martedì 20 settembre 2022

Amanita Muscaria. Etnografia di un fungo allucinogeno, Giorgio Samorini

E' settembre inoltrato. I raggi del Sole ancora scaldano le foglie degli alberi, i fiori, i cespugli, e i campi verdi sopravvissuti alla calura dell'estate, ma il vento freddo e le prime piogge, come ambasciatori dell'autunno, annunciano l'arrivo della nuova stagione. 
Mentre i primi "cacciatori di funghi" iniziano a popolare le coste umide e ombrose di valli e montagne, un inconfondibile "frutto della terra" inizia a fare capolino sotto abeti e betulle. Il rosso acceso del suo cappello, sia ancora un ovulo o già un tamburo, salta subito all'occhio, così come le sue verruche bianche che a volte vengono lavate dalle piogge. E' il fungo per eccellenza, lo si ritrova in tutte le illustrazioni fiabesche che riguardano i boschi e il loro popolo, visibile e non, e spesso è la dimora di gnomi e folletti nell'arte, nella scultura, perfino nei più economici e dozzinali dei souvenir. 
Eppure, la sua diffusione capillare e la sua dimora costante e archetipica nell'immaginario collettivo non basta a salvarlo dagli sguardi di orrore, paura, perfino sdegno di camminatori e fungaioli che, se accompagnati da adulti o bambini, presto si sentiranno in dovere dal metterli in guardia dallo stare alla larga da quel fungo mortale, di non toccarne nemmeno l'ammaliante cappello e, nei casi più estremi, perfino di spappolarlo con il bastone per evitare che qualche incauto curioso osi avvicinarvisi troppo. D'altronde, tutti i manuali di riconoscimento e raccolta dei funghi parlano chiaro: l'Amanita Muscaria è velenosa, come testimonia il sogghigno del teschio grigio su sfondo nero. 
Ma è davvero così? O la situazione è, forse, più complessa?
Per approfondire la questione, occorre andare al di là dei semplici manuali commerciali per la raccolta e il riconoscimento dei funghi, che spesso si trascinano dietro stereotipi e informazioni vetuste - ma anche giustificate cautele per evitare che persone inesperte possano cadere vittime della loro leggerezza.
Muscaria. Etnografia di un fungo allucinogeno, di Giorgio Samorini (Youcanprint) è una monografia interamente dedicata all'Amanita Muscaria che permette di addentrarsi nello studio di uno dei funghi più conosciuti ma allo stesso tempo più incompresi, sfatando molti miti e addentrandosi nella sua storia affascinante e misteriosa. 
In questo saggio etnobotanico, Samorini illustra il rapporto complesso e estremamente variegato che l'uomo ha intessuto con l'Amanita Muscaria nel corso dei millenni. Un rapporto che passa dagli usi sciamanici, a quelli eduli, perfino alla creazione di "vini inebrianti" a base di Muscaria fino ad arrivare alla demonizzazione.
Ma partiamo dalle basi, dalle nude e pure informazioni sull'Amanita Muscaria presa di per sé.
Come scrive Samorini: "Le caratteristiche macroscopiche che permettono di individuare a prima vista l'agarico muscario sono: il cappello rosso cosparso di macchie bianche; la presenza di un anello nel gambo; la nascita di questo fungo da un ovulo che, prima di dischiudersi, ha l'aspetto di un vero e proprio uovo [da qui il soprannome di ovolo malefico, ndR] [...]. Questo fungo, come tutte le specie del genere Amanita, intrattiene relazioni ectomicorrize con diverse specie di alberi, principalmente, e forse originalmente, betulle, larici e altre conifere. [...] Per quanto riguarda i principi attivi dell'Amanita Muscaria [...] il primo composto a essere identificato nell'agarico muscario fu la muscarina, molecola che prese il nome da quello di questo fungo, e sebbene gli studi successivi abbiano evidenziato che questa molecola è presente in basse concentrazioni, per quasi un secolo si ritenne che fosse la muscarina responsabile degli effetti psicoattivi. [...] Fu solamente verso la metà degli anni '60 che vennero isolati e identificati i veri principi attivi dell'agarico muscario, gli alcaloidi acido ibotenico e muscimolo. L'acido ibotenico tende a trasformarsi in muscimolo, e questo processo viene facilitato durante il processo di essiccazione del fungo. Il composto più propriamente visionario è il muscimolo e ciò spiega la diffusa pratica presso etnie siberiane di seccare l'agarico muscario prima di ingerirlo, poiché in tal modo acquista maggiori proprietà visionarie. La parte del fungo più ricca di principi attivi è il cappello, mentre il gambo ne contiene basse concentrazioni [...]. La concentrazione dei principi attivi varia anche nelle diverse fasi di crescita del fungo. La concentrazione massima di alcaloidi si presenta solitamente nella fase in cui il fungo è nato da poco e il cappello è ancora chiuso" (Muscaria. Etnografia di un fungo allucinogeno, Giorgio Samorini, Youcanprint, pp. 7-13).
Potrebbe non essere un caso che, perfino nel mondo odierno, in cui la lunga storia dell'Amanita Muscaria è stata eclissata dall'amplificazione della sua velenosità, questo fungo continui a essere associato alle rappresentazioni, anche triviali, delle entità invisibili che popolano il bosco. Come abbiamo accennato, infatti, l'Amanita Muscaria fu usata per millenni nelle pratiche sciamaniche e visionarie.
Una delle testi più note è quella del micologo Wasson, che nel suo Soma. Divine mushroom of immortality, avanzò l'ipotesi che il mitico Soma, cantato dai Rishi negli inni vedici, fosse una bevanda psicoattiva contenente proprio l'Amanita Muscaria. Ma, mentre le affascinanti congetture di Wasson si muovono nel mondo delle ipotesi, uno degli utilizzi attestati più importanti dell'Amanita Muscaria nell'indurre visioni è quello degli sciamani siberiani, a cui Samorini dedica gran parte del testo.
La "sacralizzazione" dei funghi in territorio siberiano è estremamente antica. Alcune rappresentazioni rupestri di oltre 4000 anni fa ritraggono uomini dalle fattezze fungine; ma rappresentazioni più antiche risalgono addirittura a 10-11 mila anni fa, come testimoniano le ricerche dall'archeologo russo Nikolay Dikov, che ha riportato alla luce accampamenti paleolitici sulle rive dal lago Ushokovo dall'inconfondibile aspetto fungino.
Come scrive Samorini: "Presso le culture siberiane che fanno uso di Amanita muscaria v'è una tendenza ad antropomorfizzare il fungo simbolicamente e artisticamente. Gli stessi effetti inebrianti del fungo parrebbero produrre visioni dei manichini, gli spiriti delle amanite, dall'aspetto fortemente antropomorfizzato [...]. Dikov ha sottolineato come le rappresentazioni di uomini fungo o di funghi antropomorfizzati, e le associate conoscenze e utilizzi di funghi psicoattivi, siano un filo conduttore che attraversa tutta l'Asia centrale e settentrionale e ciò sarebbe evidenza di un sostrato Palo-Eurasiatico di migrazioni etniche e culturali [...] in tale filo conduttore fungino rientrerebbero anche le immagini di uomini fungo dell'Età della Pietra ritrovate nella Penisola Iberica, così come le origini del Soma vedico e, addirittura, le conoscenze e antropomorfizzazioni di funghi psicoattivi presso le culture precolombiane del Messico e dell'America Centrale" (Muscaria. Etnografia di un fungo allucinogeno, Giorgio Samorini, Youcanprint, pp. 70-71). Un'ipotesi affascinante sulla quale, tuttavia, Samorini mette in guardia. Occorre infatti ricordare che conoscenze molto simili, circa l'utilizzo di sostanze psicoattive, possano sorgere anche in culture differenti e mai entrate in contatto tra loro. 

In Occidente, l'utilizzo visionario dell'Amanita Muscaria fu riscoperto soltanto in quella che Samorini chiama la fase pre-sovietica, quando cominciarono a filtrare le prime informazioni di quelle terre lontane dai diari dei viaggiatori o dei prigionieiri di guerra che entrarono in contatto con le popolazioni autoctone, che ancora tramandavano usi e riti antichi di secoli tra cui, appunto, l'utilizzo visionario dell'Amanita Muscaria, mangiata essiccata, sotto forma di bevanda inebriante o, addirittura, assunta per via indiretta attraverso l'urina delle renne o di sciamani che si erano precedentemente cibati delle cappelle di Amanita. Il principio attivo del fungo, infatti, possiede la peculiarità di rendere psicoattiva anche l'urina, addirittura in diversi cicli di ingestione ed espulsione, e secondo le tradizioni locali l'urina della renna o dello sciamano era perfino più potente del fungo ingerito.
L'ultima, triste, fase dell'uso sciamanico dell'Amanita Muscaria tra le popolazioni siberiane è legata alla severa repressione del periodo sovietico, durante la quale gli sciamani, additati nel migliore dei casi come retrogradi e nel peggiore come truffatori, vennero aspramente perseguitati dal regime sovietico, che sradicò l'utilizzo delle sostanze visionarie condannando perfino al gulag gli sciamani colpevoli di perpetrare le antiche tradizioni e ottenendo, come effetto collaterale, la sostituzione dell'Amanita Muscaria con la vodka, mentre il regime di Stalin condannava all'oblio millenni di cultura e tradizioni.
La persecuzione degli sciamani e, indirettamente, dell'Amanita Muscaria, da parte del regime sovietico, sembra riflettere la "muscariafobia" della letteratura recente, scientifica e non. 
L'aspetto più curioso riportato alla luce dalla storia della Amanita Muscaria redatta da Samorini è che nemmeno l'utilizzo culinario di questo fungo, in condizioni di emergenza, è riuscito a sottrargli l'aria mortifera che lo attanaglia. Anche in Italia, durante periodi di guerra e carestie, l'Amanita Muscaria veniva consumata previa molteplici processi di cottura atti a eliminarne i principi attivi venefici, ma il caso più eclatante è quello avvenuto nel XIX secolo, quando, a causa di un parassita che aveva fatto morire diversi vigneti con conseguente inflazione del prezzo del vino, un medico di Como aveva messo a punto una bevanda inebriante a base proprio di Amanita Muscaria, per colmare la richiesta di mercato e le botti rimaste vuote.
Nonostante, come riporta Samorini nel libro, la casistica di decessi direttamente attribuibili all'Amanita Muscaria sia estremamente bassa e, spesso, legata a informazioni parziali e contraddittorie, la povera Amanita continua a essere additata come il fungo velenoso per eccellenza e, anche quando razionalmente ne ridimensioniamo la pericolosità, permane in noi un timore e un sospetto inconscio.
Per descrivere questo timore e comportamento ambivalente, Samorini ha coniato l'espressione Trauma di Verbnikov. Verbnikov, soprannominato il Poeta degli Urali, è stato uno scrittore russo che ha avuto diverse esperienze con l'Amanita Muscaria, dedicandogli perfino un testo: Nonno Amanita e ragazzo banana, o raccoglitore di funghi. Come scrive Samorini: "In questo testo Verbnikov si dilunga per diverse pagine sul comportamento della distruzione nei boschi dell'agartico muscario, proponendo un'arguta e plausibile interpretazione psicologica. Le persone che si scagliano rabbiosamente contro questo fungo, non è tanto perché lo considerino velenoso, quindi agendo come atto di difesa personale e per gli altri, ma v'è un motivo più recondito che origina quando, da bambini, siamo vittime di un comportamento contraddittorio degli adulti. Nelle culture occidentali il mondo infantile viene inondato di immagini di amanite muscarie, diventando uno dei simboli dell'affetto e del calore, dell'innocenza e della sicurezza dei bambini; un valore affettivo che viene brutalmente distrutto il giorno in cui, quando la famiglia si trova nel bosco a raccogliere funghi, un evento frequente in Russia, con gesti e parole intimidatorie gli adulti bloccano l'ignaro infante mentre sta per raccogliere questo fungo, vietandogli di fare ciò non solo in quel momento ma per il resto della sua vita. In quel momento il bambino interpreta questo comportamento degli adulti come un tradimento, con conseguente delusione. Verbnikov osserva che, per coerenza, la famiglia da quel momento dovrebbe distruggere o eliminare qualunque immagine dell'agarico muscario presente nella camera da letto del bambino, ma un uomo civilizzato moderno, essendo uno schizofrenico coerente, non lo fa. Quando il bambino, ormai divenuto adulto, si aggirerà per i boschi e incontrerà l'agarico muscario, gli scaglierà contro tutta la sua rabbia inconscia per quel tradimento dei tempi dell'infanzia. [...] Si potrebbe ritenere che noi tutti, persone di cultura occidentale, abbiamo sofferto da bambini in vario grado del trauma di Verbnikov, ce lo portiamo dentro inconsciamente e reagiamo alla vista o anche solo al pensiero dell'agarico muscario [...] in base alla profondità di questo trauma infantile. La delusione per il tradimento del valore affettivo del fungo con il cappello rosso cosparso di puntini bianchi che ha accompagnato la prima infanzia dei bambini, avviene anche in coloro che non esperiscono l'evento delusorio in un bosco, ma che acquisiscono i valori di pericolosità e velenosità del fungo in altri modi, mediante la lettura o la semplice comunicazione verbale" (Muscaria. Etnografia di un fungo allucinogeno, Giorgio Samorini, Youcanprint, pp. 44-45).
Muscaria. Etongrafia di un fungo allucinogeno di Giorgio Samorini è il libro ideale per iniziare a superare questo trauma infantile e riappacificarsi con la bellezza del rosso cappello di questo fungo che, con la sua appariscenza e il suo aspetto di fuoco, annuncia l'arrivo di una nuova stagione e nasconde, silente, spiriti antichi che parlarono agli uomini in tempi immemori.


