivan riesce a trovar sollievo, anche se momentaneo, alle sue pene; ed è forse grazie a questo barlume di verità, anche se colto soltanto alla fine della vita, che sul letto di morte egli è in grado di vedere la luce, pochi istanti dopo l'ultimo respiro.

Lev Tolstoj - La morte di Ivan Il'ic

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Daniele Palmieri

sabato 17 settembre 2016

Julius Evola: Meditazioni delle vette. La montagna come luogo spirituale

Ne Il cammino del cinabro, un'autobiografia spirituale, Julius Evola scrisse, a proposito della chiusura della sua rivista, La Torre, a causa delle pressioni del regime: "Io ne ebbi abbastanza, smisi e me ne andai in alta montagna" (a dimostrazione di come il pensatore di Destra fosse inviso anche dallo stesso fascismo, data la sua grande libertà di pensiero).
Questa mossa ha grandi analogie con l'azione dell'anarca descritto da Ernst Junger ne Il trattato del Ribelle; di fronte a una realtà troppo stretta rispetto alla propria levatura, l'unica soluzione per l'uomo realmente libero è rifugiarsi tra le ombre del sottobosco, per ritrovare quell'assoluta libertà di cui egli necessita.
Meditazioni delle vette, edito da Edizioni Mediterranee, è una raccolta di articoli e brevi saggi che Julius Evola scrisse a seguito di questo auto-esilio e testimoniano una ricerca spirituale del tutto simile a quella del Ribelle jungeriano.
Gli articoli affrontano temi molto diversi tra loro, ma sono tutti legati da un unico filo conduttore: la montagna come grande archetipo dell'ascesa spirituale dell'uomo libero. Ogni singolo testo è in grado di dare una differente sfumatura di questo concetto, esattamente come le decine di vedute diverse del Mont Saint-Victoire dipinte da Cézanne sono in grado di svelare all'osservatore una prospettiva sempre nuova del medesimo oggetto.
Il primo nucleo tematico è quello del rapporto che si instaura tra uomo e montagna mediante la pratica dell'alpinismo.
Quest'ultimo non deve essere considerato uno sport fine a se stesso. La scalata compiuta con il mero scopo di stabilire un nuovo record profana l'aspetto sacro e iniziatico che l'ascesa verso la vetta rappresenta.
La montagna, identificata in tutti i miti e in tutte le religioni come la sede degli déi, rappresenta metaforicamente il luogo sacro di congiunzione tra cielo e terra, in grado di coniare in sé sia le forze primordiali e telluriche delle viscere del terreno sia quelle pure ed elevate del cielo lontano. Essa è l'espressione dell'energia atavica che ancora scorre in quella natura vergine che non può essere domata né dalle macchine né dall'automatismo della vita civilizzata.
L'alpinista che si prepara ad affrontare le asperità della scalata è come un iniziato che si appresta a intraprendere un percorso spirituale che lo porterà ad ascendere al cielo. 
La cima rappresenta dunque la destinazione non soltanto fisica, ma soprattutto metafisica, dalla quale l'alpinista è in grado di assumere una nuova prospettiva delle cose, uno sguardo dall'alto che gli permette di ergersi al di sopra del mondo terreno e di contemplare l'infinito, similmente al Viandante sul mare di nebbia di Friedrich. Un infinito che non è soltanto quello esteriore, del paesaggio dinnanzi a lui, ma soprattutto quello interiore, che alberga in quelle anime in grado di raggiungere l'altezza e di dominarla con un solo sguardo.
E' una condizione estatica che però permette all'alpinista di non perdere il contatto con la realtà, bensì di provare l'intensa sensazione del "viver di più". Come scrive Evola: "In questi apici, come calore che si trasfigura in luce, la vita, per così dire, si libera da se stessa, non nel senso di una cessazione dell'individualità e di una specie di mistico naufragio, ma nel senso di un'affermazione trascendente di essa, nella quale l'angoscia, l'incessante tendere, bramare ed agitarsi, cercar fedi, appoggi e scopi degli uomini dà luogo ad uno stato di calma dominatrice. Nella vita, non fuori di essa, vive qualcosa di più della vita".
Questo risultato è il coronamento di un percorso le cui fatiche mettono a dura prova sia la resistenza del corpo sia quella dello spirito; solo con se stesso, l'alpinista non può che trarre da se stesso la volontà per andare avanti, la forza per superare i propri limiti fisiologici e psicologici, l'audacia e il coraggio per superare i crepacci e le ripide salite, il dominio del corpo, l'equilibrio dei movimenti e la sincronia con il respiro; e proprio in questa duplice tempra a cui egli è sottoposto risiede l'importanza della scalata.
Essa permette di superare la spaccatura che vi è tra mondo vita contemplativa e vita attiva. Usando le parole di Evola: "L'una è l'astrattismo della nostra cultura. L'altra, è l'esaltazione priva di luce. Da una parte, vediamo persone le quali credono che spirito sia la semplice erudizione da biblioteca o aula universitaria, i giuochi intellettuali della filosofia, l'estetismo letterario o misticheggiante. Dall'altra, vediamo nuove generazioni che dello sport hanno fatto una vera e propria religione, e che non vedono nient'altro oltre l'ebbrezza di un allenamento, di una competizione e di una conquista fisica: facendo dunque dello sport un fine e un idolo, anziché un mezzo".
La scalata è l'ideale punto di incontro tra i due estremi precedenti, poiché in essa la contemplazione può essere raggiunta soltanto mediante l'intenso sforzo fisico che conduce alla vetta e, allo stesso tempo, quest'ultimo è in grado di portare alla luce le forze interiori necessarie per coronare l'ascesi.
Quasi a margine, ma non meno importante, vi è la lungimirante critica di Evola al turismo di massa, che profana i luoghi vergini della natura contaminandoli con le agiatezze, le macchine, la frivolezza della vita borghese e che finisce per addomesticarli, sottraendogli tutto il loro fascino e la loro valenza spirituale. Esattamente la stessa impressione che ho provato quest'anno visitando il parco naturale di Plitvice, in Croazia, dove la natura selvaggia è stata addomesticata e messa in vetrina, trasformata in un immobile quadro classicista, privo di qualsiasi potenza espressiva.
Vi è, infine, la descrizione pura delle scalate compiute da Evola, in cui il pensatore italiano è in grado di sfoggiare grandi doti letterarie, oltre a quelle filosofiche. Ed è soltanto con una delle sue sublimi descrizioni della potenza della natura che il presente articolo può concludersi in maniera degna:
"L'esperienza notturna del lago di Resia. [...] L'idea è stata: andiamo sul lago. E' notte alta. Immaginate una lastra immensa di cristallo nero, della levigatezza esatta di uno specchio che dura chilometri: il lago gelato. I monti nevosi dei due fianchi della valle e il cielo inverosimilmente costellato si riflettono in questa lastra con una vividezza magnetica, per cui vi trovate fra un doppio miraggio, fra una doppia trasparenza. Pensate che cosa sia andar avanti senza pattini verso il centro, fra il vento del Nord, nell'equilibrio fisico e spirituale di una lucida ebbrezza in cui l'alcool, natura, ed esaltazione interiore concorrono - concepire questo forse è possibile. Non è però possibile concepire, per chi non l'ha provato, che cosa è in queste condizioni l'esperienza della frattura dei ghiacci subacquei. La notte, per l'ulteriore dislivello della temperatura, accade che gli strati profondi del ghiaccio in contatto del lago si spezzano. Si produce allora uno scroscio ed un boato che si ripercuote paurosamente attraverso la valle. [...] sentire ad un tratto sotto di sé lo scroscio che diviene un boato immenso che tutta la montagna ripete, è quasi sentir la voce stessa della terra, è aspettarsi un abisso che si spalanca - è qualcosa che sommuove il sangue fino all'intimo, come solo il terremoto lo può: è risveglio di una sensazione primordiale, meravigliosa e paurosa, dormente in chi sa quali arcaici strati della nostra entità più profonda".