Muscaria. Etnografia di un fungo allucinogeno, Giorgio Samorini, Youcanprint

Daniele Palmieri

sabato 12 febbraio 2022

Rudolf Steiner: I Sei Esercizi per lo sviluppo dell'anima

 

Proseguiamo l'approfondimento del pensiero di Rudolf Steiner con questo terzo articolo, che va a completare Introduzione alla lettura di Rudolf Steiner e Rudolf Steiner e La Soglia del Mondo Spirituale.
In entrambi gli articoli abbiamo parlato dell'approccio esperienziale al sovrasensibile tracciato da Rudolf Steiner. Un approccio che lo pone a metà strada tra il mistico e lo scienziato. La sua idea, infatti, era quella di applicare il metodo della scienza sperimentale al mondo sovrasensibile, senza abbandonarsi a esso in preda all'estasi ma cercando di mantenere il controllo della coscienza per poter esplorare e analizzare le visioni e coglierne il loro profondo significato. Un approccio che, come potete immaginare, attirò critiche da entrambi i fronti. Da quello scientifico, per ovvi motivi epistemologici, ma anche da quello esoterico e spirituale. A dir poco spietati, nei suoi confronti, furono Guenon ed Evola, ma anche un altro autore in bilico tra mondo scientifico e mondo spirituale come Gustav Jung, che nelle sue opere non riusciva a vedere altro che visioni personali senza alcuna "profondità archetipica".
Pur non condividendo le derive visionarie di molte opere di Steiner, ritengo tuttavia che il suo pensiero abbia qualcosa di misterioso e affascinante e che la sua esperienza spirituale, al pari di quella di uno Swedenborg, sia da studiare e da comprendere proprio per la sua eccentricità. 
Ciò che lo contraddistingue da altri autori simili, come Jakob Lorber, è il voler condividere come egli sia stato in grado di poter accedere a queste visioni. Le opere scritte di suo pugno sono testi essenzialmente pratici. Essi vogliono spiegare al lettore come immergersi in questi reami sovrasensibili. Da questo punto di vista, una agile introduzione è un breve libello redatto raccogliendo i molti cenni che lo stesso Steiner, in molte sue opere, fa in riferimento a Sei Esercizi Spirituali fondamentali per schiudere la Soglia del Mondo Spirituale. Questi esercizi, secondo l'autore, non hanno il compito di creare nuove forze ma di sviluppare quelle già esistenti nell'animo umano, poiché "da sole esse non si sviluppano, poiché trovano impedimenti interni ed esterni. Quelli esterni vengono rimossi con le regole di vita indicate qui; quelli interni grazie a particolari indicazioni sulla meditazione e la concentrazione" (Rudolf Steiner, I Sei Esercizi, Editrice Antroposofica, p. 13).
In ordine progressivo, questi sei esercizi devono essere svolti per il periodo di un mese e sono così suddivisi:

1) L'esercizio del pensiero. "La prima condizione è l'acquisizione di un pensiero perfettamente chiaro. A tale scopo, sia pure per breve tempo, anche solo per cinque minuti al giorno, ci si deve rendere liberi dal confuso vagare dei pensieri. Bisogna divenire padroni del proprio mondo di pensiero. Non se ne è padroni se le condizioni esterne [...] determinano un nostro pensiero e il modo in cui si sviluppa" (Rudolf Steiner, I Sei Esercizi, pp. 14-15). Un esercizio comune a molte scuole religiose, spirituali, filosofiche ed esoteriche, che consente alla coscienza di alienarsi dal mondo materiale per raccogliersi in se stessa e riscoprire ciò che ha davvero valore, in questa dimensione lontana dove non penetra il brusio della vita quotidiana che, quotidianamente, ci trascina verso il basso. Una sorta di "digiuno dell'anima", al quale, in seguito, deve subentrare la capacità di concentrarsi su un unico pensiero, a nostra scelta, senza mai distogliere lo sguardo interiore. Questo esercizio permette di sviluppare la "volontà del pensare", che consente all'animo di riprendere dominio sulla  sua facoltà più importante. L'esercizio deve essere concluso pensando di riversare il pensiero dal capo alla linea mediana della schiena. 
2) L'esercizio della iniziativa all'azione. "Si cerchi di immaginare un'azione qualsiasi che di certo non si compirebbe secondo le consuete abitudini di vita. Si trasformi questa azione i un dovere quotidiano" (Rudolf Steiner, I Sei Esercizi, p. 15). Questo esercizio permette di espandere la volontà del pensiero sul corpo e, soprattutto, di infrangere gli automatismi che ci portano ad agire sempre nello stesso modo. Esso è in grado, allo stesso tempo, di rivelare la natura abitudinaria e automatica delle nostre azioni, ma anche di infrangerla con il potere della consapevolezza. Trascorsi un po' di giorni, occorre aggiungere una seconda azione alla prima, e poi una terza e così via, propria per evitare che subentri un nuovo automatismo e per abituare l'anima e il corpo a esperienze sempre nuove. Il tutto senza abbandonare il primo esercizio.
3) L'esercizio della superiorità nei confronti delle emozioni. "Si badi a non farsi trascinare da una gioia, o abbattere da un dolore, a non farsi trasportare dall'ira o alla collera smisurata da alcuna esperienza, a non farsi riempire d'angoscia o di paura da nessuna attesa, che nessuna situazione ti sconvolga e così via" (Rudolf Steiner, I Sei Esercizi, p. 16). Questo esercizio non deve sfociare nell'aridità ma, oltre a estendere il dominio della volontà sulle emozioni, consente di veder sorgere nuovi sentimenti, purificati da un'anima non più in balìa degli eventi esterni ma che, al contrario, è in grado di gestire in maniera consapevole i propri moti interiori. Il sentimento che sorge deve essere irradiato in tutto il corpo, dalla testa ai piedi e almeno una volta al giorno si dovrà meditare su questa quiete interiore, come davanti a uno specchio.
4) L'esercizio della positività. "Consiste nel cercare ciò che vi è di buono, di eccellente, di bello, in tutte le esperienze, le entità e le cose" (Rudolf Steiner, I Sei Esercizi, p. 16). Il mondo spirituale è un reame totalmente alieno rispetto al mondo materiale. Così, bisogna imparare a scorgere nel reale ciò che non si era mai stati in grado di notare prima, per sviluppare la capacità di stupirsi e, soprattutto, per riuscire a trovare la Soglia nascosta al mondo dello spirito. Esso inoltre permette di non farsi trascinare dalle catene della critica continua e di liberarsi dagli eccessivi giudizi nei confronti del mondo, ad accettare le cose che accadono distaccandosi da esse e usando la forza ascendente della positività. "Chi per un mese di seguito s'indirizza coscientemente in tutte le sue esperienze verso il positivo, osserverà a poco a poco che nella sua interiorità si insinua una sensazione come se tutta la sua pelle divenisse permeabile da ogni parte, come se la sua anima si aprisse ampiamente a tutti i processi sottili e occulti dell'ambiente che prima sfuggivano del tutto alla sua attenzione" (Rudolf Steiner, I Sei Esercizi, p. 18)
5) L'esercizio della assenza dei pregiudizi. "Nel quinto mese si cerchi di educare in se stessi l'attitudine a porsi senza pregiudizi di fronte a ogni nuova esperienza. Il discepolo esoterico deve affrancarsi del tutto dal comune atteggiamento di chi dice, per ogni cosa appena vista o udita: Non l'ho mai udita, non l'ho mai vista, non ci credo, è un'illusione! Egli deve essere pronto in ogni momento ad affrontare esperienze completamente nuove" (Rudolf Steiner, I Sei Esercizi, p. 18). Questo esercizio è strettamente collegato allo senso di stupore nei confronti del mondo dell'esercizio precedente ma consente anche di sviluppare quell'apertura, fondamentale, nei confronti delle realtà apparentemente incredibili del mondo spirituale. Esso consente il destarsi di un sentimento sottile, come se qualcosa di meraviglioso fosse sempre in agguato, come se tutto, in ogni momento, possa sempre accadere, come se non vi fosse nulla di impossibile, esattamente come nel mondo spirituale e nel suo divenire perpetuo di forme e visioni.
6) L'esercizio dell'equilibrio. "Nel sesto mese si deve tentare di intraprendere sistematicamente l'esecuzione di tutti e cinque gli esercizi, in regolare alternanza. Si formerà così, poco a poco un armonioso equilibrio dell'anima. Si noterà ad esempio come la scontentezza e l'insofferenza verso il manifestarsi e l'essere del mondo spariscano del tutto, per lasciare posto a una disposizione conciliante verso le esperienze. Non si tratta di indifferenza, ma di una nuova facoltà che ci rende capaci di lavorare nel mondo, migliorando e progredendo. Si schiude all'anima una calma comprensione di cose che prima erano del tutto celate" (Rudolf Steiner, I Sei Esercizi, pp. 18-19).
Credo che, indipendentemente dal giudizio che si può formulare nei confronti della persona e dell'esperienza intellettuale di Steiner, questi sei esercizi si possano integrare facilmente a molti sentieri spirituali, senza dover necessariamente sposare l'intero sistema di pensiero dell'autore. Si trattano, infatti, di inviti all'azione piuttosto che di inviti all'idea, in grado di smuovere le medesime forze che, sempre secondo Steiner, sono in grado di far sbocciare il fiore di loto.