Julius Evola - Meditazioni delle vette, Edizioni Mediterranee

Ho parlato di Juliues Evola anche in:



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Daniele Palmieri

giovedì 15 settembre 2016

L'arte della virtù secondo Benjamin Franklin

Benjamin Franklin è stato, senza ombra di dubbio, una delle figure più complesse e poliedriche nel panorama del pensiero americano. I suoi interessi spaziavano dalla filosofia alla scienza alla massoneria fino, ovviamente, alla politica.
Uno dei suoi testi più noti e letti, soprattutto negli Stati Uniti, è la sua Autobiografia, rimasta incompiuta, così come un suo grande progetto sul quale aveva lavorato per oltre vent'anni: la stesura di un libro, l'Arte della virtù, che avrebbe dovuto contenere una serie di precetti morali laici che permettessero all'uomo di perfezionare la propria interiorità e, di conseguenza, le proprie azioni.
Di questo progetto ci è giunto soltanto il riflesso, conservato in alcuni passi della Autobiografia che La vita felice, casa editrice milanese, ha raccolto in una breve pubblicazione: L'Arte della virtù, per l'appunto.
Dell'idea originaria, Benjamin Franklin riporta l'impalcatura principale e con pochi e semplici concetti è in grado di trasmettere i suoi vent'anni di ricerca.
Come egli sottolinea nella prima parte del testo, molte sono state le virtù identificate da religioni e filosofie di ogni parte del mondo, ma di esse Benjamin Franklin ne individui tredici che, a suo dire, possono permettere all'uomo, a prescindere dalla sua confessione religiosa, di raggiungere la perfezione morale.
Riportando il "breviario" di Franklin, queste tredici virtù sono:

1) Temperanza (Non mangiare fino a stordirti. Non bere fino all'ebbrezza).
2) Silenzio (Parla solo quando può essere di vantaggio agli altri o a te. Evita di trastullarti nelle chiacchiere).
3) Ordine (Fa sì che ogni tua cosa abbia un posto proprio. Fa sì che ogni parte delle tue attività abbia un suo tempo).
4) Decisione (Risolviti a fare ciò che devi. Fai immancabilmente ciò che hai deciso di fare).
5) Frugalità (Fai spese solo per il bene del prossimo o di te stesso; ovvero non sprecare niente).
6) Operosità (Non perdere tempo. Sii sempre impegnato in qualche cosa di utile. Elimina tutte le azioni inutili).
7) Sincerità (Non rincorrere a inganni che possono far male. Abbi pensieri innocenti e retti e, quando parli, parla secondo questi pensieri).
8) Giustizia (Non danneggiare nessuno, facendo offese od omettendo i benefici che sono il tuo dovere).
9) Moderazione (Evita gli estremi. Evita di irritarti per offese quando pensi che siano meritati).
10) Pulizia (Non tollerare la sporcizia nel corpo, negli abiti o nell'abitazione).
11) Tranquillità (Non irritarti per inezie o per incidenti banali o inevitabili).
12) Castità (Fai raramente sesso, se non per la salute o per procreare; mai per stupidità, debolezza o danno).
13) Umiltà (Imita Gesù e Socrate).

L'ultima virtù riassume in sé lo spirito del breviario di Franklin, che sembra fondere ottimamente l'etica protestante alle virtù della Grecia Antica. 
In generale, il breve libretto risulta essere una lettura godibile che, senza troppi fronzoli, invoglia il lettore a mettere alla prova se stesso nell'esercizio di tali virtù (anche se molti, me compreso, sarebbero portati a ridurle a dodici, togliendone una che sembra essere più d'intralcio che d'aiuto...).