Rudolf Steiner, I Sei Esercizi, Editrice Antroposofica

Fonte immagine: Pinterest

Daniele Palmieri

Rudolf Steiner: La Soglia del Mondo Spirituale

 

Con questo articolo tiro le fila di due discorsi. Il primo, legato all'approfondimento dei reami psichedelici di cui ci siamo occupati negli ultimi tre articoli del blog e il secondo legato a un autore che, pur non avendo alcun legame con la cultura psichedelica, ha lasciato in eredità una serie di descrizioni e visioni dei reami spirituali. Sto parlando del controverso Rudolf Steiner, al quale, ad agosto 2021, avevo dedicato una introduzione, con la promessa di proseguirla (mi riferisco all'articolo Introduzione alla lettura di Rudolf Steiner).
Questi due discorsi, a un livello superficiale, non hanno nulla in comune. Nessun autore psichedelico, almeno quelli di cui mi sono occupato, ha mai mostrato né simpatie né il minimo interesse per la figura di Rudolf Steiner; e lo stesso Rudolf Steiner era molto critico nei confronti di qualsiasi forma di "droga materiale", prediligendo le visioni indotte dalla sua "scienza dello spirito", che prevedeva lunghi esercizi di pensiero, concentrazione, meditazione, visualizzazione, educazione delle emozioni e via dicendo per risvegliare nell'uomo i sensi spirituali.
Eppure, mi trovo spesso, per i miei interessi, ad accostare letture apparentemente in antitesi tra di loro, salvo poi scoprire peculiari punti di contatto che, piuttosto che esacerbare il conflitto, non fanno altro che rivelare l'intrinseca unità di ogni forma di sapere (mi era già successo leggendo in parallelo Iniziazione all'Ermetica di Franz Bardon e La tecnica dell'autoipnosi di Ronald Shone).
Un aspetto peculiare delle esperienze psichedeliche è di mettere in contatto l'uomo con un reame spirituale che non solo sembra dotato di vita propria, ma che trasmette un senso di realtà superiore alla realtà stessa. Le visioni indotte dalle sostanze psicoattive hanno una ontologia a se stante, totalmente differente dai sogni e dalle allucinazioni. Quando sogniamo crediamo nel sogno finché vi siamo immersi; ma quando il sogno finisce, per quanto vivide potessero essere le visioni, cessiamo di credervi. Allo stesso modo l'allucinazione si rivela in quanto tale all'allucinato nel momento in cui cessa questo stato mentale alterato, sempre che avrà modo di ricordarselo. Tutto questo non avviene con le visioni psichedeliche. Esse immergono la coscienza umana in una realtà la cui veridicità non è messa in dubbio né prima né dopo l'esperienza. Lo stesso avviene durante le visioni spirituali indotte dalle pratiche di meditazione, ascesi e visualizzazione, come se nella coscienza si schiudesse una soglia, un varco verso un altro mondo. 
Ho trovato una descrizione perfetta di questo varco e delle sensazioni spirituali che contraddistinguono il passaggio proprio in un breve testo di Steiner: La soglia del mondo spirituale (Editrice Antroposofica), uno dei pochi testi scritti di suo pugno e che, dunque, come abbiamo visto nel precedente articolo, non peccano della ridondanza e della astrusità tipica dei suoi libri stenografati.
La soglia del mondo spirituale è un breve scritto che lo stesso Steiner aveva pensato come introduzione al suo pensiero. Ma ritengo che esso sia molto di più di una semplice introduzione. Nella sua linearità e concisione è in grado di descrivere in maniera magistrale le prime sensazioni che si provano quando si entra in contatto con "l'altro mondo", il reame che si nasconde al di là della materia, e qual è l'aspetto e la natura di questa soglia che si schiude solo a determinate condizioni. Gran parte delle descrizioni contenute in questo testo presentano molte affinità con le sensazioni del "passaggio" che si prova proprio all'insorgere dell'esperienza psichedelica, quando la coscienza abbandona i suoi orpelli contingenti e si abbandona alla totalità, entrando in contatto con un mondo dirompente. 
Questo senso di totalità, secondo Steiner, è il primo requisito da acquisire quando ancora si è "al di qua" della soglia, partendo dalle base stessa della coscienza: il pensare. "Il pensare" scrive Steiner "offre all'anima il conforto che le è necessario di fronte al sentimento di essere abbandonata dal mondo. [...] Che cosa sono io, nell'infinito flusso degli eventi universali, col mio sentire, col mio desiderare e volere, che hanno importanza solo per me? [...] Il pensare, che è connesso con quegli eventi del mondo, accoglie te insieme con la tua anima; tu vivi entro questi eventi, quando pensando ne accogli l'essenza. Ci si può sentire accolti dal mondo [...] non soltanto io penso, ma si pensa in me; il divenire del mondo si esprime in me; la mia anima offre soltanto il campo d'azione nel quale il mondo si esplica sotto forma di pensiero" (Rudolf Steiner, La soglia del mondo spirituale, Editrice Antroposofica, p. 11).
Questa "esperienza di picco" nel mondo materiale permette alla coscienza di iniziare a dilatarsi, di allargare i propri confini al di là di quelli del proprio cranio e a riconoscersi non soltanto come spettatrice passiva del mondo, ma come palcoscenico in cui il mondo stesso si riversa, un agente attivo con il mondo. Il pensare stesso, da questa prospettiva, diventa un "essere accolti" dal mondo, insinuarsi nel flusso del suo divenire partecipandovi con una peculiarità della specie umana unica e per molti aspetti ancora inspiegata, quella organizzazione della materia che gli ha permesso di poter essere consapevole del mondo. Ma si tratta di uno stato di coscienza differente dalle semplici sensazioni del mondo e dalle emozioni suscitate dal mondo. Il sentire e il patire sono movimenti con cui l'anima si immerge in se stessa. Ma il pensiero del mondo è un movimento che procede verso se stesso; un balzo con cui l'anima si libera da se stessa e si espande verso l'altro. Con questo movimento liberatorio comincia la sua emancipazione verso il mondo spirituale. Ha messo il primo piede di fronte alla Soglia del mondo invisibile.
Su questa soglia incontra il più grande ostacolo: il Guardiano della Soglia. Nelle tradizioni religiose e mitologiche, il Guardiano della Soglia è una figura archetipica. Egli è colui che veglia i luoghi segreti e i tesori nascosti; da un lato è un ostacolo, una figura di intralcio. Ma dall'altro è anche un alleato dell'eroe: con la sua funzione di ostacolo, infatti, impedisce all'iniziato di accedere a reami a quali non sarebbe spiritualmente pronto. Nel momento in cui l'iniziato lo sconfigge, il Guardiano ha terminato la sua funzione e si scansa confermando all'iniziato di essere pronto a varcare l'accesso alla dimensione che stava difendendo. 
Nel caso dei mondo soprasensibile, il primo e più importante guardiano della soglia siamo proprio noi stessi. Per Steiner, infatti, il nostro Guardiano è tutto ciò che compone la nostra coscienza egoica e contingente, che soffoca la coscienza cosmica impedendogli di accedere al mondo invisibile. La Soglia del Mondo Spirituale, infatti, è molto stretta ed è impossibile passarvi se prima non si è compiuto un lavoro di limatura su se stessi. Come scrive l'autore:
"Come in momenti particolari della vita ci si aggrappa a cari ricordi, così all'ingresso dei mondi soprasensibili vengono a galla necessariamente dalle profondità dell'anima tutte le inclinazioni di cui si è capaci. Ci si rende conto allora di quanto si sia in fondo attaccati alla vita che congiunge l'uomo col mondo dei sensi. Tale attaccamento si rivela allora nella sua piena verità, liberato da tutte le illusioni che di solito ci si fa in proposito. All'ingresso nel mondo soprasensibile [...] si realizza un frammento di autoconoscenza [...] e si rivela tutto ciò che bisogna abbandonare, se si vuole davvero penetrare con la conoscenza in quel mondo" (Rudolf Steiner, La soglia del mondo spirituale, Editrice Antroposofica, p. 47) e ancora: "Nell'uomo si annida un essere che vigila attentamente al confine che si deve superare, nel passaggio al mondo soprasensibile. Questa entità spirituale annidiata nell'uomo, questa entità che siamo noi stessi, ma che non possiamo riconoscere con la coscienza ordinaria [...] è il Guardiano della Soglia del mondo spirituale" (Rudolf Steiner, La soglia del mondo spirituale, Editrice Antroposofica, p. 48)
Ma quando si riesce a sgrossare tutto questo materiale in eccesso, la cui eliminazione risulta dolorosa, difficoltosa e paurosa, ecco che la Soglia si schiude (o, meglio, noi ci schiudiamo alla Soglia) e riusciamo a varcarla. Al momento dell'ingresso "Si scorge l'essere che si è sempre stati, ma ora non lo si vede dal mondo dei sensi, dal quale prima lo si era sempre osservato: lo si scorge senza illusioni, nella sua realtà, dal mondo spirituale. Lo si scorge, sentendosi pienamente compenetrati dalle forze di conoscenza che sono in grado di misurarne il valore spirituale" (Rudolf Steiner, La soglia del mondo spirituale, Editrice Antroposofica, p. 47)
Ecco che appaiono le visioni spirituali. Come per le visioni dell'esperienza psichedelica, le visioni di cui parla Steiner non sono mere allucinazioni. Sono immagini il cui valore, come per le lettere dell'alfabeto, non risiede nella loro forma, bensì nel loro significato.
Una medesima sensazione si verifica anche nell'esperienza psichedelica (o enteogena) quando la coscienza lentamente abbandona tutto ciò che le appartiene in quanto entità individuale, in un distacco doloroso che le permette però di espandersi. 
In questo processo, tuttavia, la memoria di una propria individualità deve essere conservata. L'esperienza del mondo dello spirito è possibile esclusivamente alla condizione che un "io osservante" permanga, scevro però da tutte le componenti che prima lo appesantivano. In particolare, il mondo materiale è una fucina spirituale che permette all'anima di costruire una propria autonomia che essa deve conservare nel mondo in cui varca la Soglia, altrimenti non potrà fare esperienze delle forme del mondo spirituale ma vivrà esclusivamente uno stato di unione mistica, in cui però la visione è come "preclusa", sperimentando, la coscienza, una totale coincidenza con la totalità. Si tratta dunque di vivere un'esperienza visionaria accompagnata dalla permanenza di sé - e, anche in questo caso, è ciò che accade con la maggior parte delle droghe enteogene, dove, abbandonate le strutture individuali, permane però sempre la memoria e una certa consapevolezza della propria unità. Come scrive Steiner "ogni esperienza consiste nel portarsi a coscienza quanto segue: adesso tu sei trasformato in questo modo particolare, dunque sei collegato in modo vivente con un essere il quale, per la sua natura, trasforma la tua in "questo modo". Questo trasformarsi, questo immergersi col sentimento in altre entità è la vita nei mondi soprasensibili" (Rudolf Steiner, La soglia del mondo spirituale, Editrice Antroposofica, p. 53).
Altro punto di contatto tra le esperienze visionarie di Steiner e le esperienze psichedeliche è l'ingresso, con questa coscienza dilatata, in un mondo popolato da entità senzienti, composte però da una materia sottile. Vi è una somiglianza sorprendente tra le testimonianze di incontri con entità riportate, ad esempio, da Strassman in DMT. La molecola dello spirito e gli elementali descritti da Steiner in questa e altre sue opere. In particolare, come scrive Steiner, sembra che la coscienza in questa dimensione "impara a conoscere esseri più o meno affini a lei stessa; si accorge però anche di trovare nel mondo soprasensibile degli esseri [...] con i quali deve confrontarsi per imparare a conoscere se stesse" (Rudolf Steiner, La soglia del mondo spirituale, Editrice Antroposofica, p. 64) e uno dei racconti ricorrenti nelle testimonianze riportate da Strassman, ma anche da psiconauti come Terence McKenna, è che le entità incontrate nel mondo spirituale, per quanto strane, aliene e sconosciute, siano spesso in grado di intessere lunghi colloqui esistenziali dai quali si ritorna come trasformati, con una coscienza di sé molto più profonda. La natura di queste entità è ancora molto discussa nell'ambiente psichedelico, benché sia quasi impossibile entrarvi in contatto senza provare la sensazione che esse esistano come esseri indipendenti. Da questo punto di vista, secondo Steiner, le entità del mondo sottile non sarebbero altro che esseri elementali: l'essenza stessa di cui è composto il reame sottile, così come la realtà materiale è composta, appunto, dalla materia, con la differenza che gli elementali sarebbero una sorta di "materia cosciente" del mondo spirituale. Ognuno di essi, dunque, possiede la propria individualità ma concorre anche a creare la realtà spirituale in cui sono immersi.
L'ultima, e più importante, coincidenza tra l'esperienza sovrasensibile di Steiner e le esperienze psichedeliche risiede nell'ontologia stessa dell'esperienza. Anche per Steiner la visione spirituale lascia l'uomo con la sensazione che essa veicoli un messaggio ancor più vero e reale di quello colto dai sensi e dalle emozioni nel mondo materiale, nel momento in cui si riesce a scorgere al di là delle immagini in sé: "Le esperienze spirituali si presentano certo, in un primo momento, come immagini: e come tali emergono dai sostrati dell'anima che si sia preparata. Esse hanno valore per la percezione soprasensibile solo se, per tutto il loro modo di presentarsi, non abbiano alcuna pretesa di essere considerate per se stesse [...]. Esse devono presentarsi come lettere dell'alfabeto che si abbiano davanti agli occhi: non si presta attenzione alla forma di questi caratteri, ma vi si legge ciò che per loro mezzo si esprime" (Rudolf Steiner, La soglia del mondo spirituale, Editrice Antroposofica, p. 17).
In conclusione, non voglio che questo articolo possa essere frainteso. Di certo non ho voluto intendere che Steiner facesse uso di sostanze psichedeliche, tantomeno che le esperienze psichedeliche siano di "natura steineriana". Anzi, l'aspetto sorprendente risiede proprio nel fatto che questi due filoni culturali paralleli siano in grado di condurre l'uomo a esperienze spirituali di natura molto simile come se il reale spirituale fosse un luogo a sé stante, la cui soglia, pur essendo unica, è tuttavia raggiungibile attraverso diverse vie.

Rudolf Steiner, La Soglia del Mondo Spirituale

Immagine: Rudolf Steiner, Sigillo dell'Apocalisse, Wikimedia Commons

Daniele Palmieri

mercoledì 9 febbraio 2022

Quando il tabacco era psicoattivo e la lattuga afrodisiaca: Droghe tribali di Giorgio Samorini

 



L'etnobotanica è una scienza, relativamente recente, che attraverso la botanica, l'antropologia e l'analisi incrociata delle tradizioni sciamaniche, magiche, religiose e folkloriche, studia il rapporto di simbiosi, a volte consapevole e altre inconsapevole, tra l'uomo e le specie vegetali.
Con il suo approccio interdisciplinare, in grado di integrare in maniera magistrale le scienze umane con le scienze "pure", nell'ultimo secolo l'etnobotanica si è fatta strada tra le diverse branche del sapere umano in maniera estremamente innovativa. La sua importanza, probabilmente, è ancora sottovalutata. Ma per chi si addentra nei meandri della materia è chiaro che essa sta rivoluzionando lo studio dell'uomo e della sua storia evolutiva, ambientale, sociale e religiosa, come se nel mondo vegetale - e nel rapporto dell'uomo con esso - si nascondesse la chiave di volta per comprendere molti misteri ancora insoluti.
Abbiamo già trattato, negli ultimi due articoli del blog (Rivoluzione psichedelica e Le Piante degli Dèi), parte della storia della riscoperta dell'uomo occidentale degli stati visionari di coscienza indotti da alcune sostanze vegetali e, per evitare di ripetermi, rimando il lettore a questi approfondimenti per inquadrare la questione nel suo sviluppo storico. 
Scrivo il presente articolo proprio per proseguire questa breve "trilogia", focalizzandomi sugli studi e i nomi "nostrani" in materia. Il lettore attento avrà infatti notati che i principali protagonisti sia della rivoluzione psichedelica sia degli studi etnobotanici citati nei precedenti articoli sono esclusivamente esteri. Ma l'Italia non è rimasta immune da questa rivoluzione del sapere e, anzi, ne ha anticipato alcuni aspetti, ad esempio con l'opera avveniristica di Paolo Mantegazza, scienziato, antropologo, viaggiatore e scrittore italiano del XIX secolo che, in anticipo con i tempi, intuì che una delle scienze del futuro sarebbe stata proprio la scienza delle droghe e del loro rapporto con l'azione e il pensiero umani. Egli stesso dedicò alle droghe, all'estasi e all'ebrezza diversi studi, tra cui Quadri della natura umana. Feste ed ebrezza (1871) e Le estasi umane (1887). Ma, cosa più importante per la storia dell'etnobotanica, fu uno dei primi scienziati ad approcciarsi alla materia in maniera "esperienziale", compiendo diversi viaggi in Sud America e studiando in loco la relazione tra l'uomo e le specie vegetali, come ad esempio la coca, di cui divenne un appassionato sostenitore.
Benché Mantegazza sia stato relegato ai margini del sapere dalla poco riconoscente cultura italiana, nonostante i suoi studi decisamente avveniristici, vi è chi, in Italia, ne ha preso a piene mani l'eredità. Sto parlando di Giorgio Samorini, il più importante etnobotanico italiano che, da molti anni, compie un lavoro di ricerca indipendente per diffondere, sia nel nostro paese sia all'estero, una diversa consapevolezza dello studio delle droghe e della relazione tra uomo e sostanze vegetali, mostrando un amore per il sapere estremamente raro e disinteressato per i nostri tempi, dato che egli stesso rende liberamente disponibili gran parte delle sue ricerche (e anche delle sue fonti) sul portale Giorgio Samorini Networkche negli anni è diventato un punto di riferimento imprescindibile per gli studiosi della materia. 
Come in Mantegazza, negli studi di Samorini le esperienze personali procedono di pari passo allo studio e all'analisi scientifica della materia trattata. Un approccio che permette di comprendere il fenomeno "droghe" in ogni sua sfaccettatura: quella scientifica, attraverso l'analisi chimica e botanica del perché certe droghe agiscono in un certo modo sul corpo e la mente umana, ma anche la componente fenomenologica, che permette di cogliere, attraverso l'esperienza soggettiva, quelle impressioni che non possono essere ridotte a puro dato scientifico e che richiedono, necessariamente, un'esperienza vissuta personale. Soltanto quest'ultimo aspetto consente di cogliere la materia anche nel suo sviluppo storico antropologico. E' un dato di fatto che la storia del rapporto tra l'uomo e le droghe sia la storia delle esperienze, siano esse mistiche, sciamaniche, visionarie o semplicemente voluttuarie, in ogni caso soggettive, che l'uomo ha avuto con le droghe, e l'analisi scientifica, nel senso moderno e "occidentale" del termine, che non tiene conto di questa componente non può che risultare monca.
Droghe tribali, pubblicato da Samorini con la Shake Edizioni, si sofferma proprio su questo rapporto atavico tra l'uomo e "l'esperienza del drogarsi", scardinando molti pregiudizi sul tema e, soprattutto, mostrando come l'uso autodistruttivo delle droghe sia figlio esclusivamente di una fetta della cultura umana: la moderna civiltà occidentale, che lo ha poi "esportato" anche in altre culture.
Droghe tribali è uno studio a tutto tondo sul rapporto tra l'uomo e le droghe nel corso dei secoli che, rispetto ai temi già affrontati negli ultimi articoli, espande il discorso soffermandosi non solo sulle droghe vegetali, ma anche sulle usanze apparentemente più "estreme" che hanno portato, e portano tutt'ora, alcune culture umane ad assumere droghe da fonti differenti: animali, insetti, escrementi e perfino altri esseri umani. 
"Ciò che mi spinge a rivolgere l'attenzione del lettore su queste bizzarre dimensioni dell'esperienza umana" scrive Samorini nell'introduzione "non è un mero gusto per il macabro o il ripugnante, bensì l'intenzione di non volermi fermare, nello studio dell'uso umano delle droghe, di fronte ai moralistici concetti di argomenti riprovevoli o inappropriati. Inappropriati lo siamo infinite volte noi, uomini di cultura occidentale, nell'interpretazione e nel giudizio dei comportamenti tribali. Le mie ricerche vanno ovunque ci siano le droghe e l'universalità dell'atto del drogarsi mi porta a studiare anche i comportamenti più estremi presenti nel sesso, nella guerra, nel crimine, nel suicidio, così come nella golosa ricerca di putrefazioni cadaveriche. C'è tanta umanità nei comportamenti estremi, c'è tanta inventiva, genialità fulminea, c'è tanta emozione e non solo sofferenza o fonte di ispirazione moralista, al punto che verrebbe da rivedere il nostro medesimo concetto di estremo(Droghe tribali, Giorgio Samorini, Shake Edizioni, p. 10).
Abbiamo già visto, nei precedenti articoli, che la rimozione occidentale delle droghe sacre è avvenuta in concomitanza con l'avvento del cristianesimo e nei lunghi e travagliati secoli che ci hanno portato fino all'epoca moderna il "giudizio inquisitoriale" sul tema, preso in eredità dalla giurisprudenza laica, è pressoché rimasto immutato: la droga allucinogena e lo stato alterato di coscienza sono di per se stessi degli atti criminali, indipendentemente dal danno (reale, potenziale o presunto) che possono causare a se stessi o agli altri. Questo pregiudizio di tipo principalmente morale, piuttosto che scientifico o legislativo, si riverbera anche sugli studi storici, religiosi e antropologici, come sottolinea a più riprese Samorini sia in Droghe tribali sia in diverse sue conferenze. Ne consegue che per diversi secoli buona parte degli studi e delle scoperte archeologiche sono stati viziati, e continuano oggi a essere viziati, da questo moderno tabù per le droghe, che soltanto negli ultimi anni sta iniziando a dissiparsi, grazie all'opera di autori coraggiosi come lo stesso Samorini. 
Sradicando il pregiudizio moralistico nei confronti delle droghe, ecco che si rivela una nuova storia dell'umanità. Le droghe sono sempre state parte integrante della nostra cultura, per gli scopi più disparati - e anche in una società "drogofoba" come la nostra, le droghe legali sono un motore continuo: si pensi a tabacco, caffeina, teina, zucchero, solo per fare alcuni esempi. 
In Droghe tribali questo rapporto di simbiosi è sviscerato anche negli aspetti apparentemente più macabri. Con l'occhio analitico e imparziale dello scienziato, Samorini riesce a penetrare anche nelle usanze apparentemente più "primitive" che rivelano però una sofisticata conoscenza pratica dell'utilizzo dei principi attivi, siano essi vegetali, animali o perfino umani. 