L'arte della virtù - Benjamin Franklin, edito da La vita felice

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Daniele Palmieri

domenica 11 settembre 2016

Focault e l'ermeneutica del sé

La tradizione filosofica occidentale ha sempre dato molta importanza al concetto di "cura di sé". A partire dall'antichità classica, passando per il medio evo fino ai giorni nostri, è ricorrente il tema della presa di coscienza del proprio io e del compito, da parte del filosofo, di perfezionarlo.
Tuttavia, nel corso dei secoli le tecniche di cura del sé hanno assunto forme differenti, sia con il variare del contesto sociale, sia con l'introduzione di nuove ideologie e con diverse concezioni di ciò che può chiamarsi "Io".
Nelle due conferenze raccolte in Sull'origine dell'ermeneutica del sé, edito dalla casa editrice Cronopio, Michel Focault tenta di ricostruire una breve genealogia di tali pratiche, per comprendere come siano nate, come e perché si siano evolute e quale sia la loro importanza per l'uomo contemporaneo.
Come ogni grande concetto filosofico, anche l'idea della cura di sé nasce nella Grecia Antica, in particolare con le pratiche introdotte dalle scuole di vita ellenistiche. Riprendendo la concezione della filosofia antica delineata da Hadot, anche Focault sostiene che per i pensatori antichi la filosofia era anzitutto una materia pratica, il cui compito era quello di consentire al filosofo di raggiungere la felicità, tramite il perfezionamento di sé. Questo perfezionamento poteva avvenire attraverso l'esercizio di determinate pratiche psico-fisiche, che ponevano al centro del lavoro l'io del filosofo, tra cui la pratica della confessione, il filo conduttore dell'analisi focaultiana.
Come sottolinea Focault, però, occorre fare molta attenzione e non confondere questo "io" con la concezione moderna che abbiamo del soggetto. L'io del filosofo non coincideva con la sua personalità né doveva essere sviluppato secondo caratteristiche "soggettive". Il vero "Io" veniva realizzato e perfezionato quando esso si avvicinava all'ideal-tipo filosofico proposto dalla scuola a cui l'aspirante sophos aveva deciso di aderire. Questo concetto è ben esplicitato in alcuni passaggi del De Ira di Seneca e nella pratica, da lui descritta, della confessione dei propri difetti che il filosofo compiva, a se stesso, ogni sera.
I vizi che il filosofo latino si attribuisce vengono delineati non come aspetti intrinsechi della sua personalità, bensì come malattie da estirpare per raggiungere l'ideale del saggio stoico. Per fare un esempio pratico, Seneca si definiva "goloso" o "pigro" non perché si considerava la golosità e la pigrizia tratti distintivi del suo carattere, bensì come se fosse affetto da vere e proprie malattie, le quali non fanno parte dell'io ma sono, piuttosto, dei corpi estranei.
"L'io" di cui parla Seneca è un "io" astratto, quasi impersonale, non certo l'io "individuo", giacché il concetto moderno di "individuo" era alieno alla mentalità greco-latina. Compito di questo Io è di acquisire determinate virtù ed estirpare i vizi, dove vizio e virtù, come già accennato, non sono aspetti intrinsechi del proprio carattere ma delle qualità impersonali che si possono acquisire mediante l'esercizio (nel caso delle virtù) o dai quali si può venire infettati (nel caso del vizio).
Proprio questa forma di confessione dei propri difetti verrà ripresa dal cristianesimo, che ne muterà però il significato sulla base della diversa concezione dell'io.
Con il cristianesimo, il vizio e il peccato diventano delle qualità intrinseche dell'anima umana, e non delle "semplici" infezioni che essa può contrarre. L'uomo è marcio dentro fin dal peccato originario e questa macchia nera è tramandata generazione dopo generazione. I sette vizi capitali diventano dei tratti distintivi del singolo carattere e comincia così a farsi strada una nuova concezione dell'individuo e dell'Io. L'Io non è più qualcosa di oggettivo e impersonale, bensì un "Io" individuale, con determinati tratti caratteriali, viziosi o virtuosi, che distinguono un uomo dall'altro e che non sono più espressione di qualità impersonali che il soggetto acquisisce.
La confessione, da questa prospettiva, non è più un colloquio che l'Io del soggetto intraprende con se stesso per capire come migliorarsi, ma diviene uno strumento di potere nel momento in cui essa diviene espressione di un senso di colpa che deve essere confessato necessariamente a un'autorità, in questo caso l'autorità religiosa. Senso di colpa che verrà sfruttato dalle cariche religiose  per ottenere il dominio delle anime e sottrargli la possibilità di migliorarsi e dominarsi da sole poiché, secondo la dottrina cattolica, vi è necessariamente bisogno di un intermediario per potersi lavare dai propri peccati ed è chiaro che, nel momento in cui la persona non può trarre da se stessa la forza per migliorarsi, perde gran parte della propria autonomia e, soprattutto, della propria libertà.
Vi è però un aspetto positivo nell'evoluzione della concezione dell'Io; difatti, è proprio la scoperta medievale di un'individualità concreta, che distingue un'anima dall'altra e gli conferisce una propria personalità, ad aprire la strada alla concezione più moderna di "individuo". Un passaggio necessario per arrivare all'ultima fase dell'evoluzione dell'ermeneutica del sé, quella della psicoanalisi novecentesca.
Lo psicologo prende il posto del confessore, ma la sua ermeneutica dell'anima dell'individuo non ha più il medesimo tono "inquisitorio"; il male da curare che colpisce la persona proviene ancora dall'interno della sua psiche, ma problemi psicologici come la nevrosi prendono il posto dei vizi e del peccato; la confessione si trasforma nella seduta psicologica, in cui non vi è l'ammissione di una colpa da purificare ma la descrizione del problema da risolvere.
Tuttavia, anche in questo caso il soggetto perde parte della propria libertà, poiché lo psicologo prende in carica il compito di curare il sé dell'individuo.
A questo punto, ciò che Focault propone è il recupero dello spirito della filosofia antica, per restituire all'individuo la possibilità di poter scoprire, scandagliare e curare il proprio "Io" senza bisogno di intermediari. Nel momento in cui affidiamo al prossimo tale compito, infatti, stiamo rinunciando a una parte fondamentale della nostra libertà.

Focault, Sull'origine dell'ermeneutica del sé, Cronopio edizioni

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Daniele Palmieri