Veniamo così a conoscenza di processi estremamente complessi per "domare" i principi attivi, in modo da limitare i danni e potenziare gli effetti psichedelici, come l'usanza, tra gli antichi Olmechi del Messico, di allevare il Bufo marinus, rospo le cui secrezioni ghiandolari possiedono proprietà allucinogene, che veniva dato in pasto alle anatre, uno dei pochi animali in grado di mangiare questa specie di rospo senza subire effetti collaterali, che ne metabolizzavano i principi attivi meno tossici ma più potenti, per poi essere sacrificate e mangiate nei i banchetti sacri, permettendo all'uomo di accedere a questi principi attivi senza avvelenarsi. La scoperta di questo meccanismo è avvenuta proprio riflettendo, senza pregiudizi, sulla costante riproduzione artistica, a scopi sacrali, dei rospi e delle anatre tra i ritrovamenti archeologici legati al popolo Olmeco, ed è probabile che se fosse persistito il tabù nei confronti delle droghe, queste immagini sarebbero state interpretate in maniera esclusivamente superficiale, senza penetrare nel loro significato "pratico", come fonti di estasi visionarie. E' molto probabile che numerose immagini sacre di popoli del passato assumerebbero un altro significato se si sviscerasse il l'effetto concreto sul corpo umano dei soggetti rappresentati e, da questo punto di vista, è molto significativa l'interpretazione di Samorini data alla famosa "coda di rospo" contenuta in molte ricette magiche della stregoneria medievale. Come sostiene l'etnobotanico, gran parte dei principi attivi psichedelici metabolizzati dal rospo si accumulano proprio nel grasso della coda, ed è probabile, dunque, che essa venisse aggiunta non soltanto per superstizione, ma per gli effetti psichedelici e visionari che essa causava.
Da questo punto di vista, uno degli aspetti più interessanti del testo è la capacità di mettere in luce come il rapporto tra l'uomo e le droghe nel corso dei secoli, se non addirittura dei millenni, è consistito in una perpetua oscillazione tra la scoperta di nuovi principi attivi da parte di alcune popolazioni e la dimenticanza, oppure il mutamento del loro uso, quando essi sono stati o repressi o adottati da nuove civiltà, a dimostrazione di come la conoscenza, sia essa scientifica, filosofica, botanica, spirituale, non proceda mai in linea retta, ma di come sia soggetta e continui balzi casuali, ora in avanti ora indietro. Ogni civiltà, in base alla sua "sovrastruttura" sociale, politica e religiosa, è in grado di instaurare rapporti diversi con la medesima droga, ottenendo effetti diametralmente opposti. 
I due esempi principali e curiosi sono quelli legati a due sostanze vegetali: la lattuga e il tabacco.
La lattuga selvatica (Lactuga Serriola) è stata per molti anni soggetto di una vera e propria contraddizione etnobotanica: in Europa veniva utilizzata come un sedativo anafrodisiaco mentre in Egitto come un potente afrodisiaco; essa era infatti associata al dio Min, che quando ne mangiava in grandi quantità il suo fallo si erigeva oltre misura, per punire i prigionieri di guerra. Grazie ai suoi studi e alle sue sperimentazioni individuali, Samorini è riuscito a districare questo paradosso:
"Tagliando i fusti di tutte le specie di lattughe [...] fuoriesce un lattice bianco dal sapore amaro, identificato nell'antico Egitto con lo sperma di dio Min. Allo stato fresco questo sperma divino è tossico, ma fatto seccare assume un aspetto simile all'hascisc e ha un odore simil-oppiaceo: si è così ottenuto il lattucario, un'antica medicina usata nel Medioevo europeo come sedativo, analgesico e anafrodisiaco  [...] mentre a dosaggi più elevati, subentrano componenti stimolanti o perfino allucinatorie. Questa relazione dose/effetto trova riscontro nella composizione chimico-farmacologica dei principi attivi presenti nella lattuga(Droghe tribali, Giorgio Samorini, Shake Edizioni, pp. 64-68).
Tutto ciò a dimostrazione di come ogni vegetale, anche quello in apparenza più "semplice" come la lattuga selvatica, possa nascondere, oltre ad antichi e dimenticati usi storici, una farmacologia estremamente complessa, che spesso ha influito sulla storia stessa del rapporto tra l'uomo e queste specie vegetali. Come scrive Samorini, in maniera molto ironica: "Più volte, mangiando la lattuga da orto che mi osserva dalla mia comoda mensa, penso a quelle migliaia di prigionieri di guerra che hanno dovuto subire prolungate sodomizzazioni (l'effetto delle dosi egizie del lattucario dura 7-8 ore) per permettere agli antichi sodomizzatori, gli egiziani, di creare per selezione quella tenera e dolce insalata che passa oggi attraverso la mia bocca. I comportamenti umani a volte, oltre a essere strani, hanno conseguenze imprevedibili(Droghe tribali, Giorgio Samorini, Shake Edizioni, p. 71).
La seconda storia, quella del tabacco, è ancora più interessante, poiché emblematica della capacità dell'uomo occidentale di profanare e trasformare le droghe sacre per i suoi usi voluttuari, svuotandole del loro significato ma anche della loro potenza sacrale. 
Prima della sua "scoperta" del tabacco, avvenuta sulla fine del XV secolo, il tabacco era usato dai nativi americani esclusivamente a scopi sciamanici e religiosi, come tramite per la comunicazione con gli spiriti. E anche in epoca presente il tabacco, perfino nella sua forma "trasmutata" dall'uomo occidentale, viene utilizzato come "supporto" nei rituali con l'Ayahuasca e la Jurema. In entrambi i casi, sia nell'uso storico sia in quello moderno, il tabacco viene utilizzato per suscitare visioni ed espandere la coscienza. Eppure, nella sua forma "volgarizzata" e "commercializzata" dall'uomo occidentale, questi aspetti visionari sono del tutto assenti e, anzi, questa droga pare essere tollerata e diffusa proprio perché in grado di integrarsi con lo stile di vita dell'uomo occidentale moderno e la sua coscienza "normalizzata" e "produttiva", alla stregua del caffè, del thé e dello zucchero. 
Da cosa deriva questo paradosso? Come per il lattucario, è solo una questione di dosaggi, o vi sono motivi più profondi alle spalle?
Una delle ipotesi principali è che sia avvenuta una sorta di "selezione artificiale" da parte dell'uomo occidentale, che con gli anni avrebbe selezionato soltanto le specie dagli effetti meno visionari, creando così il "tabacco moderno". Ma, secondo Samorini, a fronte degli esigui studi compiuti in materia, bisogna riconoscere in questa desacralizzazione del tabacco una componente anzitutto culturale. 
L'occidentale ha letteralmente stravolto il "set" e il "setting" tipici dell'assunzione sacrale del tabacco. La coscienza rivolta al divino e al sovrasensibile è stata sostituita dalla coscienza materialistica e "cittadina", e le cerimonie sacre e i luoghi rituali sono stati sostituiti dalle "pause relax" e dal momento edonistico fine a se stesso. Come scrive Samorini:  "Il modello che ho intravisto [...] si basa sul fatto che la trasformazione in droga sociale di una pianta sacramentale provoca (o completa) la disattivazione dei suoi effetti visionari. Ernst Junger parlava di un "elemento dionisiaco" dell'effetto delle droghe, che la cultura occidentale mano a mano perde nell'uso di queste droghe, e ipotizzava che un affine processo di "addomesticamento" fosse accaduto anche nel vino [...]. Si potrà pensare che sto parlando nient'altro di tolleranza di una droga [...] forse v'è chi amerebbe parlare di "tolleranza sociale" [...]. Forse sto parlando di altro, di un meccanismo fisiologico-sociale che resta tutto da verificare e studiare [...] Tornando al tabacco, come si suol dire, oltre alla beffa, il danno, poiché non solo ci siamo privati delle sue proprietà più propriamente "dionisiache", ma l'abbiamo pure trasformato in uno dei più diffusi veleni di cui, con qualche masochismo peculiare della nostra società, ci nutriamo. Ecco, dunque, fin dove può giungere il processo di disumanizzazione della macchina culturale in cui viviamo, tale da disattivare, in pochi secoli, umani e plurimillenari sacramenti, chiavi esistenziali fondanti il nostro divenire. Di quale vizioso processo di addomesticamento della molecola selvaggia ci stiamo corazzando! [...] Non è da escludere che gli effetti "dionisiaci" di una droga siano disattivati solamente nella loro percezione conscia e vengano comunque esperiti dal sistema mente/corpo. In pratica, noi non ci accorgeremmo più della componente visionaria-dionisiaca degli effetti del tabacco, del caffè e delle altre droghe sociali, ma li vivremmo in toto e continuamente; è come se facessero parte del rumore di fondo mentale, la cui percezione conscia è inibita dalla continua presenza. Ciò porterebbe di conseguenza a una rivisitazione dello stesso concetto di sobrietà, dell'"Io sobrio" [...]" (Droghe tribali, Giorgio Samorini, Shake Edizioni, pp. 98-99)
Questo processo è esemplificativo del rapporto tra l'uomo occidentale moderno e le droghe. Citando una nota tesi dell'antropologo Graham Hancock, è come se in occidente fosse in corso, da secoli, una "guerra alla coscienza", volta a sradicare l'utilizzo delle sostanze enteogene, poiché inconciliabili con i dogmi religiosi, con la società gerarchica o, in epoca presente, con il sistema produttivo-capitalistico, e a privilegiare invece le droghe in grado o di renderlo produttivo, come il caffè, il thé, lo zucchero e il tabacco (nel suo uso desacralizzato) o che ne ottenebrano la coscienza (come l'alcool). D'altronde, come scrive lo stesso Samorini: "Non c'è uomo al mondo più profanatore di se stesso dell'uomo di cultura occidentale e il suo rapporto con i sacramenti è da secoli disastroso(Droghe tribali, Giorgio Samorini, Shake Edizioni, p. 100).

Droghe tribali, Giorgio Samorini, Shake Edizioni
Immagine: Codex Mendoza

Daniele Palmieri

sabato 22 gennaio 2022

Le Piante degli Dèi. La gnosi vegetale di Hofmann e Ratsch

Dopo l'ultimo articolo sulla Rivoluzione psichedelica, proseguiamo l'approfondimento sull'estasi indotta dalle piante sacre con un grande classico della materia: Piante degli Dèi, scritto a quattro mani da Albert Hofmann e Christian Ratsch e poi rivisto da Richard Evans Schultes, coraggiosamente ripubblicato di recente in Italia da Venexia Edizioni.

La storia del libro si lega strettamente alla rivoluzione psichedelica avvenuta nel lungo arco di tempo che va dalla scoperta (involontaria) dei poteri visionari dell'LSD, compiuta dallo stesso Hofmann nel 1943, fino all'apoteosi della diffusione dei movimenti di "controcultura" del '68, sebbene il testo, pubblicato nel 1979, giunge ormai a coronamento di una rivoluzione volta al suo termine, quasi a farne da coronamento. 

Quando Ratsch e Hofmann pubblicarono il testo, infatti, la morsa della legge si era abbattuta da tempo sulla molteplicità di sostanze psichedeliche che avevano contribuito a diffondere una differente visione del mondo e della coscienza, soprattutto negli Stati Uniti, ed erano state ormai bandite nei principali stati Occidentali, fatta eccezione alcune "concessioni" a scopo religioso.

Lo stesso Hofmann aveva avuto modo di riflettere in maniera critica su quanto era avvenuto nei decenni passati in un altro libro, forse il più noto dell'autore: LSD il mio bambino difficile (edito in Italia da Feltrinelli), anch'esso dato alle stampe nel 1979, da un lato riconoscendo le potenzialità dell'LSD e, in generale, delle sostanze psicoattive nell'espansione della coscienza umana, nonché nella storia delle religioni, ma dall'altro mettendo in guardia sull'uso sconsiderato che ne era stato fatto, soprattutto da figure come Timothy Leary, reo di averne "volgarizzato" l'utilizzo alle grandi masse, senza preoccuparsi delle possibili conseguenze legali e psicologiche.

Nonostante la "deriva" presa dalla rivoluzione psichedelica, non venne meno la consapevolezza di Hofmann sull'importanza delle sostanze psicotrope per la storia e l'evoluzione umana. Da qui la scelta di compilare una delle guide rivolte al grande pubblico più complete sull'argomento, in collaborazione con Christian Ratsch, antropologo ed etnobotanico tedesco che, fin dalla giovane età, si era occupato di studiare gli effetti delle piante allucinogene sulla psiche e la cultura dell'uomo. Similmente a studiosi come Wasson, infatti, era stato a stretto contatto con le popolazioni indigene del Sud America per studiare l'uso degli allucinogeni nelle tradizioni sciamaniche autoctone, vivendo con i Lacandòn nelle foreste del Chiapas (Messico).

Piante degli Dèi è un'opera coraggiosa e monumentale, volta a proseguire in maniera accademica gli studi antropologici e farmacologici sulle piante sacre e a compiere una summa delle scoperte (o, meglio, delle riscoperte) avvenute in materia fino al 1979, con la consapevolezza che dietro alle sostanze allucinogene vi fosse molto di più della deriva popolare e triviale presa dalla rivoluzione sessantottina. Come scrivono gli autori fin dall'introduzione del libro: "L'uso di piante allucinogene o che espandono la coscienza ha fatto parte dell'esperienza umana per molti millenni, tuttavia, solo di recente il mondo moderno occidentale si è reso conto dell'importanza che queste piante hanno avuto nel plasmare la storia, sia delle culture primitive che di quelle più sviluppate. Infatti, gli ultimi trent'anni hanno visto una vertiginosa crescita dell'interesse verso l'uso e il possibile valore degli allucinogeni nella nostra società moderna, industrializzata e urbanizzata. Le piante allucinogene sono complesse fabbriche chimiche, ma ancora pochi si rendono pienamente conto di quanto potrebbero contribuire alla soddisfazione dei bisogni profondi dell'uomo [...]. Non c'è dunque da stupirsi che esse abbiano giocato un ruolo importante nei riti religiosi delle prime civiltà, e che continuino a essere motivo di venerazione e timore presso alcune popolazioni" (Piante degli Dèi, Hofmann e Ratsch, Venexia Edizioni, p. 9).

Il filo conduttore del libro, molto più di un semplice dizionario, è l'idea che le piante sacre abbiano da sempre accompagnato l'uomo nel suo sviluppo religioso e spirituale e che il loro "bando", soprattutto nel mondo Occidentale (o a causa del mondo Occidentale) sia avvenuto in un'epoca relativamente recente della storia. Per millenni le piante sacre dagli effetti psicoattivi sono stati dei veri e propri portali vegetali in grado da fungere da collegamento tra il mondo materiale e il mondo degli spiriti. Lungi dall'essere un fenomeno isolato, la loro presenza e il loro utilizzo rituale è costante pressoché in tutto il mondo. A variare, chiaramente, è la sostanza utilizzata, in base alle piante "offerte" dalle regioni nel mondo. Ma la cosa sorprendente è che a diverse latitudini e longitudini del globo, in culture radicalmente differenti tra loro e mai entrate a contatto fino a determinati periodi storici, è sempre possibile rintracciare delle sostanze psicotrope che hanno accompagnato i riti e le pratiche sciamaniche, religiose o magiche. Così, per fare alcuni esempi, nell'Induismo delle origini si trovava il Soma, bevanda divina in grado di mettere in contatto l'uomo con la divinità, in cui Wasson identificò, come ingrediente principale, l'Amanita Muscaria; nel mondo Greco-Romano, per oltre 1500 anni, a farla da padrona fu il kikeon, il ciceone, nettare iniziatico a cui si abbeveravano gli iniziati ai misteri eleusini il quale, secondo Hofmann e anche secondo alcune scoperte archeologiche recenti, sarebbe stato preparato con la Claviceps Purpurea, o ergot, il fungo della segale cornuta; nell'estremo Nord-Ovest dell'America meridionale gli sciamani delle popolazioni autoctone hanno usato, e usano tutt'ora, una pozione inebriante e psicoattiva, chiamata in lingua quechua Ayahuasca (rampicante dell'anima), un decotto vegetale estremamente sofisticato dal punto di vista chimico, composto da piante di diverse famiglie, tra le quali le più importanti sono la Banisteriopsis caapi e le foglie di chacruna (Psychotria viridis); nel culto bwiti e di altri gruppi iniziati del Gabon è possibile trovare l'iboga (Tabernanthe iboga), radice dal colore giallastro utilizzata dagli sciamani per condurre l'iniziato nel mondo dei morti, facendo vagare la sua anima al di fuori dal corpo anche per diversi giorni; in Messico gli Aztechi svilupparono una grande devozione nei confronti della cosiddetta "carne divina", i funghi psicoattivi che usavano nelle loro cerimonie più solenni. 

In Occidente il declino e la persecuzione di questa forma di iniziazione al mondo spirituale è avvenuto con l'avvento del Cristianesimo che, limitando esclusivamente alle pratiche ascetiche la possibilità di entrare in contatto con il divino e additando come pagane ed eretiche tutte le pratiche che coinvolgevano l'uso di sostanze psichedeliche, ne bandì l'utilizzo, interrompendo, dopo una eredità millenaria, il culto di Eleusi, sopravvissuto fino ad allora a ogni conquistatore. Un atteggiamento manifestatosi più volte nel corso della storia del Cristianesimo, identico a quello perpetrato sia nei confronti delle "streghe" ree di utilizzare unguenti dagli effetti psicoattivi (contenenti, infatti, piante analizzate dal testo di Hofmann e Ratsch) sia dai primi missionari cristiani che entrarono in contatto con le popolazioni autoctone del Sud America, che bandirono vere e proprie crociate per sradicare il culto e l'utilizzo delle piante sacre. 

E' interessante, in questo caso, compiere una connessione con un altro testo sulle piante sacre, Pharmakognosis di Dale Pendell (Add Editore), in cui l'etnobotanico sottolinea come l'atteggiamento inquisitoriale nei confronti delle piante sacre sia stato ereditato, in maniera pressoché immutata, dalla mentalità sociale e giuridica contemporanea. Come avvenuto durante le persecuzioni religiose perpetrate dall'Inquisizione, lo stato alterato di coscienza viene percepito a priori come un tabù, anche quando indotto da sostanze che non presentano alcun effetto collaterale sulla salute, e perseguitato dalla legge in quanto tale - formalmente per le possibili azioni pericolose per sé e per gli altri che si potrebbero compiere, ma essenzialmente per la paura indotta dal cristianesimo nei confronti della dell'esperienza visionaria diretta e per la capacità dello stato alterato di coscienza di mettere in luce il non-senso di gran parte delle strutture sociali, e di sovvertire così l'ordine costituito. D'altronde, perfino l'esperienza diretta della divinità indotta dai mistici attraverso le pratiche ascetiche è sempre stata vista con sospetto anche dalla Chiesa e, in fin dei conti, ogni mistico sapeva di muoversi sul confine delicato e sottile tra santità ed eresia.

Ma questo sospetto è in gran parte immotivato e pregiudiziale. Come illustra in maniera estremamente dettagliata Piante degli Dèi, l'uomo ha sempre convissuto in simbiosi con le piante sacre. Il loro abuso è figlio esclusivamente della società moderna, proprio perché, a differenza delle civiltà tradizionali, ne è stato smantellato l'utilizzo rituale, che permetteva di avere esperienze mistiche guidate e in situazioni controllate, minimizzando il rischio di "eventi avversi". Come sottolinea Giorgio Samorini in un dialogo con Marco Maculotti su Axis Mundi dedicato proprio al libro (qui il dialogo), è incredibile constatare la capacità da parte di società erroneamente definite "primitive" di gestire piante sacre dagli effetti potenzialmente mortali, come l'iboga, che molti chimici esperti della società occidentale non si arrischierebbero a usare, data l'alta tossicità. E questo perché, ben prima dello sviluppo della chimica moderna, l'uomo era stato in grado di conoscere, sperimentare e utilizzare i principi attivi delle piante sacre, attirato dal fascino sacro dei loro effetti il cui significato, ancora oggi, resta un profondo mistero.

Come scrivono, infatti, Hofmann e Ratsch: "ancora non si conosce quale sia la funzione di queste sostanze speciali nella vita della pianta stessa [...]. Il motivo per cui alcune piante producono sostanze con effetti specifici sulle funzioni mentali ed emotive dell'uomo, e sulla sua capacità di percezione, persino di ste stesso, rimane quindi uno degli enigmi risolti della natura(Piante degli Dèi, Hofmann e Ratsch, Venexia Edizioni, p. 20). Un mistero che, tuttavia, sembra essere intrinsecamente connesso con l'evoluzione umana - a tal punto che, secondo autori come McKenna, lo stesso salto evolutivo dell'uomo è stato possibile proprio grazie all'incontro con le sostanze allucinogene, che avrebbero contribuito allo sviluppo della coscienza (tesi avanzata ne Il cibo degli dèi, qui la recensione).

Se solo non fossero soffocate dal peso del pregiudizio e del sospetto, la scienza e la chimica moderne, in collaborazione con l'antropologia ma anche la religione e, in generale, le materie collegate ai reami dello spirito, potrebbero risolvere questo mistero. D'altronde, come scrivono Hofmann e Ratsch: "Si potrebbe pensare che con l'isolamento, l'analisi strutturale e la sintesi della psilocibina e della psilocina, i funghi messicani abbiano perso la loro magia. Per migliaia di anni gli Indios hanno creduto che nei funghi abitasse un dio, proprio a causa degli effetti sullo spirito di quelle sostanze che, ora, invece, possono essere prodotte sinteticamente in un pallone di vetro per reazioni chimiche. Ma non si deve dimenticare che la ricerca scientifica ha soltanto dimostrato che le proprietà magiche dei funghi coincidono con le proprietà dei due composti cristallini: il loro effetto sulla mente umana rimane tanto prodigioso e inspiegabile quanto quella dei funghi stessi. E questo vale anche per quanto riguarda i principi attivi isolati e purificati di altre piante degli dèi" (Piante degli Dèi, Hofmann e Ratsch, Venexia Edizioni, p. 23).


Piante degli Dèi, Hofmann e Ratsch, Venexia Edizioni


Daniele Palmieri

giovedì 20 gennaio 2022

Rivoluzione psichedelica: la storia, i protagonisti e i retroscena del 68 raccontati da Mario Iannaccone



La rivoluzione culturale del '68 ha avuto un impatto incredibile sulla cultura post-bellica del mondo occidentale. Con tutti i suoi pregi e i suoi difetti, essa scardinò i comuni modi di pensare, fu il trampolino di lancio per la conquista di ulteriori diritti civili, per la rivoluzione sessuale e la distruzione di molti preconcetti bigotti di lunga data. Tuttavia, il '68, universalmente riconosciuto come anno di svolta, in realtà fu soltanto la punta dell'iceberg. Nessuna rivoluzione nasce dal nulla. Nessuna rivolta prende piede se prima non sono state create le condizioni culturali affinché essa si verifichi. Lo stesso dicasi della rivoluzione sessantottina, intrinsecamente connessa a un'altra rivoluzione, dei decenni precedenti: la rivoluzione psichedelica. Ed è proprio a questa complessa rivoluzione, fatta di artisti, poeti, scienziati, chimici ma anche servizi segreti, che Mario Arturo Iannaccone ha dedicato un bellissimo saggio: Rivoluzione psichedelica, prima dalla Sugarco Edizioni e ora dalle Ares Edizioni.
Rivoluzione psichedelica è uno di quei libri che ti apre un mondo, in grado di entrare nelle pieghe della storia sia collettiva sia dei pionieri culturali che, più o meno volontariamente, con le loro vicende personali si adoperano per creare la storia, e riesce nel difficile compito di mostrare quanto le opere e i pensieri di un autore siano intrinsecamente connessi da un lato alle sue vicende di vita e, dall'altro, ai fermenti sociali della sua epoca.
Come mette in luce Iannaccone nel libro, il '68 è cominciato molto prima del 1968. La rivoluzione psichedelica della seconda metà del '900 aveva mostrato i primi germogli nelle visioni estatiche e decadenti di Baudelaire, De Quincey e Coleridge, per poi mettere solidi radici nelle scoperte e negli studi di Hofmann, primo sintetizzatore dell'LSD, crescere e dispiegarsi tra l'elite colta con le narrazioni di Aldous Huxley e Ernst Junger e infine sbocciare e approdare al grande pubblico con i folli esperimenti psicologici di Timothy Leary che, "iniziatore del nuovo millennio", rifondò una rinnovata Eleusi radunando attorno a sé tutta una nuova schiera di "fedeli", simili ai novizi accalcatisi attorni al templio descritti da Plutarco in uno dei suoi moralia. 
Quasi si fosse manifestata nella forma di un imbuto cosmico, tra gli anni '40 e gli anni '70 la rivoluzione psichedelica accomunò, come scrive Iannaccone, "persone che non avevano niente in comune tra loro", ognuna con la propria visione, i propri scopi e i propri piani, ma tutte legate da un filo conduttore: gli effetti stupefacenti delle "nuove droghe" sulla mente umana. Tra essi, solo per citare alcuni dei principali protagonisti, vi furono, Hofmann, il chimico mistico, che fin dalla prima, involontaria, esperienza con LSD da lui sintetizzata si accorse del potenziale, ma anche del pericolo, rappresentato da questa sostanza. Aldous Huxley, l'intellettuale che si occupò di "convincere" l'elite culturale della scoperta rivoluzionaria fatta da Hofmann e delle possibilità che essa dischiudeva per la coscienza e l'evoluzione umana; ma anche la CIA e le trame occulte del potere, che presto tenderà i suoi tentacoli verso queste nuove droghe per inserirle nei propri progetti segreti, come l'MkUltra, per studiare nuove tecniche di interrogatorio, lavaggio del cervello (brainwashing) e condizionamento del comportamento; Infine, Timothy Leary, lo psicologo di cui, all'interno del libro, seguiamo la lenta ascesa (o discesa, dipende dai punti di vista) da rinomato professore dell'università di Harvard a messia della nuova religione psichedelica, che in pochi anni passerà da rigorosi studi psicologici nelle aule universitarie alla creazione di comuni volte a creare una nuova umanità, dedita all'esplorazione dei reami psichedelici.
Questo "gruppo eterogeneo" formò l'epicentro di un vero e proprio terremoto, che presto scatenò un'ondata di curiosità, seguita dalle successive esperienze psichedeliche, tra artisti, studenti, scienziati, gente comune, complice il ventennio per il quale queste droghe sperimentali erano ancora permesse dalla legge e spesso acquistabili in farmacia sotto ricetta medica, oppure ampiamente diffuse nei laboratori sperimentali dei dipartimenti di chimica e psicologia delle università.
Benché, come accennato, già i poeti decadenti di fine ottocento avessero iniziato a esplorare i reami delle visioni schiusi dalle droghe, la loro poetica e la loro vita rimase spesso relegata ai margini della società. Essi trasmettevano il fascino malinconico di una rovina erosa dai secoli; quel tipo di fascino di cui è possibile godere, esteticamente, soltanto rimanendo all'esterno dell'esperienza ma che, di certo, non si vuole provare sulla propria pelle.
La rivoluzione psichedelica che ebbe inizio con la scoperta dell'LSD fu di tutt'altra natura. Questa nuova droga non trascinava nella palude del decadentismo, ma sembrava riportare alla luce, dai reami nascosti della coscienza, l'atavico simbolismo dei misteri iniziatici, dei miti della creazioni, delle visione dei mistici e dei santi. La distruzione dell'ego non avveniva con un lento e progressivo avvelenamento, che portava il poeta ad autodistruggersi come una rovina lasciata alle intemperie, ma attraverso un'elevazione dello spirito che veniva letteralmente trascinato in un'altra dimensione: il lato nascosto delle cose descritto da mistici, iniziati e visionari di ogni secolo. 
Questa esperienza, come quella della mescalina, sembrava indurre una iniziazione istantanea, in cui l'io non si sentiva spaesato nel labirinto delle visioni proiettate dal proprio inconscio ma, al contrario, sembrava cogliere con uno sguardo l'intrinseco significato dell'Universo.
Un esempio è l'esperienza con la mescalina avuta dal portavoce del Partito Laburista inglese Christopher Mayhew, ripresa dalle telecamere della BBC (è possibile vederla qui) che, nonostante il tentativo di mantenere l'autocontrollo, verrà sempre di più trascinato oltre le "porte della percezione" (come le definirà Huxley), fino ad ammettere: "Sono molto interessato al problema dell'adesso, qualunque cosa sia. E questo... esperimento, per me, è stato un grande successo. Al momento mi sto muovendo da un tempo a un altro e poi ancora indietro. Non sono molto consapevole di muovermi nello spazio [...] mentre lo sono... del muovermi nel tempo... e del fatto che non esiste il tempo assoluto... e nemmeno lo spazio... questo è ciò che imponiamo al mondo esterno... e più percepisco questo, più mi sento rilassato" (Cristopher Mayhew, citato in Rivoluzione psichedelica, Mario Arturo Iannaccone, Sugarco Edizioni, p. 57).

Queste esperienze indotte dalle droghe, dunque, non catapultavano il soggetto in un labirinto di delirio e allucinazione ma, al contrario, lasciando la coscienza vigile lo trasportavano in un mondo di visioni colme di significato. Proprio per questo l'esperienza non rimaneva limitata a un evento soggettivo: come avveniva per le visioni descritte dei mistici delle grandi religioni, i soggetti raggiungevano la consapevolezza di aver avuto accesso a un reame più alto, di aver sfiorato la natura stessa dell'universo. A più riprese nel libro di Iannaccone si accenna al fatto l'esperienza 
psichedelica prendeva sempre di più l'aspetto di una nuova gnosi. Come per le varie correnti gnostiche, infatti, la differenza tra l'iniziato e il non-iniziato risiedeva non tanto in quello che l'iniziato sapeva, bensì in quello che l'iniziato viveva. Non a caso, dopo l'ondata teosofica che nella prima metà del '900 aveva fatto filtrare, per la prima volta, le conoscenze orientali in occidente, è in questi anni che si assiste a un revival delle tradizioni religiose induiste, buddhiste e zen, ad opera proprio di "psiconauti" come Timothy Leary, che aveva trasformato il Libro Tibetano dei Morti, insieme a Metzner e Alpert, in una guida al viaggio psichedelico - avendo riscontrato una estrema somiglianza tra le visioni del Buddhismo Tibetano e quelle indotte dall'LSD, ma anche di studiosi come Alan Watts che, seppur presto distaccatosi dal movimento e dall'esperienza psichedelica, sottolineando l'importanza della meditazione "pura", contribuirà a espandere il fascino per gli allucinogeni e le dottrine orientali con testi come The Joyous Cosmology. Ma è anche in questi anni che iniziano a essere riconosciuta, a livello storico e antropologico, l'importanza delle sostanze psicoattive per la genesi delle religioni e dei poteri visionari della mente, ad esempio con gli studi di Gordon Wasson, micologo e antropologo indipendente, che rintraccerà nell'amanita muscaria l'ingrediente segreto del Soma vedico, bevanda sacra dagli effetti psicoattivi ritenuta alla base del sorgere dell'intera poesia e simbologia vedica.
A un certo punto, tuttavia, la situazione sfuggì di mano. Mentre Huxley e Hofmann ritenevano di dover mantenere un atteggiamento più riservato, di diffondere, sì, le sostanze psichedeliche per trasformare radicalmente la civiltà ma di partire dalle elite, Leary adottò un approccio inizialmente più "democratico" che, presto, sfociò nel populismo e poi nel "messianismo". Autoproclamatosi Gran Sacerdote della nuova religione psichedelica, cadrà nell'errore di "dare perle ai porci" e diffondere a macchia d'olio la rivoluzione psichedelica senza preoccuparsi del grado di preparazione psicologica dei suoi nuovi adepti e fondando a più riprese e in luoghi disparati delle comuni indipendenti basate sulla psichedelia che, però, si trasformavano presto in covi di sbandati. Parallelamente, gli psichiatri cominciavano a moderare l'entusiasmo terapeutico nei confronti dell'LSD e la CIA stava perdendo interesse nei confronti di queste sostanze, ritenendole poco funzionali ai propri studi sul controllo della mente. 
Complici diversi scandali giunti all'eco dell'opinione pubblica, e così, nel 1966, fu resa illegale, seguita a ruota dalle altre sostanze psichedeliche attorno alle quali, anche nei giorni nostri, continua a stringersi il severo cappio della legge.
E così siamo giunti al '68: l'apice di questa lunga avventura durata almeno trent'anni ma anche il suo canto del cigno: l'ultima esplosione di visioni e vitalità proveniente dai reami psichedelici.
Ma quelle visioni ci sono state, così come il tentativo di sovvertire il comune modo di vedere la realtà; consiglio dunque di leggere Rivoluzione psichedelica di Mario Arturo Iannaccone per immergersi in un lungo viaggio nei reami dell'estasi. Un libro avvincente e scorrevole come un romanzo ma preciso e ricco di fonti come una degna ricerca accademica.

Rivoluzione psichedelica, Mario Arturo Iannaccone, Ares Edizioni

Daniele Palmieri

giovedì 6 gennaio 2022

Le tavole iguvine: il più antico documento rituale dell'Italia arcaica

 


Gubbio, 1444. Nel borgo medievale divenuto noto per le predicazioni di san Francesco e per l'episodio della "addomesticazione del lupo" raccontata nei Fioretti, riemergono, nei pressi dell'antico teatro romano, sette misteriose tavole di bronzo, ossidate dai millenni fino ad assumere una colorazione verdastra. Nell'atto notarile datato 1456 con cui il comune acquisì la proprietà delle tavole, il ritrovamento viene attribuito a un'abitante locale, una certa Presentina. 
Già all'epoca gli studiosi e gli eruditi si accorsero di avere tra le mani un documento eccezionale. Le sette tavole, infatti, riportano incisi, sul fronte e sul retro, una lunga serie di caratteri antichi. Le frasi in lingua nota sono in latino arcaico. Ma affiancate al testo latino, ecco riaffiorare dal passato due antiche lingue dimenticate: l'etrusco e l'umbro, parlato nell'antica Ikuvium. 
Le tavole divengono presto un vero e proprio labirinto per i filologi e gli studiosi del pensiero classico. Gli stessi testi sono infatti incisi in alfabeti e lingue differenti. I medesimi passi possono cioè essere ritrovati in lingua latina con alfabeto latino, in lingua umbra con alfabeto umbro, in lingua umbra con alfabeto latino e in alfabeto etrusco.
Nonostante la chiave interpretativa fornita dal testo in latino, la traduzione dei passi in lingua umbra fu, per secoli, un vero e proprio rompicapo, complicato dal fatto che, fino in epoca recente, l'alfabeto e la lingua umbra non erano stati riconosciuti in quanto tali, ma erano stati erroneamente assimilati all'alfabeto e alla lingua etrusca. Soltanto Lepsius, circa 150 anni fa, ha dimostrato la presenza, nelle tavole, di una antica lingua italica fino ad allora dimenticata.
Tuttavia, l'eccezionalità delle tavole, come uno spaccato unico sulla ritualità dell'Italia arcaica, fu sempre riconosciuta. Bagnolo nel 1792 le riteneva un "documento sommamente prezioso, a cui altro simile fra tanti avanzi dell'antichità non è rimaso in tal genere, che ci presenti a disteso tutta l'intera serie e l'economia di quella sagra funzione" e Giovanni Devoto, studioso novecentesco delle tradizioni italiche, le definisce come il "più importante testo rituale di tutta l'antichità classica" (Bagnolo e Devoto, citati in Le tavole iguvine, Augusto Ancillotti, Romolo Cerri, Edizioni Jama Perugia, p 35).
Le tavole iguvine sono infatti il documento antico più esteso e dettagliato nel descrivere le usanze rituali delle popolazioni autoctone del suolo italico. 
Le tavole III e IV sono state datate al III secolo a.C., la I e la II al II secolo a.C., la V al II secolo a.C. e le più recenti, la VI e la VII, al I secolo a.C., ma, come spesso avviene per questi documenti epigrafici, la norme trascritte, ritenute di importanza capitale per la società e la religione, vengono impresse su materiali nobili e imperituri dopo una lunga trasmissione prima orale e poi su materiali deperibili. E' molto probabile, dunque, che l'origine dei riti descritti e delle divinità citate sia da rintracciare molto più in là nel tempo rispetto alla materialità delle tavole.
Come scrivono Augusto Ancillotti e Romolo Cerri ne Le tavole iguvine: "Le tavole sono state redatte in momenti diversi e da mani diverse, in genere con lo scopo di rendere indeperibili i testi originariamente stesi su materiale deperibile (come potevano essere la tela di lino o la pergamena). La presenza di fori per l'affissione dipende dal fatto che in un secondo momento (forse in epoca augustea) le tavole furono esposte, probabilmente per esaltare la nobiltà delle radici culturali di Iguvium. La composizione dei testi che troviamo scritti nel bronzo è dunque ben più antica della della fattura fisica delle tavole e la datazione è ben più incerta" (Le tavole iguvine, Augusto Ancillotti, Romolo Cerri, Edizioni Jama Perugia, p. 38).
Nelle tavole sono stati individuati nove testi principali, così riassunti da Ancillotti e Cerri: 
1) La cerimonia piaculare e lustrale
2) Una trascrizione breve delle due precedenti cerimonie
3) La cerimonia per auspicio avverso
4) Un sacrificio rituale del cane
5) La cerimoniia delle riunioni tributarie
6) Il cerimoniale delle Stentasie
7) Le norme sui compensi e sulle multe che regolano le funzioni dell'officiante
8)Le norme tributarie che regolano gli scambi tra le circoscrizioni e la confraternita. 
9) Doveri e multe del capo dei confratelli. 
Il grande interesse sia storico sia religioso di questi testi è che essi descrivono in maniera minuziosa ogni fase del rituale: le azioni, i luoghi sacri, i sacrifici (sia cruenti sia non cruenti), l'interpretazione augurale del volo degli uccelli, le preghiere e, soprattutto, le divinità dedicatarie. Considerati nel loro complesso, costituiscono un vero e proprio viaggio nel passato nella Ikuvinum arcaica e nelle descrizioni dell'antico perimetro sacro, delle danze e delle offerte sacrificali e della solennità delle preghiere sembra rivivere la potenza degli antichi numi.
Basti citare, a esempio, parte del rito della purificazione della città contenuto nella VI tavola, in cui vengono descritti nel dettaglio i confini sacri del paese e in cui viene invocata la potenza di Giove Grabovoio per innalzare una protezione metafisica:
"E questi sono i confini della città: a partire dal punto dei confini all'altezza delle rocce augurali nella direzione delle porte, al ponte, ai cortili di Norbio, alle curve del fiume, alla palude, al tetto della famiglia Miletina, fino al terzo dei terrapieni di prosciugamento. Sempre dal punto all'altezza delle rocce augurali, alla grotta del dio Vesticio, al loggiato di Rufro, al tetto della famiglia Nonia, al tetto di Salio, alla grotta del dio Hoio, al passaggio sacro alla divinità dei transiti. Al di sotto di codesti confini [...] si devono rilevare da destra un'upupa e una cornacchia; al di sopra di codesti confin i si devono rilecvare da sinistra un picchio e una gazza. Se i messaggi si saranno espressi a favore, sempre sedendo nel capanno, chiami per nome l'officiante e lo assicuri [...]" e a quel punto il sacerdote, compiuto il sacrificio, prosegue con questa preghiera dedicata a Giove Grabovoio: "Invoco Te come Giove Grabovoio con questa preghiera per la Rocca Fisia, per la città di Gubbio, per il nome di quella, per il nome di questa. Sii favorevole, sii propizio alla Rocca Fisia, in nome di quella, al nome di questa. Con questa formula ti rivolgo preghiera, come Giove Grabovoio, e proprio confidando nella formula rituale, ti rivolgo la mia preghiera come Giove Grabovoio. Mi rivolgo a te come Giove Grabovoio con questo bove maturo, come sacrificio espiatorio per la Rocca Fisia e per la Città di Gubbio; per il nome di quella e per il nome di questa. O Giove Graboboio, se nel corso della nota attività sacrificale il fuoco è stato acceso nella Rocca Fisia, o se nella Città di Gubbio sono state introdotte delle curie inaccettate, sia come non voluto. O Giove Grabovoio, se nella cerimonia a te sacra qualcosa è andato storto, è andato male, è stato differito, è stato antipatico, è andato perduto, se nella cerimonia a te sacra c'è un difetto che si vede o non si vede, o Giove Grabovoio, se poi è giusto che si sia purificati con questo bove maturo, come sacrificio espiatorio, allora, o Giove Grabovoio, purifica la Rocca Fisia, purifica la città di Gubbio [...] purifica i guerrieri, le curie, i capifamiglia, il bestiame, i poderi e le messi. Sii favorevole, sii propizio con la tua pace [...]".
Le divinità citate nelle preghiere, dedicatarie delle offerte rituali, mostrano l'originalità della religione italica e come essa non fu il semplice riflesso della religione greca. Queste divinità primordiali sembrano agire, nella descrizione dei rituali, non tanto quanto esseri antropomorfi, ma come "numi", appunto, "volontà", potenze primordiali che si manifestano con segnali e messaggi, come il volo degli uccelli, e che retrostanno alla forza degli elementi e degli eventi cosmici (senza però mai coincidere con essi). Di volta in volta questo "nume" prende un nome differente. Un nome in cui, però, non si esaurisce tutta la sua forza, ma che è solo un vano tentativo, da parte del sacerdote, di coglierne una parte, di incanalarla ora a protezione della città, ora nella forza dei soldati, ora nel portare giustizia sociale. Il nome rappresenta dunque un aspetto di una divinità che non si esaurisce in quell'epiteto. Come suggeriscono anche Ancillotti e Cerri nel chiarire una loro scelta di traduzione nelle invocazioni alle divinità: "Traduciamo "Invoco Te come Tefro Giovio" perché il nome della divinità chiamata non è in caso vocativo, ma si trova nello stesso caso dell'oggetto del verbo "invocare", cioè "Te"; tale nomee allora può essere inteso come complemento di denominazione, o apposizione se si vuole, ma non come complemento di invocazione. Perciò il teonimo non è la divinità, ma un appellativo della divinità. Come dire che il divino può presentarsi sotto diverse denominazioni (=funzioni)"(Le tavole iguvine, Augusto Ancillotti, Romolo Cerri, Edizioni Jama Perugia, p. 80).


Ancora oggi, le tavole dimorano nel luogo che gli diede i natali: Gubbio. Come custodi silenti, testimoni di un passato ormai trascorso ma, in realtà, sempre presente, sono esposte in eleganti cornici di legno nel Palazzo dei Consoli di Gubbio, e i loro caratteri misteriosi sussurrano i nomi e le potenze di divinità mai del tutto sopite.
Per chi volesse approfondirne la storia, consiglio il testo che ho utilizzato da base per il presente articolo: Le tavole iguvine, Augusto Ancillotti, Romolo Cerri, Edizioni Jama Perugia, oppure il loro lavoro maggiore: Le tavole di Gubbio e la civiltà degli umbri.

Daniele Palmieri